Festivaletteratura di Mantova: souvenir nn. 8-10
di Marcella Onnis
Non so se nelle intenzioni degli organizzatori l’ironia dovesse essere una nota caratterizzante del Festival o se siano state le mie scelte a portarla spesso, con mio grande piacere, sulla mia strada, fatto sta che gran parte degli scrittori che ho avuto modo di ascoltare ne hanno fatto buon uso.
Una vera lezione di ironia l’hanno data, complice Simonetta Bitasi, Diego De Silva e Dan Lungu. Fatto abbastanza curioso, se ci si ferma al tema dell’incontro, più associabile ai toni melensi che pungenti: “Innamoramenti”.
De Silva ha un’idea poco aulica dell’amore, che attrae per la sua concretezza e la sua verità. Dopo la lettura dello splendido incipit di Mancarsi (che non cito perché è lungo e perché spero così di invogliarvi a leggere questo romanzo), ha spiegato l’intento con cui l’ha scritto: «Volevo togliere l’amore dalle grinfie dell’etica: non ci innamoriamo dei valori. […] “Ti amo perché sono convinto che tu sia una buona madre”: io credo che una donna che voglia sentirsi buona amante si incazzi. “Se vuoi una buona madre, ama la tua!” Noi ci innamoriamo di micro-frammenti, immortaliamo con un colpo d’occhio un dettaglio che ci sintetizza la persona in tutta la tenerezza, il mistero … […] Una persona che ti piace davvero non finisci mai di guardarla. In quel micro-dettaglio si concentra come in un microchip la persona che amiamo. L’amore ha a che fare con l’odore, il colore della pelle, quel modo di fare una pieghettina della bocca, di sbagliare la pronuncia di una parola…»
E poi ci ha invitati ad imitare Irene, protagonista femminile di Mancarsi, che – ha spiegato – ha il coraggio di dire basta ad un amore spento, assecondando l’istinto e non rischiando di cedere alla ragionevolezza e/o all’opportunismo, a quella vocina che dice “in fondo gli vuoi ancora bene”. Perché, ci ha ricordato, «l’infelicità può diventare una scelta di comodo.»
Considerazioni serie mescolate ad umorismo, le sue, perché sull’amore si può e si deve anche scherzare: «Il dialogo amoroso è basato su un dialogo incomprensibile tra persone malate che si rinfacciano il mancato rispetto di clausole mai scritte.»
Anche per Dan Lungu l’amore non è cibo per i soli poeti: «Se è vero che l’amore è comunicazione – e per me l’amore è comunicazione -, allora non può esserci amore senza ironia.» Anche perché «capisci che c’è sintonia con una persona se ridete delle stesse cose.» Per lui «l’umorismo è essenziale, se stiamo parlando di una storia d’amore.» Poi prosegue andando oltre il tema centrale dell’incontro: «Il senso dell’umorismo permette di trovare una via di mezzo, di dire cose gravi degli altri senza toccarne la dignità. Riesci a fare un lavoro anche su te stesso e a trovare la tua umiltà come persona. L’umorismo permette di mettere insieme cose diverse» (dramma e comicità, in particolare, come dovrebbe avervi fatto comprendere il souvenir n. 7 … e se così non è stato, vuol dire che sono stata una pessima “reporter”).
Sulla stessa lunghezza d’onda De Silva: «Ridere è una forma di conoscenza perché riconosce qualcosa: nell’attimo in cui ne ridiamo, ne cogliamo l’esistenza e la sdrammatizziamo. Far ridere è difficile, significa avere un forte senso del ridicolo partendo da sé e proiettando poi il ridicolo sugli altri.»
“Ma l’ironia può essere anche rinuncia, rassegnazione?” ha chiesto Simonetta Bitasi. Per De Silva «l’ironia è anche un modo per non far nulla, ma – ha chiarito – quando mi capita di usarla così, ne sono consapevole.» Un modo per non far nulla o per offrire un po’ di divertimento fine a se stesso, come quando ha “psicanalizzato” i volpini che, a suo parere, «hanno problemi di identità canina. Pensano di esser un pitbull e si accaniscono su chiunque.» Ma per capire il perché di questa divagazione occorre conoscere il mondo dell’avv. Malinconico, il suo più celebre personaggio.
In certi casi, però, l’ironia deve farsi da parte: «Se a vent’anni – dice schietto De Silva – mi avessero chiesto cos’è il lavoro, avrei saputo rispondere. Oggi la categoria del lavoro si è completamente sfarinata. […] Il furto del significato delle parole è una caratteristica di questa modernità.» O ancora: «Non puoi essere precario nella vita lavorativa e avere una vita privata stabile», come accade infatti al suo avv. Malinconico. Per questo, ha detto riferendosi ai giovani, «al posto loro sarei molto incazzato.»
