“A viso coperto” di Riccardo Gazzaniga: l’operazione verità

primo piano di Riccardo Gazzaniga

Con la sua opera prima, attraverso una storia di finzione molto prossima alla realtà, il poliziotto-scrittore fa luce sul mondo degli ultra e dei celerini, ma non solo…

di Marcella Onnis

“A viso coperto” di Riccardo Gazzaniga è un romanzo, ma anche uno strumento di conoscenza: attraverso eventi e personaggi di fantasia racconta, infatti, due mondi reali, quello degli ultra e dei celerini, di cui si parla spesso, ma si ignora tanto. La sua “operazione verità”, però, copre ben più di questo spicchio di realtà: l’autore racconta anche il lavoro del poliziotto in generale, sentimenti come l’amore e l’amicizia, esperienze drammatiche come la malattia e la morte, pagine di storia che vorremmo dimenticare come le violenze del G8 di Genova, problemi attuali come l’insofferenza del popolo verso i governanti, compresi quelli occulti. Ma soprattutto racconta verità, poco gradevoli, su noi esseri umani, su quella nostra zona d’ombra difficile tanto da accettare quanto da tenere a bada.

IGNORANZA E PREGIUDIZIRiccardo Gazzaniga è un poliziotto del Reparto mobile, un celerino, per cui non è stato semplice per lui affrontare il tema della guerra tra polizia e ultra (dopo aver letto queste pagine, parlare di semplice conflitto pare un eufemismo). «Per tanto tempo ho evitato questi argomenti» ha raccontato a Cagliari, dove ha presentato il suo libro lo scorso 3 aprile in compagnia di Giuseppina Vacca di Bigodini e letteratura. Si è, però, deciso a farlo per sconfiggere l’ignoranza, perché «di solito chi parla di questi mondi non sa di cosa sta parlando». Anche in questo campo siamo, infatti, intrisi di pregiudizi e ci voleva qualcuno che ci obbligasse a rendercene conto. Qualcuno che è la prova vivente che l’apparenza (soprattutto se valutata secondo il preconcetto) inganna: «Non sembri un poliziotto» gli ha detto Giuseppina Vacca e, in effetti, con l’orecchino e la maglietta di Bon Jovi poteva sembrare più una “zecca”, un quasi-metallaro … o un ultra.

È riuscito a parlare di questi due mondi antagonisti in modo imparziale? Probabilmente il punto di vista è per forza di cose un po’ “viziato” ma, posto che la totale imparzialità per me non rientra tra le umane possibilità, direi che ha centrato l’obiettivo. E ci è riuscito perché, come fanno le persone serie, per cercare la Verità si è documentato. Ai lettori cagliaritani ha raccontato di aver letto libri sul mondo degli ultra, compresi quelli che riportano testimonianze di loro esponenti di spicco. «Piano piano puoi capire il loro modo di ragionare» ha spiegato, poi ha aggiunto: «Smetti di dire “questi vogliono solo fare casino”, “ce l’hanno con noi”, “perché non restano a casa la domenica”. Capisci i valori che ci stanno dietro: gruppo, unità, compagni… Nel gruppo, un ultra trova la possibilità di affermarsi. Lì diventi un attore e non uno spettatore. C’è poi una parte che è difficile raccontare: l’emozione che dà». E in proposito l’autore ha sottolineato che anche le norme penali riconoscono la situazione di massa come attenuante perché «dà emozioni forti che è difficile negare».

DALLA RABBIA ALLA COMPRENSIONE – Durante la presentazione cagliaritana un lettore ha ricordato di un’intervista rilasciata da Gazzaniga a “Le iene” nel 2007, dopo la morte di Filippo Raciti che gli aveva ispirato un’indignata riflessione (qui il testo della sua Lettera aperta di un poliziotto). All’epoca usò parole di condanna molto dure (e non solo per gli ultra), parole che oggi, dopo l’uscita del libro, gli sono state rinfacciate: «Tu non la pensi così!», l’hanno accusato. Ma è sbagliato crederlo un ipocrita. «Quell’esperienza mi ha portato, non da poliziotto ma da scrittore, a cercare di capire quel mondo» ha spiegato ai lettori cagliaritani, poi ha aggiunto: «Non penso che la persona che uccise Raciti sia partita da casa con quell’idea, però magari gli eventi l’hanno portato a questo, come un treno che ti conduce dove non vuoi andare».

