Buone prassi nella cura del disturbo mentale: Casamatta – 3^ parte
Commento che, comunque, sembra esserci una certa ostilità verso certi progetti virtuosi e Gisella risponde: «Casamatta nasce come un bisogno estremo, perché io e mia sorella Paola non potevamo tollerare che nostra sorella continuasse a entrare e uscire da tanti luoghi senza che le istituzioni facessero niente di serio e di utile per lei: dovevamo fare qualcosa! Ed era anche una sfida: volevamo dimostrare che si potevano aiutare le persone con disturbo mentale, che si potevano alleggerire le famiglie e permettere alle persone di vivere una vita normale. L’abbiamo dimostrato 18 anni fa, quando c’erano ancora i manicomi aperti. Si poteva fare e si può fare ancora oggi. Non c’è bisogno di dare queste definizioni sanitarie ogni volta, perché io penso che se le persone hanno bisogno dell’intervento sanitario, lo trovano nei servizi territoriali. Quello che tu devi offrire alle persone è altro: sono i luoghi dell’abitare, i luoghi della normalità di vita. Questo deve essere garantito. Deve essere garantita una vita accettabile, la ricostruzione dei rapporti con i loro familiari, il lavoro, possibilmente, la ricostruzione di relazioni amicali, affettive. Se tu non fai questo, che è la cosa basilare nella vita delle persone, non ne esci. Eppure case, strutture così “leggere”, di tipo socio-assistenziale, non ce ne sono. Si aprono di più le comunità terapeutiche, che ti costano una barca di soldi. E poi vorrei vedere come escono le persone da lì, com’è la loro vita dopo. Poi le persone hanno bisogni diversi: una comunità terapeutica può andar bene per un ragazzo agli esordi, ma quando uno ha già 20-30 anni di problemi alle spalle, cosa fai? Che ci fa in una comunità terapeutica? Non ha bisogno di un dottore perché, quando ne ha bisogno, c’è il Centro di salute mentale. Tutte le persone di Casamatta hanno il loro Centro di salute mentale di riferimento, che hanno avuto da sempre. Con i loro medici hanno ottimi rapporti e noi abbiamo con loro ottimi rapporti di collaborazione. Le persone devono vivere: quello che conta è come passano le loro giornate, con chi le passano.”
Durante la nostra conversazione, Gisella ha parlato dei grandi passi avanti fatti in Sardegna in questo campo durante la Giunta Soru, per cui non posso che chiedere cosa stia, invece, accadendo con l’attuale esecutivo guidato da Ugo Cappellacci. “Oltre al rifinanziamento del programma “Ritornare a casa”, hanno attuato altri interventi?” domando. «No. – mi risponde – Intanto perché credo che ci sia alla base una visione completamente diversa. Noi abbiamo cercato di dialogare anche con questa Giunta e ci abbiamo provato a più riprese senza nessun esito. L’assessore de Francisci [l’attuale Assessore alla sanità, ndr] non ha ancora dato seguito agli impegni presi per aprire il tavolo di concertazione che abbiamo chiesto sul tema della salute mentale. L’abbiamo chiesto più volte perché è una questione importante. Anche per gli opg [ospedali psichiatrici giudiziari, ndr] non si sta facendo niente: anche qui è uguale alle altre questioni, perché si tratta di persone che devono uscire da quel percorso e ne devono intraprendere un altro. Tu devi parlare di ogni singola persona. Se una Regione sceglie di aprire delle strutture, di prenderli e trasferirli come pacchi siamo su un altro piano. Noi (comitato Stop Opg e associazioni dei familiari) stiamo chiedendo in tutta Italia che quei soldi che lo Stato ha finanziato vengano dati ai dipartimenti di salute mentale, divisi sulla base delle persone che stanno negli opg per ogni Dipartimento. Trasferite queste risorse, il Dipartimento deve costruire un progetto per la singola persona, che può essere magari anche una comunità, una casa famiglia, ma tra quelle che già ci sono. Non è che devi aprire una struttura nuova, di tipo carcerario. Ha bisogno di una misura di sicurezza? Ci può essere anche dentro una struttura già esistente. Noi abbiamo avuto in Casamatta una persona uscita da un opg, ma a noi non importava niente del reato che aveva commesso – che era importante – né della sua diagnosi. Aveva bisogno di una casa, di andare ad abitare in un luogo, e nessuno era disposto ad accoglierla. Noi l’abbiamo accolta fino a che il suo Comune non le ha trovato una casa. Ora abita lì, è fidanzata e vive la sua vita, sostenuta dai servizi territoriali. Bisogna fare queste cose.»
In proposito, cito il saggio Il carcere manicomio in cui l’autore, Salvatore Verde, riporta una serie di dati che dimostrano come, in Italia, il numero dei detenuti con disturbo mentale sia tendenzialmente più alto nei territori in cui i servizi di igiene mentale sono più deboli. “Quindi – chiedo – queste persone vengono abbandonate prima, ma anche dopo la condanna?” «Questo è. Se il servizio è fragile (e se tu sei finito lì, nell’opg, è perché il servizio è fragile), ma se questo non lo si rinforza, non gli si danno risorse, personale, una cultura diversa, una filosofia diversa, delle linee guida precise, quel servizio sarà sempre fragile. E se anche apri un bel manicomio dove ne rinchiudi venti, quel servizio non ce la fa ad occuparsene e quelle persone resteranno rinchiuse là dentro. La personalizzazione dell’intervento richiede innanzitutto un’accettazione di questo modo di intendere la salute mentale e i suoi bisogni. Non lo diciamo solo noi: lo dice l’Organizzazione mondiale della sanità, lo dice la Commissione europea, lo dicono i “progetti obiettivo” italiani, lo dice la Conferenza Stato-regioni.”
