Buone prassi nella cura del disturbo mentale: Casamatta, raccontata da Gisella Trincas

di Marcella Onnis

Da circa vent’anni è attivo in Sardegna un progetto tutt’oggi all’avanguardia per la cura del disturbo mentale. Si tratta di Casamatta, creata dall’Associazione sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica (Asarp). Dal punto di vista formale, si tratta di una struttura socio-assistenziale, classificata, più precisamente, come una comunità integrata per persone con disturbo mentale (nella precedente classificazione rientrava, invece, tra le comunità alloggio). Il nome Casamatta non deriva, come si potrebbe pensare, dal fatto che ci vivano “matti”, ma dal nome dato ai quei piccoli fortini (che ancora oggi possiamo vedere sulle nostre spiagge e non solo), chiamati appunto “casamatta”, che dovevano difendere le popolazioni dagli attacchi esterni che arrivavano dal mare. Inoltre, il nome “matta”, che in sardo significa “pianta, albero”,  richiama l’idea della vita, della crescita, ed è sicuramente di buon auspicio per un progetto che si propone di aiutare delle persone a superare le loro difficoltà e a potenziare le loro capacità, in modo da poter riprendere in mano la propria esistenza.

Un quadro chiaro su come operi dal punto di vista umano e sociale Casamatta l’ha fornito il regista Enrico Pitzianti con il suo bel film-documentario Roba da matti. Il film, attraverso scene di vita quotidiane, racconta come trascorrono le giornate nella Casa e, attraverso episodi a volte ordinari altre volte più significativi, presenta gli inquilini della casa e gli operatori che fanno loro compagnia. Ma Pitzianti ha anche voluto sollevare l’attenzione del pubblico sui gravi problemi che in quel periodo (il film è uscito nel 2011 ma la sua lavorazione è cominciata nel 2009) Casamatta si trovava ad affrontare: le spiacevoli vicende giudiziarie in cui si è trovata, suo malgrado, coinvolta e l’estenuante ricerca di un nuovo appartamento, dopo la decisione del proprietario della “sede storica” di non rinnovare il contratto di affitto.

Ma qual è oggi la situazione di Casamatta e quale la situazione per quanto riguarda la cura del disturbo mentale in Sardegna (e non solo)? Ce ne parla Gisella Trincas, presidente dell’Asarp, partendo naturalmente dalla Casa e dalla sua nuova sede: «La Casa è a Cagliari perché noi volevamo venire qui, volevano venirci le persone che abitano nella Casa perché alcune sono cagliaritane e abbiamo vissuto a Quartu 18 anni. Anche Quartu andava bene e se avessimo trovato una casa grande, adeguata, ben strutturata sarebbe andato bene anche lì, però il desiderio di alcuni era proprio di tornare a Cagliari. La casa è in via Cocco Ortu ed è di un privato cittadino che ha saputo da un’amica che stavamo cercando casa e ce l’ha proposta. Era la casa della sua famiglia, dove ha vissuto da bambino. È molto bella e grande, sono 220 mq ed ha proprio gli spazi che servivano a noi: tre bagni e quattro camere da letto (una singola e tre doppie).» C’è quindi – commentiamo – una singola per Cenza, l’inquilina di Casamatta che, in uno dei momenti immortalati dal regista Pitzianti, aveva espresso il bisogno di continuare a stare in camera singola perché così è sempre stata abituata. Poi Gisella prosegue con la descrizione dell’appartamento: «C’è un soggiorno molto grande e molto bello, la stanza degli operatori, una cucina abitabile molto carina, un altro piccolo disimpegno che utilizziamo come stireria, un terrazzino molto carino su cui dà la cucina e balconi in tutte le stanze. Abbiamo dovuto fare dei lavori di adeguamento per ottenere l’autorizzazione al funzionamento: eliminare le barriere architettoniche, mettere una pedana all’ingresso per consentire il passaggio di carrozzine … Abbiamo trovato difficoltà rispetto a queste prescrizioni perché comunque una casa dove vivono persone che hanno un problema di salute mentale, secondo noi, non ha nulla a che vedere con la questione dell’abbattimento delle barriere architettoniche: si dice che deve assomigliare alle case di civile abitazione e non è che le case in cui la gente vive sono prive di queste barriere. Per noi questo ha sempre costituito un grande ostacolo, ma questa volta l’abbiamo superato spendendo soldi che, tra l’altro, non avevamo. E dobbiamo ancora saldare il debito con l’impresa che ci ha fatto i lavori. La casa è un progetto di vita importante per le persone che ci abitano, però per noi che la gestiamo è un grande sacrificio. Grande grande grande, non solo in termini economici ma anche di impegno, chiaramente. Asarp ha costituito questa piccola organizzazione onlus che si chiama Asarp Casamatta per la gestione solo di questo progetto, però le risorse sono limitate.