LA GUERRA È BELLA – Solo chi vive le situazioni in prima persona può veramente comprenderle. Lo pensa anche Nicola, alter ego dell’autore, quando riflette sul saggio che sta scrivendo sul fenomeno degli ultra: «Avrebbe narrato il fenomeno dal punto di vista di chi lo affrontava per strada. E questo, i vari sociologi, psicologi e studiosi del mondo ultrà, italiani o inglesi che fossero, se lo potevano soltanto immaginare» Esistono, infatti, meccanismi interiori che non è possibile spiegare: per comprenderli appieno bisogna provarli. Solo un ultra, un celerino o chi si è ritrovato in situazioni paragonabili può capire ciò che prova Nicola: «La sensazione di essere nel posto peggiore della città, con la gente peggiore di fronte. Eppure non vorrebbe stare in nessun altro posto al mondo».

Sia il celerino che l’autore pensano di non riuscire a spiegare questa cosa e, certo, se spiegare significa trovare una motivazione, una logica, allora non ci sono riusciti. Ma se significa, invece, descrivere una cosa che accade, anche se irrazionale, incontrollabile e magari spaventosa, allora sì, sono perfettamente riusciti nell’intento. D’altronde, già Alessandro Baricco, nella sua rivisitazione dell’Iliade, ha avuto il coraggio di dire che la guerra ha una sua bellezza. E da più di trent’anni, innamorati di “Generale” di De Gregori, cantiamo “che la guerra è bella anche se fa male”.
Perché, che ci piaccia o no, ha ragione Nicola/Riccardo a pensare che «[…] si trattava di un attimo, e quell’attimo poteva arrivare per tutti, anche per lui. La testa si chiudeva. La paura, l’istinto di sopravvivenza prendevano il posto di comando e bum! succedeva».

Siamo, dunque, condannati? Forse, anche se dal mio canto preferisco illudermi che questi istinti violenti possano trovare soddisfazione nell’uccidere mostri in un videogioco, nel dare vita a personaggi cattivi come Lupo o nell’affettare senza pietà le verdure per il minestrone.
In ogni caso, se anche la Natura ci avesse condannati alla crudeltà, bene faremmo a sospendere il giudizio ogni volta che siamo tentati di condannare qualcuno senza appello.

ALL COPS ARE BASTARDS? – Dovremmo farlo perché non sempre possiamo giudicare con cognizione di causa: come dice il personaggio di Elisa, infatti, «È diverso conoscere le cose da dentro». Osservando la realtà da un punto di vista differente, possiamo ritrovarci anche noi, come lei, a rivedere le nostre convinzioni e abbandonare qualche pregiudizio. Sugli ultra come sui celerini, tanto per cominciare.

«Come si affronta una giornata lavorativa in uno stadio, una manifestazione?» ha chiesto Giuseppina Vacca a Riccardo Gazzaniga. «Lo spiego anche nel libro: si affronta tendenzialmente con monotonia perché vai a fare la stessa cosa. Però magari vai a farla trecento volte e la trecentunesima trovi un casino» ha risposto lui. E «dopo i casini c’è chi si tira indietro: “Ma chi ve l’ha detto?”, “Chi vi ha chiesto di farlo?”». La situazione diventa anche più pesante quando qualcuno sbaglia e ci si trova a decidere se coprirlo o no, ma, ha spiegato l’autore, «coprire qualcuno per noi implica commettere un reato». Davanti a questi dilemmi un poliziotto è solo, così come lo è se sbaglia in prima persona: «Non c’è tutela legale: la tua tutela sei tu stesso. Al processo vai da solo e da solo ti difendi». Una sensazione di solitudine che può essere attenuata dalla solidarietà dei colleghi, ma solo fino a un certo punto, come emerge chiaramente nel romanzo.

