Cinema, Sorrentino a suo agio negli Usa con “This Must Be The Place”

Operazione Usa abbastanza riuscita per Paolo Sorrentino e Umberto Cantarello, sceneggiatori This Must Be The Place che Sean Penn accettò di interpretare come attore protagonista lasciando loro un messaggio in segreteria. “Amo questo personaggio” disse circa un anno fa l’attore premio oscar e regista del film cult Into The Wild, e Sorrentino non ci pensò due volte a trasferirsi negli Usa per le riprese.

Il personaggio in questione è Cheyenne, depresso cantante dark in crisi artistica, copiato pedissequamente da quel Robert Smith dei Cure che idolo di intere generazioni (nel film Cheyenne ha addirittura parenti con il cognome Smith), inserito però in un contesto inusuale per una rock star. Nonostante la seducente colonna sonora di David Byrne, infatti, mai una volta gli spettatori si gusteranno Cheyenne su un palco, e anzi lo vedranno defilarsi da improbabili ruoli di produttore musicale. Sarà, invece, alla prese con le gioie e i dolori di un’indolente vita quotidiana trascorsa nella sua villa irlandese a svolgere goffamente esercizi fisici o, ancora, nel ruolo di anfitrione in dimesse cene animate da commensali un po’ stravaganti, o a dividere le gioie del sesso con una moglie che conosce ormai da trent’anni.

Ancora più inatteso, con una accelerazione verso il grottesco e l’umorismo, risulta  Cheyenne nel suo lanciarsi in pick-up lungo le highways americane a seguito della morte del padre ebreo, con lo scopo di dare la caccia a un nazista che lo aveva tormentato tutta la vita. Un viaggio che si trasforma in una ricerca di stessi un po’ forzata, che diluisce il film in nonsense tanto indecifrabili quanto credibili, tutto sommato umani.

Nella sua prima prova da cineasta americano, il napoletano regista di Le Conseguenze dell’Amore e Il Divo non si lascia certo intimidire dalle ferree regole di Hollywood, sfoggiando il consueto repertorio estetico, l’inventiva, il gusto della ricerca e il colpo ad effetto in grado di trasformare normali riprese in ingegnose scene madri. Trasferire in America l’arditezza tecnica dei suoi film italiani fa indubbiamente onore a Sorrentino, capace di un coraggio -quello di lasciare inalterato il suo stile anche dinanzi all’industria cinematografica più esigente del pianeta- che ad esempio qualche anno fa venne a mancare a Gabriele Muccino nel dirigere Will Smith in Seven Pounds.

Se dovessimo cercare termini di paragone, This Must Be The Place ci ha ricordato il cinema dei fratelli Coen, non solo per la presenza di Frances McDormand, anche se probabilmente i fratelli Coen avrebbero saputo chiudere le storie dei numerosi personaggi incontrati da Cheyenne. Davanti al finale di This Must Be The Place, invece, si rimane come gli spettatori di Aspettando Godot, ma è difficile credere che Sorrentino non abbia volutamente ricercato l’assurdo e l’insensato.

Andrea Anastasi

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