Buone prassi nella cura del disturbo mentale: Casamatta – 2^ parte

di Marcella Onnis

(continua)

«E non è una struttura» interviene Roberto Loddo, del comitato sardo Stop Opg. «Nessuna delle persone usa nomi simili, – riprende Gisella – tutti loro definiscono la Casa “casa”, dicono“Andiamo a casa” e “Torniamo a casa”. Noi stessi la chiamiamo casa.» «Non c’è quel confine tra l’utente e l’operatoreaggiunge Roberto. «Anche su questa cosa – continua Gisella – si è lavorato molto. Ad esempio, qualcuno degli inquilini magari dice “l’operatore” e noi rispondiamo: “Stefania, chiamala con il suo nome”. Oppure abbiamo molto insistito che quando una delle persone esce con un operatore, non deve mai emergere questa distinzione. Io, se devo presentare una persona con cui sto uscendo, dico: “È la mia amica Cenza/Patrizia” o “È mia sorella” perché nella Casa c’è anche mia sorella. Questo è importante nella vita delle persone: sennò cosa sei? Un utente? Un paziente? Anche nella selezione degli operatori, anche se prendono due lire, siamo esigenti rispetto a tante cose. Se un operatore usa un certo linguaggio, dice “il mio paziente” («o “il mio ragazzo”» aggiunge Roberto), non entra in Casamatta, chiaramente. È un linguaggio assolutamente inadatto anche perché sono persone adulte e ti stai rapportando a persone intelligenti, che hanno un vissuto importante, quindi la relazione va costruita anche nel rispetto di queste questioni. Le etichette non vanno bene. In tanti, arrivando alla Casa, ci chiedevano: “Che diagnosi ha?” E noi a dire “Guarda, la diagnosi è una questione che non ci riguarda: è una questione privata tra la persona e il suo medico. A noi interessa lei come persona, le sue difficoltà. Poi, se tu mi chiedi che difficoltà ha, io te le racconto e non hanno nulla a che vedere con la diagnosi.” Perché la diagnosi è un’etichetta, ma può esser anche uno stigma. Perché c’è ancora una concezione non molto moderna [per usare un eufemismo]» «e poi – prosegue Roberto – le persone diventano “il bipolare”, “lo schizofrenico”, “lo psicotico”.» «Ma di che parliamo? – riprende Gisella – Anche perché poi, se si va a vedere, le difficoltà che ha una persona con una diagnosi di schizofrenia sono le stesse che ha una persona con diagnosi di disturbo bipolare. Se dobbiamo spostare l’attenzione sulla persona, sui suoi bisogni  e su che cosa possiamo fare noi per fargli vivere meglio la sua vita, la diagnosi non ci interessa.»