Come ha affermato l’autore, “A viso coperto” «è anche un libro sulle difficoltà di questo lavoro». Difficoltà e problemi che in parte sono comuni ad altri impieghi, soprattutto quelli svolti all’interno di strutture complesse. Tra questi la distanza e la diffidenza tra unità di lavoro, ma soprattutto tra base e vertice, dove non mancano dirigenti incapaci di dirigere, la cui pochezza non ricade su di loro ma solo sui sottoposti e sulle eventuali vittime dei loro errori. Questo problema, in particolare, emerge con chiarezza nel romanzo e Gazzaniga non l’ha nascosto neppure durante la presentazione cagliaritana. Quando, rispondendo a Giuseppina Vacca, ha detto che anche lui, come Nicola, ha scritto sapendo che avrebbe fatto arrabbiare qualcuno, ha citato proprio i funzionari di polizia. Loro sono tra quelli che si sono sentiti offesi, ma, ha spiegato, «non è che io parlo male di loro: riporto un pensiero diffuso di uno scollamento tra la base e i vertici dello Stato.» Per la cronaca, è stato super partes anche in questo, dato che è riuscito a far arrabbiare tanto ultra e aree estreme quanto celerini e funzionari.

LA VERITÀ SUL G8 DI GENOVA – Anche i passaggi del libro che riguardano il G8 di Genova sono stati motivo di critica da parte di alcuni colleghi. Con questa “operazione verità” Riccardo Gazzaniga ha cercato, innanzitutto, di far capire che la sua caserma, la Bolzaneto, è estranea ai fatti sanguinosi di quei giorni e forse ad aver dato fastidio è stato proprio il fatto di aver spostato il dito accusatore verso altre direzioni. Da parte di altri corpi armati, però, ha raccontato a Cagliari, gli è, invece, arrivata approvazione, perché in tanti hanno ritrovato il proprio stato d’animo nelle sue parole.

Qual è, quindi, la verità su quel momento buio della nostra storia recente? Innanzitutto, ha spiegato a voce a Cagliari e a parole nel libro, la tensione era già nell’aria, si considerava quell’evento come una resa dei conti: «Noi per anni abbiamo subito violenze anche brutali da una certa aera antagonista» per cui «il G8 per molti era visto come un’occasione di riscatto. Si diceva “abbiamo l’appoggio di tutti”». E come dice chiaramente nel romanzo, si sapeva che «[…] i reparti avrebbero avuto carta bianca», quindi «[…] Si sarebbero saldati i conti e bisognava esserci». Ma, come anticipato, nei fatti drammatici scaturiti da questo clima la Bolzaneto non ha avuto un ruolo attivo. Rispondendo a Giuseppina Vacca, infatti, Gazzaniga ha spiegato di aver voluto ricostruire la verità sul G8 perché «nessuno ha fatto chiarezza su questi fatti. Per una scelta di vertice c’è stato quasi un commissariamento di Genova da parte del Ministero della Giustizia», per cui la sicurezza in quei giorni è stata gestita da altre forze armate. Alla Diaz, in particolare, operò il Reparto mobile di Roma, «ma i poliziotti della Bolzaneto oggi si ritrovano addosso l’odio per quei fatti». Ancora più esplicito è stato nel libro: «La merda cagata in quel dannato padiglione e in quella maledetta scuola era schizzata soprattutto addosso a loro, ma nessuno aveva cercato di proteggerli. Nessuno li aveva difesi».

Le responsabilità stavano, innanzitutto, ai piani alti, in particolare «c’è stato un grave errore di formazione delle persone, che sono state preparate per un anno con l’idea che quasi dovessero andare lì a morire. Per un certo momento sono stati formati come per gestire una situazione di guerra, non una manifestazione di piazza». Solo che – la cosa, purtroppo, non stupisce – «i vertici non ne hanno pagato le conseguenze, mentre i poliziotti sì».

Il giudizio sulle violenze di quei giorni comunque emerge nitido nel romanzo: «Prendersela con gente inerme non era una cosa da celerini e neppure da uomini. Non contava essere di destra o di sinistra. L’infamia non aveva colore».

ESSERE ULTRA: QUESTIONE DI MENTALITÀ – I preconcetti da sconfiggere, però, non riguardano solo la polizia: toccano anche i loro nemici.