“È un problema di ignoranza?” domando. «È un problema culturale che riguarda le istituzioni. – precisa Gisella – E questo è grave perché le istituzioni devono promuovere un cambiamento culturale nel popolo, devono favorire il progresso civile, ma se hanno loro questa cultura di arrettratezza, cosa vogliono cambiare? Ai servizi devi dare risorse. Nei servizi ci sono lavoratori, non persone con la bacchetta magica, come in un qualunque altro servizio sanitario. E in più fanno un lavoro particolarmente delicato perché avere a che fare con la salute mentale non è come lavorare al catasto, ovviamente. Quindi li devi sostenere con la formazione, con i soldi, che servono. Se devi prendere una casa in affitto per una persona perché nella sua famiglia stanno scoppiando tutti, intanto devi poter mettere tutti in sicurezza (che non vuol dire che li rinchiudi, ma che metti tutti nelle condizioni di vivere bene). I servizi devono poterlo fare e i comuni devono partecipare a questi percorsi, devono mettere le loro risorse. Questo non si fa. L’intervento è prevalentemente di tipo ambulatoriale, poi ci sono delle eccezioni (poche): io vado in ambulatorio, faccio la visita periodica con il medico, con gli psicologi mai, perché sono pochissimi e alcuni sono anche impegnati in altre attività, non nel lavoro clinico. Tante persone che chiedono lo psicologo, perché è importante proprio nel lavoro di relazione, non lo possono avere perché non c’è: ci sono gli psichiatri, che sono la figura prevalente nei servizi. E il rapporto è questo, di tipo ambulatoriale: io vengo là, tu mi prescrivi i farmaci, poi ci vediamo tra un mese oppure cinque, se va male. Funziona così, mentre le norme dicono che l’intervento deve essere personalizzato, deve esserci un progetto terapeutico riabilitativo personalizzato, costruito e condiviso con la persona che sta male, con la sua famiglia, con le persone a cui tiene, individuando le risorse nel territorio e costruendo insieme un percorso di ripresa. Che ci vuole a fare questo? Spendiamo molto di più in questa situazione di abbandono. Non ci si rende conto, secondo me. Siamo troppo indietro.»
“Una situazione davvero scoraggiante” commento e Gisella concorda. «La cosa che a noi fa andare avanti, – mi spiega – è sapere che si può fare, che da qualche parte si fa, che ci son stati degli ottimi risultati e che ci sono persone che sono guarite. È questo che ci permette di insistere e di continuare la nostra attività di protesta e di proposta, ma anche di sostegno ai familiari perché aprano la testa e siano anche loro molto attivi e propositivi. Le famiglie devono sapere cos’è questa cosa, se è curabile, se ci sono speranze. Quando una persona giovane va in un servizio e si sente dire da un medico “Tu devi prendere queste medicine per tutta la vita”, secondo te ha una speranza di guarigione? Questa cosa non va bene. Neanche un oncologo dice più queste cose. Anzi. Non si può. Devi dire a quella persona: “Tu puoi guarire. Io, te, tua mamma, tuo babbo, i tuoi amici … dobbiamo fare delle cose.” È questo che non avviene nei servizi di salute mentale. Un’altra cosa che un po’ mi sconforta è che questa è una categoria di lavoratori che non fa battaglie per migliorare le cose. Come se non avessero i diritti e i doveri di tutti gli altri lavoratori. Questa è una cosa che mi sconcerta: in Sardegna, ma anche nel resto d’Italia, questi lavoratori non fanno battaglie. Anzi, se le fa qualcun altro, le vivono come un attacco.»
Le domando, dunque, se questa mancata coesione tra personale sanitario e associazioni di utenti e familiari – che non si verifica in altri settori attinenti alla salute – possa essere una delle cause di questa arretratezza e inadeguatezza delle cure per il disturbo mentale. «Certo. Con singoli operatori c’è sintonia, ma un operatore da solo non si può mettere a cambiare la realtà del suo posto di lavoro. Con la categoria dei lavoratori della salute mentale questa collaborazione non c’è perché – io penso – nella salute mentale ci sono delle pratiche che vengono costantemente denunciate dai familiari: c’è la questione della contenzione, la questione dei farmaci dati a gogò. E, siccome i familiari ormai hanno una certa esperienza in termini giuridici e farmacologici, discutono su certe scelte e questa cosa non è accettata. Si scontrano filosofie diverse perché qui c’è la violazione dei diritti umani che loro non percepiscono come tale. Quindi questa nostra insistenza su questi punti molte volte viene percepita come un attacco, un disconoscimento del loro lavoro. C’è molto da fare.» Già, ma l’importante è non mollare. E, fortunatamente, Asarp non ne ha l’intenzione.
Foto gentilmente fornite da Gisella Trincas e dagli operatori di Casamatta