RaccontOnWeb: “Esistenze perdute” di Antonino Giuffrida

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trenoEsistenze perdute

Il treno, fischiando, aveva annunciato il suo arrivo alla Bahnhof Bozen alle 9:14 del 18 novembre 2014.  Ero stanco ma felice: Bolzano sarebbe stata la prima tappa della mia nuova carriera da insegnante, il sogno di una vita. Un signore con un pesante cappotto grigio e un cappello di velluto nero mi era venuto incontro e si era presentato gentilmente come Edoardo Cantucci, il preside della scuola media presso cui, di lì a poco, avrei cominciato a lavorare come docente di lettere. Aveva due baffi bianchi, folti e ispidi come una spazzola da scarpe; che si arricciavano all’insù ogni volta che mi sorrideva. E lui mi sorrideva spesso, buon uomo, quasi a voler sciogliere i miei mille dubbi da novizio. Si era dunque offerto di accompagnarmi con la sua vecchia Peugeot 205.

Guidava piano. Del resto, a Bolzano, diceva, la vita scorre lentamente; così lentamente che risulta impossibile per chi ci abita non apprezzare la vita in ogni suo istante, respiro dopo respiro. Gli dissi che, sì, quel muto, quieto, dolce trascorrere delle cose io, a trentatré anni suonati, non l’avevo mai percepito nella mia Messina. E mi erano bastati soltanto pochi minuti perché ne sentissi la differenza.

Tra una chiacchiera e l’altra, gli confessai di non avere molti soldi con me, che alloggiare in un albergo, alla lunga, avrebbe prosciugato tutti i miei risparmi; tanto più che, per incassare il primo stipendio, avrei dovuto aspettare un mese. Edoardo, alle mie parole, non si scompose di una virgola e, anzi, dandomi una leggera pacca sulle spalle, mi propose di vivere insieme a lui, nel suo modesto ma accogliente appartamento di Bressanone, almeno finché non mi fossi potuto permettere una sistemazione diversa. Accettai senza esitazione.

A casa sua, ci sedemmo davanti a una tazza di thè caldo:

«Perché, tra tanti mestieri, proprio l’insegnante?» mi chiese, sorseggiando con pacata gestualità.

«È una vocazione» ribattei timidamente. «Una vocazione che sento in me sin da ragazzo, quando ero costretto a sorbirmi i sermoni di pessimi insegnanti. E sa perché erano pessimi? Non per la cultura, che poteva anche essere buona, e neppure per la loro capacità di catturare l’attenzione durante le lezioni, ma perché credevano che, in ogni classe, ci fossero degli alunni di serie A e degli alunni di serie B. Quelli di seria A erano i figli di papà, tutti perfettini e con le Nike ai piedi; quelli di serie B erano tutti gli altri, scapigliati e con le toppe ai jeans. Ai primi andavano tutte le cure e gli elogi del caso; agli altri i “suo figlio è bravo ma non si impegna”. Ecco io ho sempre detestato simili distinzioni. È per questo che ho sempre sognato di diventare un insegnante: per non essere come loro, per dar voce a chi non ce l’ha».

«Mi fa molto piacere che lei pensi in questo modo, sa? Nella seconda A, dove andrà domani, c’è un ragazzino “problematico”. Non parla con nessuno. Tutti lo prendono in giro per le sue orecchie a punta. Lo chiamano “elfo”, poverino. Ma, se non sono indiscreto, mi dica…».

«Sì…».

«Lei ha sognato di diventare insegnante o ha lottato per esserlo?».

«Ho sognato e ho lottato. Credo che non si possa scindere il sogno dalla lotta. È sognando che si lotta».

«Mi è giunta voce, però, che molti suoi colleghi, pur lottando e sognando, e pur investendo tutto – soldi, affetti, energie fisiche e mentali – non siano stati fortunati quanto lei, e sono ancora a casa, ad aspettare che questo bel governo si muova concretamente per una “buona” scuola».

«E lo so; ma prima di avere questa opportunità, sapesse quanto ho sofferto anch’io. A un certo punto, ho pensato proprio di non farcela. Non c’è niente di più terribile, mi creda, che ritrovarsi fuori dall’università con l’amara consapevolezza di aver sprecato la propria vita in studi incapaci di garantirti un futuro dignitoso».

«La capisco; ma, adesso, vada a dormire. Al risveglio, la aspetta una lunga giornata».

Quella notte, andai a letto col batticuore. Come sarei stato accolto in classe? Avrei saputo dare ai miei alunni dei valori, prima ancora che delle nozioni? Quel ragazzino “problematico” di cui mi aveva parlato il signor Cantucci sarebbe stato davvero tanto difficile da gestire? Questi interrogativi mi accompagnarono sino all’indomani mattina.

Sebbene mi fossi alzato molto presto, il preside mi aveva comunque preceduto: «Quando si superano i sessant’anni» disse «si ha un’altra percezione dell’esistenza. Ci si sveglia presto e non si vede l’ora di andare incontro alla vita».

Poi mi fece salire nella sua auto e mi portò alla scuola.

«Mi raccomando,» mi sibilò a un orecchio, poco prima che varcassi la porta della seconda A, «sia come un padre per loro, ne hanno bisogno».

Tirai un ampio respiro ed entrai.

Dieci piccole pesti, in piedi sui banchi, si lanciavano di tutto: penne, matite, gomme, aeroplanini di carte. Strepitavano e urlavano, con tutto il fiato che avevano in gola, nel loro incomprensibile dialetto locale. L’undicesimo, invece, stava in disparte e aveva lo sguardo perso nel vuoto. Non parvero neppure accorgersi della mia presenza, finché non intimai loro con voce grossa: «Silenzio!». E tutti, come per magia, fecero silenzio e si sedettero.

(continua)

Antonino Giuffrida
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