De Silva è nato nel 1964, Dan Lungu nel 1969: stessa generazione, ma paesi distinti e, soprattutto contesti diversissimi. Lo abbiamo capito chiaramente quando lo scrittore rumeno, riferendosi a sé e ai suoi coetanei, ha detto: «Siamo una generazione salvata perché a vent’anni abbiamo scoperto la libertà. Dopo ne abbiamo scoperto anche i lati negativi.» Già, all’inizio c’era l’ebbrezza di scoprire finalmente il mondo al di là dei confini nazionali, magari restando di stucco – come ha raccontato – davanti a quelle porte che, in Francia, si aprivano da sole (mentre in patria gli usci restavano sempre chiusi con tanto di lucchetti). Sorridendo della loro ingenuità, ha narrato anche i tenativi suoi e degli amici di carpire il segreto di questo “fenomeno”: “deve esserci qualcuno che vede la persona che aspetta e le apre la porta”, pensavano. Ma a quel punto si chiedevano: “Come fa a conoscere tante persone?” La risata più grande è scoppiata, però, quando Lungu ha descritto il loro sgomento davanti ad una porta che si era aperta all’avvicinarsi di un cane.
Come souvenir di questo incontro ho anche carpito questi consigli di De Silva:
– «gli oggetti sono un ingombro mentale perché ogni oggetto è un pensiero. Siamo pieni di elementi che rimandano alla mente pensieri legati alle cose.»;
– come è accaduto a Nicola, protagonista maschile di Mancarsi, «a volte la morte [della persona amata] mette in condizioni di scoprire che ci sono altre possibilità.»;
– «la buona fede è un aggravante. Non ne posso più della gente che rovina la vita degli altri in buona fede. La buona fede ti ammazza, ti anestetizza.»
Souvenir n. 9: il Corvo Rosso contro la violenza sulle donne
Per puro caso, grazie ai depliant distribuiti per la città, sono venuta a conoscenza della mostra itinerante No al silenzio! Basta violenza sulle donne: una serie di vignette satiriche di Furio Sandrini in arte Corvo Rosso. Alcune fanno riflettere sorridendo, altre sono flash di pungente e dolorosa ironia.
Fa davvero piacere che un uomo riesca a fare così propria questa battaglia che tende erroneamente ad essere considerata appannaggio femminile. Sandrini, che è anche scrittore e filosofo, è riuscito a penetrare con grande consapevolezza nella psiche femminile e con altrettanta maestria a riprodurre in poche parole il complesso mondo che ha esplorato. Penso, in particolare, alla vignetta che ritrae uno scambio di battute tra due donne:
– E il fatto che ti picchia?
– M’è sempre piaciuto l’uomo forte.
Non da sole ma con l’aiuto di uomini come lui è che noi donne possiamo debellare questa piaga.
P. S. Trovate ulteriori informazioni sulla mostra nel sito del magazine on line Corvo Rosso (da cui ho preso anche l’immagine di questa vignetta).
Souvenir n. 10: né buoni né cattivi, né vinti né vincitori
Non ho l’abitudine di parlare di libri che non ho ancora letto perché la trovo una cosa poco corretta nei confronti dei lettori e irrispettosa verso i libri. Se, quindi, parlerò de La figlia di Clara Usón e di Inclini all’amore di Tijana Djerković è solo perché le due autrici, partendo dai loro romanzi, hanno espresso alcune importanti considerazioni che prescindono dai contesti letterari che le hanno originate. I loro interventi, sapientemente intrecciati da Francesco Abate, sono stati, infatti, una bella analisi dell’animo umano. Forse perché è vera la convinzione espressa dallo scrittore cagliaritano: «Io credo che raccontare le storie sia anche un po’ raccontare gli uomini.»
E «la natura degli uomini – ha affermato la Usón – è la stessa ovunque. Nei paesi anglosassoni ci si sente autorizzati a parlare di qualunque Paese, mentre noi dei paesi mediterranei ci sentiamo autorizzati a parlare solo del nostro Paese, di ciò che conosciamo», ma «è il momento di aprire lo sguardo a tematiche europee.» Per questo lei, che è spagnola, ha deciso di scrivere un libro che parla dell’ex Jugoslavia attraverso la drammatica storia di Ana, figlia del generale Ratko Mladić, noto come il “Boia dei Balcani”. E se qualcuno non capisse la necessità di riesumare queste vicende, troverebbe indirettamente la risposta in queste parole dell’autrice: «Mi sono stupita del Nobel all’Europa per i suoi 40 anni senza guerre: ma la guerra dei Balcani non è una guerra europea?!» E Abate non ha perso l’occasione per accennare ad un altro Nobel per la Pace che, in queste settimane più che mai, non sembra certo esser stato meritatamente assegnato.
