Raccontonweb: “Misteriosa presenza” di Emanuela Verderosa
Misteriosa presenza
Nella stanza in penombra un brusio sommesso altalenava tra le figure assise e pensose. Molte di loro avvolte dal nero lutto della consuetudine meridionale.
L’ultimo sole indugiava sospeso al tepore di marzo stampando ombre lievi sui volti gravi e rigati, certuni, da lacrime stanche. A tratti, sospiri improvvisi conquistavano l’angusto varco di finestra per svanire tra le chiome degli alberi antistanti.
Il giorno tremolando affievoliva chiamando a resa diuturne ansie e fatiche dell’inquieta esistenza degli uomini.
Lui, l’assente, lo avevano da poco lasciato lì, in ospedale, freddo e disteso tra addobbi e croci e una immagine della Vergine in trono dispiegata sulla parete dalla parte del capo, in chino gesto materno come determinata a vegliarlo tra ceri tremolanti.
L’angoscia, l’ansia, l’incertezza di mesi e di anni per il male infido annidato ed alfine impazzito nel giovane corpo estenuato, approdavano lì. Lì la speranza arresa e il traguardo. In quella stanza tiepida e muta abitata dal denso tempo immoto e palpabile. Un’isola del non-tempo, ormai.
E loro, i congiunti, sostavano in casa a vegliarlo impotenti e feriti, disposti in cerchio attorno alla madre quasi a sostenere insieme la minacciosa muraglia di insaziato perché rivolto verso l’alto per l’imponderabile destino degli uomini. Muraglia che può schiacciare, a volte, per crudo non-senso.
A tratti, frasi scontate rompevano silenzi e pensieri. E gente che arrivava, sostava silenziosa, per poco, poi salutava, esprimeva cordoglio ed andava. E altri salivano, seri e spiazzati, animando il chiocciante andirivieni di scale. Salivano per il rito antico di consolare ed essere consolati e, forse, guarire dall’amara lacerazione nella carne.
E salì anche un cane. Un magnifico dalmata dallo sguardo mite su una testa attenta ed intelligente. Seguiva i passi umani senza fretta né smania, adeguandosi al ritmo lento e pacato del frangente. Arrivò nella saletta con altre persone. E, come loro, fece il giro dei presenti seduti lì ormai da tempo, guardandoli uno per uno come a salutarli. Ma cercava qualcuno di preciso. E la trovò. Giunto dinanzi alla madre del morto, il cane si fermò. La guardò. E le si sedette dinanzi. Immobile.
Nella concitazione della sorpresa, intanto, si animavano interrogativi sulla sua presenza inusitata e si cercava il padrone tra gli ultimi sopraggiunti. Ma del padrone nessuna traccia. Uno dei presenti lo chiamò. Il cane gli si diresse incontro. Si lasciò prendere dal collare con arresa mansuetudine. Come se avesse adempiuto un suo compito. Sulla targhetta appesa un numero di telefono. Fu rintracciato il padrone. E il suo padrone arrivò e ringraziò per il cane che aveva temuto di non rivedere.
L’accaduto inspiegato ed inspiegabile inquietò non poco. E lasciò una domanda in più sospesa nella stanza di veglia.
Perché un cane dopo aver percorso quindici chilometri di distanza (da Busto Arsizio a Tradate) avrebbe infilato una stradina fuori mano, imboccato uno stretto portico seminascosto, attraversato un vicolo antistante gli usci per dirigersi decisamente alla scalinata aggettante al primo piano di una casa dove si piangeva un morto? Perché? Che cosa lo avrebbe spinto e guidato lì, fino a quella stanza fuori mano segnata da un’assenza radicale, dinanzi alla figura mesta di una madre in lutto per suo figlio? È dinanzi a lei che si era fermato! È per lei che era arrivato fin lì. Che cosa lo aveva richiamato lassù?
Con il trascorrere dei giorni una sola motivazione si impose come misteriosamente plausibile: lì, in quella casa, si faceva memoria di un uomo sofferente da tempo e mancato ai suoi cari. E quell’uomo era amico dei cani.
Eh! Già. Cose che succedono. “Ci sono più cose in cielo e in terra Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.” (William Shakespeare, Amleto).
Emanuela Verderosa