La caffettiera-intervista a Matteo Guidi di Francesca de Carolis

Matteo Guidi parla a un microfono con in mano una caffettiera

Riceviamo e pubblichiamo quest’interessante intervista a Matteo Guidi:

 

Matteo Guidi, artista visivo con una formazione in comunicazione visiva ed etno-antropologia, conduce ricerca in contesti complessi con particolare interesse ai fenomeni di forte esclusione sociale e ai contesti caratterizzati da alti livelli di controllo sulla persona. Ha pubblicato Cucinare in massima sicurezza, Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, Viterbo, 2013.

 

Matteo Guidi parla a un microfono con in mano una caffettieraNel tuo lavoro di ricerca privilegi l’attenzione alle persone che vivono in situazioni di forte controllo….

L’idea di osservare chi vive in condizione di forte controllo è solo un pretesto per vedere ciò che accade in termini più generali nella nostra vita quotidiana. Le carceri sono un esempio di forte controllo della persona e sulla persona, così come per me è stata l’esperienza in Palestina, dove le persone sono fortemente limitate nelle loro pratiche quotidiane. Ma anche le dinamiche familiari possono controllare fortemente le persone. In situazioni come il carcere o un regime militare queste situazioni sono esasperate, ma in realtà ci sono tante misure intermedie dove, senza che ce ne rendiamo conto, questo avviene. Che dire degli aeroporti? Sono un altro luogo in cui le persone sono fortemente controllate; un luogo molto più vicino a noi, e nel quale accettiamo questo controllo perché ne va della nostra sicurezza.

Ecco, a me interessa andare a vedere i limiti e soprattutto le tecniche, le tattiche che noi adottiamo per superare le limitazioni quotidiane. Per questo mi interessano le carceri o i territori controllati come la Palestina, perché ci permettono di capire qualcosa di quello che avviene nella nostra vita quotidiana, in territori dove apparentemente ci sentiamo sicuri.

L’obiettivo per me, insomma, è studiare i meccanismi del controllo dichiarato, istituzionalizzato, ma anche vedere come l’uomo è in grado di trovare degli espedienti, che io chiamo tattiche, soluzioni o scorciatoie per riadattare e rinegoziare la propria posizione altrimenti passiva.

Proviamo a mettere a fuoco i due casi estremi con i quali ti sei confrontato. Iniziamo dal carcere. Com’è stato l’incontro con i detenuti?

Tutto è cominciato perché la cooperativa Co.Mo.Do, che stava gestendo laboratori dentro la Casa di Reclusione di Spoleto dove lavorava da tempo e anche bene, mi ha proposto di andare a tenere un modulo nei laboratori di comunicazione visiva che loro già stavano portando avanti da qualche anno. Era il 2008. Ho accettato subito, avevo una tremenda voglia di entrare in carcere, di penetrare quei luoghi. Sinceramente non amo particolarmente tenere workshop o laboratori, un po’ mi annoia e trovo il rapporto con gli studenti un po’ difficoltoso, nel breve tempo di un workshop, ma mi interessava e incuriosiva molto capire questi rapporti in una situazione tanto lontana  dalla mia vita ordinaria. Ero anche convinto che avrei potuto fare un buon lavoro con quelle persone. Percepivo un potenziale che poi si è confermato. Dovevo fare due settimane di laboratorio; devo dire che avevo una grande paura di non essere all’altezza della siotuazione, mi ero preparato, avevo studiato tanto…

Erano tutti detenuti dell’alta sicurezza, pene lunghe, molti ergastoli. Ricordo ancora come nel primo incontro Carmelo Musumeci, uno del gruppo, oggi detenuto a Padova, smontò il mio tentativo di lezione di semiotica dicendomi: “Ma noi queste cose le sappiamo già! Non c’è bisogno che tu ce le venga a raccontare”. Ecco, lì decisi -e si rivelò la mossa migliore- di cambiare registro, di farmi raccontare da loro il significato di qualche oggetto importante presente nella loro cella.

Il primo passo fu la scomposizione della caffettiera. Proprio così, una caffettiera. Non potete immaginare quante funzioni possa avere lì dentro un oggetto tanto comune: con una forma che si adegua perfettamente alle necessità quotidiane, può sostituire un ferro da stiro, un martello, un batticarne… può anche essere sbattuta sulle sbarre per protesta. Abbiamo provato a disegnare insieme in sezione la moka, anche  scomponendone i vari componenti, divertendoci molto, devo dire.

