Ultimi souvenir dal Festivaletteratura di Mantova

di Marcella Onnis

Souvenir nn. 1-4

Souvenir nn. 5-7

Souvenir nn. 8-10

Souvenir n. 11

Souvenir n. 12: la musica ebraica

Nel souvenir n. 3 ho parlato di scelte azzardate e fortunate: ecco,  una di queste per me è stata la lezione dal titolo “Esiste una musica ebraica?”. L’ho scelta seguendo l’istinto, forse perché da quando ho scoperto (innamorandomene) David Grossman mi è sorta la curiosità di conoscere meglio la cultura ebraica.

L’incontro meritava davvero di essere seguito perché, oltre ad essere una lezione giocosa sulla musica ebraica (con qualche incursione nella cucina e nella cultura in generale), è stato anche un micro-concerto. Il “maestro” Enrico Fink non si è, infatti, limitato a parlare, ma ha anche cantato e suonato con il flauto traverso  qualche frammento di brano, accompagnato da Riccardo Battisti alla fisarmonica.

Il titolo della lezione nasce dal fatto che esistono più musiche ebraiche, alcune delle quali sono state tramandate nel tempo, quali quelle delle comunità ebraiche italiane. Queste, infatti, ha spiegato Fink, «sono piccole, tante e, diversamente da altre nel mondo, hanno una continuità ne tempo e hanno lasciato testimonianze anche musicali.» Quella mantovana, in particolare, nel periodo a cavallo tra XVI e XVII secolo era tra le più importanti e ha dato i natali ad uno dei più grandi compositori ebrei: Salomone Rossi. Le sue composizioni non erano solo liturgiche ma anche popolari, tuttavia, con il tempo furono dimenticate, per poi essere recuperate non nella musica sinagogale italiana, bensì nella musica barocca che tuttora viene eseguita.

Per decenni, ha raccontato Fink, i musicologi si sono interrogati sulla definizione di musica ebraica. Lo stesso problema – ha sottolineato – c’è stato con la cucina e «sono molti a credere che esistano tante musiche e cucine quanti sono i luoghi e i tempi della diaspora ebraica.» La cucina comprende tante pietanze apparentemente diverse che, però, a ben guardare rivelano «caratteristiche comuni legate non al gusto ma alla funzionalità.» Funzionalità a sua volta legata alle regole, in particolare dello Shabbat (la festa del riposo osservata ogni sabato) durante il quale non si possono accendere o spegnere fuochi. Né si possono usare strumenti: si può solo cantare. Ed ecco che, quindi, le regole condizionano anche la musica. La liturgia ebraica è molto lunga, complessa e cantata. Non solo: ha raccontato il “maestro” che quando l’ebraismo si è diffuso nel mondo, la tradizione è entrata in un periodo di lutto per cui è stato proibito di manifestare eccessivamente la gioia. Da qui la proibizione di scrivere e suonare musiche troppo gioiose o non strettamente legate al rito. Per questa ragione sono nate le musiche popolari, per questa ragione Salomone Rossi faticò ad affermarsi come compositore: provò, infatti, a convincere i rabbini che la sua musica era adatta alla liturgia, ma per loro aveva «troppi fronzoli». Il canto sinagogale, invece, era sempre permesso. ma «c’è un legame tra questo e la musica popolare: il modo (che più o meno può intendersi come l’atmosfera)», perché «per il musicista di strada la propria musica identitaria era quella della sinagoga». Per questo la imitava. E lo faceva imitando non uno strumento ma la vocalità dei cantori del tempio. Per cui «forse non esiste una caratteristica comune della musica ebraica, ma esiste un modo simile di considerarla». E poi ha aggiunto: «L’unico filo rosso possibile è che la musica ebraica si lega alla parola scritta. Ed è una cosa tipica, anche se poi l’interpretazione può essere diversissima nelle varie parti del mondo.»

La difficoltà riscontrata da Salomone Rossi nel farsi apprezzare – ha spiegato – nasceva, infatti, anche dal fatto che «le sue composizioni polifoniche mal si legano con questa caratteristica, con il fatto che nella musica ebraica non si segue il ritmo musicale ma quello delle parole

E se qualcuno aveva dubbi sulla pertinenza di questo incontro con un festival dedicato alla letteratura, ora non avrà più dubbi.

La dissertazione di Fink è stata anche l’occasione per scoprire un fatto curioso e poco noto che riguarda i celebri versi “Voce di uno che grida nel deserto:/preparate la strada del Signore”, che san Marco riporta nel suo Vangelo (1, 1-3) citando un passo di Isaia.  Questi versi sono diventati «l’emblema della voce profetica, della voce che parla quando nessuno dice le stesse cose», di colui che parla e non viene ascoltato. Ma, ha rivelato Fink, «in realtà, il segno musicale nel passo di Isaia dice che la parola “voce” e la parola “deserto” sono staccate, quindi la traduzione di quel passo del Vangelo è sbagliata. La traduzione originale, nel senso ebraico, è “si udì una voce: nel deserto preparate la strada per il Signore”.»  (Ora mi piacerebbe che anche voi esprimeste il vostro stupore con un bel “oooh”).