La sintonia tra le due autrici è forte: «Sia la Spagna che l’ex Jugoslavia sono considerate terre ai margini “dell’Impero”, ma il centro geografico dell’Europa è la Bosnia.» ha fatto notare Tijana Djerković. Ci avevate mai pensato? Io ammetto di no.
E le storie degli abitanti di queste terre non sono poi così diverse dalle nostre: sia lei che Abate hanno ricordato come i montenegrini, proprio come tanti sardi, calabresi, siciliani… sono emigrati in cerca di fortuna nell’Europa ricca o addirittura in America.
I due romanzi narrano storie di famiglie su cui grava un passato ingombrante rimasto a lungo segreto, per cui lo scrittore-moderatore ha chiesto alle due scrittrici: “I figli hanno diritto al passato dei padri?”
«In una certa misura sì, ma non ne devono essere incolpati.» ha risposto la Djerković, che parla perfettamente l’italiano e che nella nostra lingua ha scritto il suo romanzo. Poi ha aggiunto: «Possono anche emanciparsene o volere che a loro appartenga. Quando c’è la possibilità, è una scelta.»
“Scelta” è un’altra parola chiave di questo incontro: l’autrice serba ha affermato che «non esistono il bianco e il nero. Mio padre [sua e della sua famiglia, con qualche ritocco di fantasia, è la storia che narra nel suo ultimo romanzo] non era un santo, ma ha fatto la sua scelta: davanti alla cattiveria ha scelto di non abbruttirsi, ha scelto la poesia.»
E che non esistano linee nette di confine lo crede anche la Usón: «A molti piace pensare che la natura umana si divida in buoni e cattivi. E i cattivi sono sempre gli altri. Io penso, invece, che siamo persone complesse e nemmeno noi sappiamo chi siamo. Volevo evitare il manicheismo come quello dei western americani […] Penso che la vita sia molto più complicata di così e piena di contraddizioni. Il generale Mladić non era solo un criminale: era anche un buon padre, un uomo integro perché non ha mai rubato. Era un criminale d’onore. Tutti abbiamo due volti. Sappiamo chi siamo finché le circostanze non ci mettono alla prova. Cosa succederebbe se vivessimo in una guerra, se uccidessero una persona che amiamo e avessimo la possibilità di vendicarci?»
Guerra: altro nodo cruciale. Può mai avere davvero un’utilità? Quanto accaduto nell’ex Jugoslavia ci offre delle risposte sin troppo eloquenti: «Nella guerra – ha affermato la Djerković con tanta amarezza e forse un pizzico di rabbia – non c’è stato nessun vincitore. È stato distrutto il Paese.» Ma non i legami affettivi, per fortuna, perché «la guerra non interrompe le amicizie.» Oggi che gli stati dell’ex Jugoslavia stanno entrando nell’Unione europea e che, quindi, i confini stanno perdendo la loro rigidità, la situazione rasenta tragicamente il paradosso: «A che cosa è servita la guerra? Non si vive meglio in nessun Paese dell’ex Jugoslavia. Non credete ai politici. I politici cantano le loro canzoni e vorrebbero che noi ballassimo.» Qui la scrittrice serba avrebbe meritato un bell’applauso, ma il sole pomeridiano picchiava forte e i riflessi del pubblico, me compresa, purtroppo erano un po’ allentati.
“Al futuro siamo ciechi, non meno dei nostri padri” ha scritto Primo Levi e la Usòn ha sviluppato idealmente il suo pensiero: «Mi rattrista che la Storia si ripeta. Per questo ha senso continuare a scrivere dei sentimenti di cui parla la tragedia greca. La natura umana purtroppo non migliora.» Quindi non c’è da essere ottimisti? Pare proprio di no visto che, come hanno fatto notare le autrici, con la recessione economica che tutti stiamo vivendo sta risorgendo la xenofobia. «Il colpevole è sempre l’altro» ha ribadito la scrittrice spagnola. E il risultato è che « a problemi complessi si cercano soluzioni semplici». Ma «le guerre non danno mai soluzioni.»
Foto di Marcella Onnis e Giuseppe Argiolas