Di lì a poco, con Ivano Rapisarda, è nata l’idea di creare un collettivo. È stata sua l’idea del Mo.Ca Collective, ed è stato lui a spiegarmi che Mo.Ca era con la C non con la K, perché acronimo di Mondo Carcerario; un collettivo per riunire tutti quelli che nelle carceri volevano fare lavori di questo tipo, di comunicazione visiva. Ci sembrava che la “Moca”, che a tante cose può essere utile, esprimesse bene la pluralità di esperienze di cui è composto il mondo carcerario. Il Mo.Ca Collective, nella parola “collettivo”, poi, sottolineava il fatto che in carcere c’è l’impossibilità totale di riunirsi. Così la prima cosa che feci con loro fu di spostare tutti i banchi modello scuola elementare, metterli in cerchio, o a ferro di cavallo in modo da creare, o almeno fingere di, un gruppo. Che poi ogni volta si sfaldava, quando ognuno tornava nelle sezioni e io me ne tornavo a casa…

Con il lavoro assieme ai detenuti è nato anche una sorta di ricettario che però è molto di più e molto altro.

È un testo pensato e scritto con le persone detenute delle sezioni di alta sicurezza, e non solo del carcere di Spoleto, ma corrispondendo anche con detenuti di tutta Italia. È un libro che racconta come si cucina nelle celle con quel poco che si può avere a disposizione. Quindi, col pretesto di fornire delle ricette, il libro pone l’accento sugli utensili da cucina che vengono usati, cosa che in genere nei normali ricettari viene omessa e invece qui diventano il filo conduttore del lavoro; chi immaginerebbe che un manico di scopa possa diventare un mattarello o dei lacci delle scarpe possano essere usati per legare la pancetta? O che una persona per fare il pane debba seguire tutto un processo che prevede la lievitazione sul televisore? È una cosa che colpisce allo stomaco, magari ti strappa anche una risata, ma poi ti fa fermare a riflettere sulla  condizione di queste persone. Forse anche in questo senso possiamo collocare questo lavoro nel mondo dell’arte. Il libro è illustrato, i disegni sono di Mario Trudu, che in carcere si è diplomato all’Istituto d’Arte.

Cosa c’entrano le ricette con l’ergastolo?

C’entrano soprattutto perché si parla di prepararsi, di realizzare il proprio cibo, di gestione della propria alimentazione, si parla di nutrirsi, e quindi, allora, di riprodursi… Al contempo parliamo di persone sottoposte a una condanna perpetua, la cui condizione non ha una fine, o meglio, la sua fine coincide con la fine dell’individuo.

Dunque anche un ragionamento sul senso della pena, su un mantenersi in vita fine a se stesso

Che senso ha riconoscere che ho sbagliato se poi non ho speranza di restituire qualcosa alla società e restituirmi alla società? Lo stesso accade con il cibo. Perché mi devo alimentare se la mia condanna è stare chiuso qua dentro per sempre? Perché mai dovrei alimentare la mia condanna? Invece è proprio questa la forza delle persone con cui ho fatto il libro. C’è una complessità interessantissima e bellissima  nelle ricette, un’elaborazione straordinaria. E vien proprio da chiedersi: tutto questo in una condizione così estrema? Da dove viene questa voglia di farsi la granita o tutta l’elaborazione necessaria per farsi i cannoli siciliani, tutto questo impegno, e ingegno, in uno status che rischia di non cambiare mai, in una vita ristretta in un luogo del quale qualcuno vuole “buttare la chiave”. È stupefacente come anche lì rimanga comunque il desiderio di vivere e di vivere al meglio.

Nella società in cui viviamo c’è quasi un’esasperazione di questa dimensione della good life. Ecco, anche qui, in condizioni dove niente sembra avere più senso, l’uomo cerca il meglio per sé.

Quand’ero più piccolo, ero sempre affascinato dalle storie in cui si raccontava di situazioni estreme in cui il protagonista si ritrovava con questa grandissima forza, quando mi spiegavano che “nel momento in cui stai per cadere in un precipizio, la tua capacità di sollevarti è enorme”. Qui avviene lo stesso. In condizioni così estreme l’uomo dimostra che ha un grande potenziale. Vien da pensare che bisognerebbe che ci fossero più occasioni per tirarlo fuori, quel potenziale. Invece siamo come addormentati, distratti…

Ti sei occupato anche di fotografia in carcere.