“Ma voi non ricevete finanziamenti pubblici?” chiedo. «La casa praticamente si regge con il pagamento delle rette, – mi spiega Gisella (nella foto) – ma le rette sono bassissime: abbiamo una retta di 50 euro al giorno perché eravamo in autorizzazione provvisoria, ma adesso che otterremo l’autorizzazione definitiva la retta sarà di 60-62 euro. Questo la dice tutta su che cosa pensano le istituzioni rispetto alla salute mentale: se è vero che le persone con disturbo mentale hanno bisogno di riappropriarsi della normalità della vita, ma se la normalità della vita  è un luogo alternativo all’abitare nella propria casa con la propria famiglia (perché questo non è possibile in quanto ci sono situazioni conflittuali, la sofferenza mentale che fa star male…), come si può pensare di mettere in piedi progetti di questo tipo senza le risorse adeguate?! Casamatta regge perché noi siamo i familiari e vogliamo che regga, ma se chiunque altro (una società privata, una cooperativa sociale …) volesse mettere in piedi un progetto come questo, per un piccolo gruppo di 6-8 persone, non di più, come potrebbe reggere? Se le persone devono pagare l’affitto e le bollette, se devono mangiare ma devono mangiare bene e devono comprare i cibi nei negozi e non farseli portare dalla provvidenza cristiana, se devono, cioè, comprare quello che a loro serve al supermercato o al mercato, se devono fare tutte quelle cose che servono per migliorare la qualità della vita, com’è possibile pensare che lo si possa fare con rette così basse?! E poi le persone che ci abitano sono chiamate a partecipare al pagamento della retta: non è che, siccome è bassa, la paga tutta il Comune. La retta è bassa e insufficiente, ma le persone pagano con la loro pensione: il Comune stabilisce la quota di compartecipazione e li obbliga a pagare parte della retta… Quindi come si può portare avanti il discorso della ripresa, dell’abitare in un luogo in cui possano riprendere ad avere una vita normale, relazioni normali, e che assicuri l’integrazione e la qualità della vita, se a queste persone viene portato via tutto quello che hanno (la loro pensione e l’assegno di accompagnamento, per chi lo ha)? Perché le persone con disturbo mentale hanno difficoltà più di chiunque altro a trovare un lavoro e quindi non hanno un reddito: il loro reddito è questo e lo versano quasi tutto per pagare la retta. Hanno bisogno di abiti, di biancheria,  devono comprarsi le medicine, vogliono fare un minimo di vita sociale, vogliono andare dal parrucchiere, vogliono andare a mangiare fuori qualche volta, poter frequentare una palestra, comprarsi un libro … Questa è una delle criticità: l’assenza di denaro sufficiente perché queste persone possano utilizzare le loro risorse per i loro bisogni e la Casa possa avere tutte le risorse per funzionare al meglio. Quindi come facciamo? Penalizziamo gli operatori perché ricevono una cifra che non puoi neanche chiamare stipendio. Eppure lavorano per un progetto di sostegno forte alle persone, che impegna 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno. È un impegno notevole anche in termini di disponibilità. Questo è un progetto che si propone di far star bene gli abitanti della casa, ma per far star bene chi ci abita devono star bene anche gli operatori, devono avere anche loro una gratificazione, che non è data solo dal lavoro che fanno, che è bello e importante, ma anche da un salario decente, che purtroppo non hanno.