Essere ultra non è questione di amare tanto la propria squadra del cuore quanto i casini allo stadio. È una condizione complessa, che richiede di condividere un certo modo di pensare, anzi, per usare la giusta terminologia, di possedere la mentalità. Essere ultra non significa necessariamente essere rozzo e ignorante, come ha precisato Gazzaniga nella presentazione cagliaritana, né essere violenti senza regole: apprendiamo ad esempio dal saggio che il personaggio di Nicola scrive che «[…] i veri ultrà detestano le lame, che sono l’antitesi dello scontro leale e della vera mentalità». Sono guerrieri e anche la guerra ha le sue regole.

Questi, però, non sono gli unici luoghi comuni che l’autore ha voluto sfatare: per voce di Lollo ha fatto notare che gli ultra non mirano solo a distruggere ma sanno anche costruire e aiutare, esattamente come i poliziotti. Solo che, esattamente come accade per loro, quando fanno bene non se ne parla, forse perché – questo lo aggiungo io – il buono raramente fa notizia: «Lo sai che i ragazzi allo stadio hanno fatto anche cose belle. Oltre alle coreografie, intendo. Raccolte di fondi, attività solidali […], tutti parlano a vanvera, senza sapere niente. Perché non dicono che quando c’era da spalare, dopo l’alluvione, per strada sono andati un sacco di ragazzi della curva, eh? Oppure con gli operai, a manifestare. Mica è venuta la gente che sta in casa a giudicarci!»

CHI MUOVE I FILI? – Li giudica la gente e li giudicano i giudici. Nel libro non mancano, quindi, accenni al carcere che non rieduca («Entrarono negli uffici deputati all’accettazione, anche se chiamarla così faceva pensare a un pronto soccorso. Ma da lì le persone non uscivano mai guarite, né curate. Anzi, qualcuno peggiorava. E qualcuno moriva.») e al “sistema Giustizia” che delle volte di giusto sembra avere poco. In particolare, l’autore tira qualche frecciatina a quei magistrati che, soprattutto dopo il G8, non vedono l’ora di farla pagare ai poliziotti. Interpretando un sentire diffuso, qualche critica è poi rivolta al sistema penale da due personaggi: l’ultra Ale («In Italia i potenti non pagavano mai. La legge era implacabile solo con gli ultimi, con gli avanzi della società. Bastava pensare agli ultrà: in uno Stato in cui i politici indagati potevano stare in Parlamento, i teppisti da stadio erano trattati come terroristi.») e il poliziotto Fabio («Lo Stato italiano era inflessibile solo con i poveracci, i criminali da strapazzo, i ladruncoli, i tossici, adesso pure i clandestini. Succedeva lo stesso in piazza, dove ti scontravi con gente malmessa quanto te. […] In piazza tu rappresentavi lo Stato a cui loro chiedevano risposte. Ma se lo Stato quelle risposte non le aveva, parlavano solo i manganelli.»).

È anche per queste disparità e queste carenze del sistema giudiziario che, nella finzione come nella realtà, si alimentano la frustrazione, il desiderio di vendetta, anche se indiretta, e la voglia di farsi giustizia da sé. Che ci sia una correlazione tra quanto accade negli stadi e il dilagare del malessere sociale emerge, del resto, anche in queste pagine, nelle parole che Nicola scrive per il suo saggio: «Sembra che la violenza che ha lasciato le piazze italiane si stia riversando negli stadi. Non a caso aumenta la politicizzazione delle curve, con una forte deriva a destra […]».

Lo scontro tra ultra e celerini – così come tra questi e manifestanti, l’abbiamo visto anche di recente a Roma – somiglia sempre più a un assurdo gioco al massacro, dove per giunta si mira al bersaglio sbagliato. Appare chiaro, infatti, in questo romanzo, che chi combatte, a prescindere dal “fronte”, sia solo una pedina. E a muovere queste pedine sono “mani invisibili”, come pensa il celerino Gianluca. Consapevoli di questo, diventa difficile scegliere (o almeno dovrebbe): fare il gioco dei burattinai occulti? Continuare a subire? Non ho risposte, ma sicuramente escludo che lasciarsi andare alla follia distruttiva possa servire a migliorare le cose: ce lo mostra anche “A viso coperto” che la violenza genera altra violenza. E basta.

 

 

La foto con Riccardo Gazzaniga è di Pino Argiolas.

La scritta ACAB è quella del film omonimo del 2012, la foto del G8 è tratta dal sito www.progre.eu, mentre quella con le mani del burattinaio dal sito Italiaparla

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