Alla fotografia ci sono arrivato tardi, dopo che avevo già avuto esperienze con il carcere, e quando ci entri, lo sai meglio di me, ci rimani incastrato, continui a portarti a casa molto di quello che hai incontrato lì dentro, e continui a riflettere molto, ti fai tante domande. Così a un certo punto mi sono chiesto: ma è mai possibile che le uniche immagini che ritraggono tutte queste persone che sono dentro il carcere siano  foto segnaletiche o quelle scattate quando si esce per i processi nei casi più mediatizzati? Eppure, mi sono detto, io ho visto lì dentro delle persone con le scarpette da ginnastica, la magliettina, la polo verde pisello, abiti di un’estrema ordinarietà. Ho iniziato a riflettere e un giorno leggendo L’assassino dei sogni di Carmelo Musumeci, vedo questa sua foto in bianco e nero: lui accasciato sull’erba, con accanto un cane accovacciato sulle zampe posteriori, Carmelo indossava un cappellino con l’immagine icona di Che Guevara, un paio di sandali… una foto che avresti potuto fare nel parchetto dietro casa tua. C’era il cane, l’erba incolta e non c’erano riferimenti al carcere. Un contrasto enorme fra la persona che avevo visto al chiuso qualche giorno prima, e questo soggetto che avrebbe potuto essere in qualsiasi periferia di qualsiasi nostra città. Tra l’altro io sapevo che Carmelo non usciva da 21 anni, e quindi quella foto non poteva essere stata scattata in un campetto di calcio. Nel libro c’era anche una lettera alla compagna in cui diceva: “Mi sono appena arrivate le foto che abbiamo fatto nel campetto del carcere”. Allora gli ho scritto una lettera e gli ho chiesto di spiegami un po’ questa storia delle foto che si erano fatti, e lui mi ha confermato che in carcere c’era un giro di produzione di fotografie dei detenuti, nel senso che in alcuni momenti le mura del carcere si incrinano… Sì, capita che in un’istituzione così rigida si apra qualche crepa, che viene magari da un momento di umanità di qualche direttore in certi periodi dell’anno, spesso coincidenti con festività religiose. Non avviene in tutte le carceri, ma in alcune di queste istituzioni chiuse c’è questa apertura e così accade che in alcune possano farsi queste fotografie.

Ho letto che però alcuni di loro reagiscono con perplessità guardandosi nelle immagini. Alcuni persino non si riconoscono…

Sì. C’è tutta una serie di problematiche, legate al tempo che passa, al fatto che in un carcere di massima sicurezza non ci sono specchi per potersi vedere normalmente, insomma c’è come un distaccamento. A me interessava proprio la fotografia, l’istantanea, nella condizione dell’ergastolo, che non è istantaneo, ma esattamente il suo contrario.

All’inizio hai accennato all’esperienza in Palestina, un altro caso estremo di  controllo sulla persona.

In Palestina sono andato nel settembre del 2012. Anche lì avrei dovuto restare solo tre mesi, poi però ho capito che mi serviva più tempo e per fortuna mi è stato proposto di fermarmi. In tutto ci sono stato sette mesi, e ci dovrò tornare il prossimo settembre perché ho ancora dei pezzi di ricerca da completare. Era un po’ che avevo desiderio di vedere cosa succedeva da quelle parti. Come per il carcere, prima di mettervi piede era un luogo di cui non sapevo nulla. O meglio, le informazioni che ricevevo erano solo quelle che vengono dall’informazione massiva, nel senso che non avevo un’informazione indipendente. Avendo per anni ragionato su persone ristrette in regimi di alta sorveglianza, mi interessava continuare il discorso, mi incuriosiva vedere cosa succede quando gli spazi si dilatano, ma le dinamiche si ripetono, in contesti comunque controllati, complessi.

Le carceri sono distanti da noi, dalla società nella quale viviamo ogni giorno, perché sono proprio chiuse. Allora mi interessava sperimentare luoghi più grandi, come la Palestina, che però incarnano dinamiche simili, perché le persone vivono all’interno di un territorio circoscritto, per uscire dal quale comunque ci sono grossi ostacoli, bisogna fare peripezie, ottenere permessi che non tutti possono ottenere…

Le mie ricerche si sono così incontrate con quelle di Giuliana Racco, artista canadese che da anni lavorava sulle migrazioni, sul movimento delle persone attraverso territori in situazioni di eccezionalità  e con la quale condivido ora una parte della mia ricerca, e della mia vita quotidiana.