“Quanti operatori siete attualmente?” domando. «Per quanto riguarda quelli stabili. la mattina sono in tre, il pomeriggio in due e la notte uno, però ci siamo io e mia sorella Paola che chiaramente siamo molto presenti quotidianamente. Tutti i familiari che fanno parte dell’associazione Asarp Casamatta sono molto presenti nella vita degli abitanti della Casa, ovviamente. Però ci pesa questa cosa del denaro, del non capire che questo progetto si potrebbe replicare. Noi stessi avremmo potuto proporre altre case. Noi pensiamo che se deve essere una casa vera dove le persone abitano, non va bene che ci siano figure sanitarie, che sia strutturata come un  istituto, come una clinica, che i tempi siano scanditi da ritmi rigidi. Per farla funzionare come una casa richiede una disponibilità molto alta degli operatori, ma anche una visione innovativa da parte loro: “Io non sono la persona che viene a lavorare qui 6 ore: sono un tuo compagno di vita, vengo qui a sostenerti, perché tu possa vivere la tua vita nel migliore dei modi, Vengo qui ad ascoltare i tuoi bisogni.” Quindi i ritmi della Casa sono calendarizzati con i ritmi e i bisogni delle persone. Nella Casa non c’è la sveglia alle otto e fuori dalle stanze perché l’operatore deve fare i letti. Non esiste che il telefono si possa usare solo in determinati orari e che i cellulari personali debbano essere custoditi dagli operatori, che i familiari possano venire a trovare le persone solo in giorni determinati, concordando le visite con noi. Non esiste. Le persone sono persone diverse, che hanno delle storie, dei bisogni e delle difficoltà differenti, quindi tutto deve essere tarato sui loro bisogni. Ma per fare questo ci vuole un impegno notevole: diverso è seguire un cliché classico. Infatti, credo che Casamatta abbia retto in tutti questi anni perché questa è la filosofia di fondo. Se varchi la soglia della Casa, lo capisci immediatamente, anche parlando con le persone, vedendo la stessa organizzazione della casa: attraversandola, capisci che è una casa vera.»

Lo si capisce, infatti, anche dal film di Pitzianti, che immortala momenti di vita quotidiana quali il risveglio, la colazione, la visione di un film in compagnia di altri inquilini, il lavaggio della biancheria, la spesa … Ma, spiega Gisella, questo clima familiare «non è facile conquistarlo e poi mantenerlo, perché gli operatori devono lavorare continuamente su se stessi.» “E poi la convivenza non è facile, no?” aggiungo io. «No, però loro stanno abbastanza bene insieme. Anche perché noi non abbiamo mai fatto nella casa “inserimenti selvaggi”: ogni volta che c’è stato qualcuno, qualche persona nuova che arrivava, così come su ogni questione che riguarda la Casa, se n’è sempre discusso.» E questa è una cosa che viene messa in risalto anche in Roba da matti: persino la scelta della nuova casa è stata discussa insieme agli inquilini, che hanno potuto dire la loro in un rapporto paritario e di reciproco ascolto. Anche per quanto riguarda le scelte personali di ognuno, inoltre, gli operatori non vietano nulla né impongono una decisione piuttosto che un’altra: aiutano, invece, ciascun inquilino ad analizzare pro e contro delle varie possibilità e a prendere decisioni consapevoli e ben ponderate. Infatti, prosegue Gisella, «con gli abitanti della casa si discute di tutto, di qualunque cosa, anche di come lavorano gli operatori. Sempre. E questo li ha aiutati molto ad accettare la convivenza, perché comunque le persone, in genere, vogliono vivere nelle loro case: nessuno ama vivere con degli estranei, almeno che non sia l’amore della sua vita o l’amica più cara. Nessuno dice: “Sono felice perché vado ad abitare in Casamatta”. Se tu chiedi, ognuno dirà: “Vorrei andare ad abitare con mia mamma, con mia sorella, con il mio fidanzato, con mio figlio…” Abitare insieme ad altre persone che hanno un problema di salute mentale è una cosa che devi essere disponibile ad accettare e questo richiede un grande lavoro da parte degli operatori. Poi per ognuno si discute anche della loro vita: Silvana vorrebbe andare a vivere con il suo fidanzato; Roberta vorrebbe tornare ad abitare nella casa della mamma perché lei è orfana di mamma e desidera tanto andare ad abitare là, quindi devi lavorare con lei perché sia più autonoma, in grado di abitare da sola nella sua casa…; Patrizia vorrebbe lo stesso andare ad abitare a casa sua. Ognuno di loro ha un progetto, un sogno, un desiderio e quindi di queste cose bisogna tenerne conto, bisogna ragionare sul se è possibile, quando, come… Sono tutte cose che impegnano fortemente tutti quanti noi, anche i familiari delle persone che abitano nella Casa. La Casa non è un parcheggio, non è un luogo di cura: è un luogo di vita

(segue)

 

Foto gentilmente fornite da Gisella Trincas e dagli operatori di Casamatta

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