Lo stigma, altro tasto dolente che viene, anche questo, messo in risalto nel film. Colpisce, in particolare, il momento in cui operatori e inquilini di Casamatta vanno a vedere un appartamento che sembra fare al caso loro e per cui erano già cominciate le trattative con i proprietari. Questi, alla vista degli inquilini, si mostrano subito diffidenti e poco ospitali, per usare un altro eufemismo. Tant’è che, tornati a casa, quando una delle operatrici chiede agli inquilini cosa hanno apprezzato di più dell’appartamento, uno di loro ironicamente risponde: “I padroni di casa.”
Casamatta si trova ora in un condominio, per cui non posso fare a meno di chiedere come sia stata l’accoglienza loro riservata dagli altri abitanti del palazzo. «Inizialmente la cosa è stata un po’ turbolenta. Non eravamo neanche arrivati che già sapevano che era una casa famiglia (ognuno dà le sue definizioni), che erano persone con disturbo mentale, quindi alcuni erano già allarmati da questo. Qualcuno ci ha fermato nelle scale, ci ha fatto delle domande, ha tentato di entrare in casa con la scusa di vedere se c’erano delle perdite per capire cosa c’era dentro… Poi hanno voluto una riunione con il proprietario della casa, anche se lui diceva che si trattava di persone che, intanto stavano venendo da un’altra realtà che durava da 18 anni, poi erano tutte brave persone, persone per bene. Credo che abbiano iniziato ad accettarci dopo che siamo arrivati lì, dopo che hanno visto le persone. Sono rimasti un po’ allertati finché non gli era chiaro chi eravamo. Un altro episodio proprio brutto, antipatico, si è verificato quando abbiamo sistemato la pedana come previsto dai requisiti strutturali: l’impresa ha messo la pedana nel pomeriggio e la mattina dopo, alle nove, quando sono arrivata, questa era scomparsa. Noi e il nostro padrone di casa abbiamo protestato e allora l’amministratore del condominio ci ha detto che la pedana non piaceva, che non era carina per quel condominio, che rovinava il decoro del palazzo. Avrebbero potuto chiamarci, dirci cosa pensavano, anche perché sapevano che dovevamo metterla, visto che il padrone di casa aveva mandato il progetto del nostro ingegnere. Se ne poteva parlare. Quindi abbiamo dovuto modificare la pedana e questa spesa se l’è accollata totalmente il padrone di casa. È stato molto carino. E la pedana ora la usano gli altri, perché noi non la usiamo. Nessuno dei nostri usa la pedana: per arrivare all’ascensore fanno i gradini. Quindi la pedana è usata da chi ha la carrozzina per il bambino, il carrello per la spesa … Questo per dire quanto le norme che impongono determinate cose non hanno nulla a che vedere con la vita delle persone.»