«Avete domande?» ha chiesto Fink a conclusione dell’incontro. Certo: “Ci suonate un brano?” E siamo stati accontentati (il mio filmato è amatoriale, ma la bravura degli artisti si evince comunque):

 

 

Souvenir n. 13: genio e sorriso di Andrés Neuman

Bazzicando su aNobii mi è venuta la curiosità di leggere questo autore e di andarlo a sentire a Mantova, anche perché un utente diceva che ha il sorriso di una persona buona. Aveva ragione: il sorriso di Andrés Neuman (per chi avesse il dubbio, si pronuncia come si scrive) è la sintesi del suo mondo interiore, è il micro-dettaglio di cui parla De Silva (su questo punto vi rimando al souvenir n. 9).

Colto e geniale, simpatico e gentile, ha scambiato qualche parola con tutti – e dico tutti! – quelli che gli hanno chiesto di firmare una copia di un suo libro e a tutti – e dico tutti! – ha fatto una dedica personalizzata (con una bella penna stilografica).

L’autore argentino ha voluto condividere con il pubblico la sua biblioteca latinoamericana più amata, suggerire, cioè, la lettura di alcuni autori che ama particolarmente e che non rientrano tutti tra quelli più conosciuti.

Ma questo suo excursus è stato molto più che una dissertazione letteraria: è stato un viaggio nell’arte, nella fotografia, nella psicologia. È stato un viaggio nelle anime. Partendo dal dettaglio di una foto, di una vignetta o di un dipinto, Neuman ci ha, infatti, raccontato l’uomo e, attraverso l’uomo, ci ha spiegato l’autore, aiutandoci a penetrare l’essenza delle loro opere.

Così, anche chi non ama particolarmente la poesia si è emozionato nel sentirgli declamare i versi con cui Jorge Luis Borges si rammaricava che la sua nomina a direttore della Biblioteca nazionale argentina (nel 1955) fosse avvenuta quando già era diventato cieco: “Mi diede insieme i libri e la notte”. «Credo sia un modo elegante di raccontare una tragedia» ha commentato Neuman. Credo sia un modo bellissimo di raccontare un autore, commento io. E come ci ha parlato del dramma dell’autore, ci ha parlato anche del dramma del suo personaggio Funes, che ricorda ogni cosa e, pertanto, non capisce nulla perché «comprendere vuol dire poter scegliere, scartare».

Alla dolcezza con cui ha raccontato queste vicende dolorose e con cui ha letto (spesso in italiano)  i versi da lui scelti ha alternato risate, smorfie e battute. «Ai giovani [ma giovane lo è ancora pure lui] rivelo una verità tragica: su internet non si trova tutto. Io stesso stento a crederci.»

Dopo suor Juana Inès de la Cruz (bambina prodigio, monaca e poetessa), Borges e Juan Carlos Onetti (lo scrittore uruguaiano che – per chi non lo sapesse – visse gli ultimi 20 anni della sua vita a letto), si è soffermato su Alfonsina Storni, una tra le più grandi poetesse argentine. Ha, in particolare, sottolineato il suo umorismo noir e il sorriso che quasi sempre sfoderava nelle foto. Un sorriso che celava un malessere così grande da spingerla a togliersi la vita. «La gente che sorride molto quasi mai è felice» ha commentato Neuman. Un’affermazione che mette un po’ i brividi a chi pensa di fare dei sorrisi la propria lingua.

Legato alla Storni da un’amicizia e – ha detto lo scrittore argentino – quasi certamente da un legame passionale fu Horacio Quiroga, considerato l’Edgar Allan Poe della lingua spagnola. Fu il primo grande scrittore di racconti del XX secolo e fu anche un vero anticonformista: rifiutò di vivere a Buenos Aires, la grande metropoli, per andare a rifugiarsi nella selva e di Parigi affermò di aver apprezzato solo la bicicletta (tipico di lui, secondo Neuman). Perché? «Perché la bicicletta è un punto di incontro tra natura e artificialità: serve lo sforzo fisico ma è un’invenzione umana

E come avrebbe potuto non parlare di Roberto Bolaño, colui che l’ha incoronato suo erede? Neuman si è preoccupato subito di sfatare il mito secondo cui sarebbe stato un autore “maledetto”, amante della vita sregolata come gli scrittori della beat generation. Niente di più falso: aveva sane abitudini e – curiosità – era ossessionato dai denti che gli mancavano. Dalle foto che ci ha mostrato emerge un uomo che ha anche un grande senso dell’ironia, che ha saputo affrontare il tema della mascolinità sia nella visione tradizionale che parodiata.

Il suo intervento si è concluso con un grande regalo ai giovani scrittori, ovvero i tre consigli di Rodolfo Enrique Fogwill:

–         avere un buon dominio della lingua;

–         avere sempre gli occhi aperti nella vita;

–         essere il più possibile flessibili nella vita.

 

Ultimo souvenir: la voglia di tornare

Se avete letto il souvenir n. 4 e il mio tweet che lo introduce, avrete capito che già prima di lasciare Mantova e Festivaletteratura avevo voglia di tornarci l’anno prossimo. Sono andata via ubriaca di stimoli, ne porto ancora i postumi, ma questa sbornia me la vorrei tanto ripigliare.

 

Foto di Marcella Onnis

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