Lo stigma, la diffidenza, il pregiudizio nascono spesso – forse sempre – dall’ignoranza, ma se questa si può scusare – purché ci sia la voglia di superarla –, più difficile è perdonare la cattiveria gratuita. Questa sembra, infatti, essere alla base delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto Casamatta e Gisella Trincas. Vicende che hanno avuto larga eco sulla stampa locale e che – anche pensando alle peripezie di altre associazioni quali Alfabeto del mondo onlus – mi fanno chiedere perché da parte della società civile e, talvolta, pure delle istituzioni ci sia questa diffidenza, se non un vero e proprio astio, verso chi fa del bene. «Io ho dato un’altra lettura a questa cosa. – mi risponde Gisella – Inizialmente mi sono incazzata, poi non mi sono preoccupata, ovviamente, perché era una cosa talmente priva di senso che tornava indietro su chi aveva iniziato questa cosa. Noi da un po’ di tempo ricevevamo, come associazione e io come suo presidente, tutta una serie di attacchi pesanti a mezzo stampa, molto offensivi, molto dispregiativie, da parte di questo psichiatra, Antonio Tronci, che ha poi fatto la denuncia. Questo è un medico con cui noi non abbiamo mai avuto rapporti, io proprio non lo conoscevo, E questo suo “amore” verso di me, verso di noi,  inizia nel periodo della giunta Soru [l’esecutivo che ha guidato la Regione Sardegna prima di quello attuale, ndr], quando diventa Assessore alla sanità Nerina Dirindin che, accogliendo le istanze delle associazioni di familiari, mette la salute mentale tra le prime cinque priorità del lavoro politico della Giunta regionale . Dà, quindi, alla salute mentale quell’attenzione che da lunghi anni aspettavamo. E inizia a lavorare sul piano sanitario, sul piano per la salute mentale, a lavorare sulla formazione degli operatori, a mettere risorse per la salute mentale, a coinvolgere i territori e la società civile, a chiamare delle persone esperte da altri territori che già lavoravano in servizi avanzati… Insomma, la salute mentale stava iniziando ad avere delle risposte adatte. L’Assessore iniziava a parlare il nostro linguaggio, a dire che nei servizi non si legano le persone, che le porte devono stare aperte, che le persone devono avere un progetto personalizzato di cura, che le strutture non devono essere delle istituzioni totali ma devono somigliare alle case vere, che devono essere delle piccole comunità di 6-8 persone. Incomincia a ipotizzare diversi modi di intendere la residenzialità, a pensare che le persone dagli istituti devono uscire e porta avanti anche il progetto “Ritornare a casa”, per consentire alle persone di uscire, appunto, dagli istituti ma anche per evitare che ci vadano, con un finanziamento specifico alle famiglie. Insomma, quello che il buon senso dovrebbe consigliare di fare a tutti quelli che si occupano della cosa pubblica, in particolare della salute delle persone. Il nostro forte sostegno a questo cambiamento nella salute mentale non è stato gradito, in particolare da questo signore, che è un sindacalista dell’Ugl e che ha iniziato a fare la sua battaglia personale sull’Unione sarda [il principale quotidiano regionale, ndr]. Ed io ero uno dei suoi bersagli come rappresentante dell’associazione dei familiari. La vicenda di Casamatta secondo me è l’epilogo di questa battaglia. Inoltre, in quel periodo si parlava della morte del sig. Casu [Giuseppe Casu, morto nel 2006 durante un ricovero in un ospedale di Cagliari, ndr] e noi siamo stati visti ancora di più come dei nemici del Servizio di salute mentale perché abbiamo osato chiedere l’apertura di un’inchiesta. Noi non abbiamo fatto una denuncia, non ne abbiamo mai fatte: noi solleviamo questioni e chiediamo all’Amministrazione pubblica di verificare e risolvere. Noi non denunciamo perché sono servizi pubblici e io credo che sia comunque preferibile un confronto, anche aspro, dove io ti dico dove sono le cose che non vanno secondo me e ti chiedo di provvedere. Così abbiamo fatto anche per la morte di sig. Casu. Abbiamo detto: “È morto legato e la contenzione non è un atto medico, è un abuso, un atto illegale, quindi chiediamo se è vero che è stato legato, di che cos’è morto”. Abbiamo chiesto l’apertura di un’inchiesta. La denuncia che Tronci ha fatto è qualcosa di disgustoso, vergognoso, perché accusa la Casa, gli operatori e i familiari delle cose più vergognose: maltrattamenti, denutrizione, isolamento della casa, acquisto di cibo scadente, farmaci tenuti in ambiente surriscaldati e dispensati senza prescrizione, degrado della struttura… Diceva che le persone non venivano lavate e che l’unica che veniva lavata era mia sorella, che ci appropriavamo della pensione delle persone ospitate nella Casa, che prendevamo dei finanziamenti e chissà che uso ne facevamo … Quando i carabinieri sono arrivati la prima volta è bastato che varcassero la soglia per capire che non c’era niente di tutto questo. E questa è un’altra cosa misteriosa perché la prima volta sono venuti e ancora un po’ ci chiedevano pure scusa perché hanno visto che tutto era chiaro e in ordine. Quindi hanno fatto il verbale dove dicevano che era tutto a posto e noi siamo andati da loro il giorno dopo per portare dei documenti e fornire altre risposte. Lì ci hanno detto che nella denuncia, di cui non potevamo entrare in possesso, si faceva riferimento anche a dichiarazioni da parte di nostri dipendenti. A chiusura dell’inchiesta abbiamo potuto scoprire di chi si trattava anche se qualche dubbio oramai lo avevamo anche noi. Si trattava di due persone arrivate poco tempo prima alla Casa e che evidentemente, una in particolare, avevano chiesto di entrate proprio per fornire informazioni a quest’uomo. Ma la cosa non ci ha preoccupato perché non erano operatori stabili della casa.»

Tutto risolto? No, perché «dopo un paio di giorni i carabinieri sono tornati con un atteggiamento completamente diverso. Quindi l’inchiesta della Procura non parte dal primo accesso dei carabinieri, ma dal secondo e loro hanno concentrato l’attenzione non sui maltrattamenti, che era una cosa completamente campata per aria, ma su due questioni specifiche. La prima è quella dei farmaci al bisogno, perché le persone della casa hanno delle prescrizioni che per alcuni farmaci prevedono che al bisogno possono aumentarne la posologia. La seconda è la tipologia della struttura, perché le persone con disturbo mentale, secondo questo carabiniere, sono persone incapaci di intendere e di volere, quindi, secondo lui, devono stare in una tipologia di struttura che non ha nulla a che vedere con la nostra, che è socio assistenziale: una struttura sanitaria, che non c’entra neanche con la salute mentale ma con le disabilità funzionali. Per lui questa Casa non era regolare perché non è questo tipo di struttura, che deve avere i medici, i fisioterapisti … Io ho spiegato che il farmaco al bisogno è un diritto delle persone perché riguarda la relazione tra la persona e il suo medico. E alla domanda del carabiniere “Chi è che determina il bisogno?” ho risposto: “Le persone interessate”. Ma lui ha ribattuto: “No, perché sono incapaci di intendere e di volere”. E io: “Lei sta facendo un’affermazione grave, perché nessuno che non sia un tribunale, un giudice con una perizia, può definire una persona con disturbo mentale incapace di intendere e di volere”. E nessuno alla Casa aveva l’incapacità di intendere e di volere. L’inchiesta nasce per questo.» Poi mi spiega che le contestazioni riguardo alla struttura sono nate da una cattiva interpretazione del DPR 14 gennaio 1997 (che regolamenta i requisiti per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private) e che i carabinieri «sono arrivati ad ingiungere al comune di Quartu di chiudere la struttura perché non aveva l’autorizzazione al funzionamento [per il tipo di struttura da loro individuato, ma la Casa possedeva l‘autorizzazione provvisoria, rilasciata in attesa dell’approvazione del regolamento regionale, per la tipologia di struttura in cui effettivamente rientra, ndr]. Hanno molto insistito su questo: Casamatta per loro doveva chiudere. La vicenda si è conclusa con l’archiviazione dell’indagine, però la cosa che mi ha più ferita non è la denuncia di Tronci: è questo comportamento dei carabinieri dei NAS, perché per me non era una cosa così chiara e lineare. Lineare era il primo intervento; per il secondo il dubbio che non sia stato solo uno sbaglio mi è rimasto, anche perché io gliele ho spiegate le cose… Mi è rimasto il dubbio che questa fosse una cosa voluta da qualcuno. Poi stiamo parlando di una Casa dove abitano delle persone. Quando il Sindaco ha fatto l’ordinanza di chiusura, l’abbiamo impugnata e abbiamo diffidato tutti dal venire a prendere le persone che vivevano nella Casa perché i NAS avevano ordinato alla asl di provvedere a trasferirle. Perché il concetto che si ha è questo: che tu queste persone le puoi prendere e le puoi mettere dove decidi tu. Quindi noi come familiari abbiamo fatto delle singole lettere di diffida e questa cosa ha fatto bloccare tutti, poi con il comune di Quartu si è risolto tutto e ci hanno rinnovato l’autorizzazione provvisoria. Siamo stati anche fortemente sostenuti e incoraggiati dai nostri avvocati (Mario Canessa, Dario Sarigu e Giuseppe Andreozzi) che non ci hanno lasciati soli un attimo e insieme a noi hanno vinto queste battaglie. Però è stata una grande fatica. Io non penso che, come mi dicono alcuni, Tronci abbia portato avanti un’azione a nome del suo Servizio di salute mentale. Perché, anche se praticano la contenzione, fanno delle cose che a noi non piacciono perché le consideriamo illegali e dannose per le persone, sono lavoratori e con tanti di loro ho rapporti da lungo tempo, alcuni sono anche delle brave persone, quindi io non ho mai  interpretato questa cosa come un attacco di quel Servizio nei nostri confronti. Secondo me era un’azione singola di quello squallido individuo, niente di organizzato. La cosa più brutta è questo fatto dei carabinieri, di uno in particolare, perché poi tra di loro c’era chi, secondo me, aveva capito da subito come stavano le cose.»

(segue)

 

Foto gentilmente fornite da Gisella Trincas e dagli operatori di Casamatta

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