Quello che le informazioni non riportano, in effetti, sono tutte le piccole limitazioni al tuo vivere giornaliero, il fatto che anche solo per andare da A a B devi fare un percorso tortuoso, che a un certo punto lungo il tuo cammino viene costruito un checkpoint, dove qualcuno ti ferma e ti chiede chi sei, dove vai, cosa fai, e tu devi negoziare. Questo succede un po’ anche nelle carceri: devi negoziare continuamente la tua posizione, il tuo territorio, attraverso la fiducia che dai agli altri, esattamente come accade in un territorio allargato ma comunque chiuso dentro confini e gestito da un’autorità che senti che non ti rappresenta. Così come per il carcere, anche in Palestina c’è questa sensazione che “si è finiti dentro”, non si è andati dentro… E poi c’è il muro.

Ma andando lì, capisci che sono le stesse dinamiche della vita quotidiana di un carcere. Si potrebbe parlarne all’infinito. Ma, per dirne una, in quei territori non c’è quasi più consumo di pesce e quello che c’è arriva da un altro Stato, proprio lo Stato che si ha difficoltà a riconoscere. Chi vive nella West Bank non ha più accesso al mare, quindi non ha accesso a quella risorsa, mentre i palestinesi si sono sempre riconosciuti come abitanti del Mediterraneo.

Tornando un po’ al discorso iniziale, quello che è interessante è che le dinamiche che incontriamo in questi contesti non sono così diverse da ciò che ci accade nella nostra vita quotidiana. Ho già citato gli aeroporti, ma chi vive nelle città si accorge che le tante leggi che regolano lo star bene insieme o che garantiscono la sicurezza portano con sé una serie di impedimenti, restrizioni e limitazioni al nostro vivere quotidiano che poco alla volta assimiliamo. Ora, l’assimilazione di un limite è il primo passo di quello che poi può diventare un sistema di autorestrizioni o autocostrizioni, nel senso che siamo noi per primi a pensare che una certa azione è meglio non farla ancor prima che ce la proibiscano.

Le nostre prigioni quotidiane… ma cosa rimane, alla fine dei tuoi studi, molti rapporti immagino.

Sì, certo. Inizio dai palestinesi, l’ultimo contatto l’ho avuto proprio ieri sera con Ibrahim Jawabreh, una delle persone con cui ho lavorato in Palestina e con cui sono rimasto più in contatto, con lui e con la sua famiglia, anche perché ho vissuto nel campo rifugiati dove lui è nato e cresciuto, e alloggiavo dalla sua famiglia. Proprio con Ibrahim, che è un artista performer, sto cercando di portare avanti un nuovo pezzo di lavoro, tra la Palestina e l’Europa.

Ciò che stiamo per fare è una vera sfida… Ci sto lavorando anche con Giuliana e parte da un primo step che abbiamo intitolato “The artists and the stone”, nell’ambito di un progetto più ampio che si chiama Elemental Movements…

Vogliamo fare arrivare qui a Barcellona Ibrahim, affinché possa portare avanti la sua pratica artistica di performer e di interagire con il nostro lavoro. Per il momento siamo impegnati a preparare i documenti necessari a fargli ottenere un visto Schengen dal consolato spagnolo in Palestina. Allo stesso tempo però vogliamo spostare dallo stesso campo di rifugiati dal quale Ibrahim proviene e dove c’è una cava – come in buona parte di quel territorio del resto – un blocco di pietre di circa dodici tonnellate. Anche di questo stiamo preparando i documenti necessari per il suo spostamento. In questo momento siamo nella fase preliminare di costruzione del network di partners, ricercatori che vogliono collaborare e finanziatori dell’intero progetto.

Le pietre sono state una parte importante del lavoro che abbiamo fatto là durante la nostra permanenza. In Palestina c’è un rapporto con la pietra molto forte. Lì in particolare si ricava una pietra classificata appunto come pietra di Gerusalemme, Jerusalem Stone. Insomma vogliamo far arrivare qui in Spagna lui e questa grossa pietra. L’idea ci è venuta quando Ibrahim ci ha chiesto se il centro che ci ha dato l’opportunità di lavorare in Spagna, che si chiama Hanagr, poteva scrivergli una lettera d’invito per permettergli di aprire le porte d’uscita dal suo paese. Ci siamo detti, certo, facciamolo, ma proviamo a farlo diventare un caso, un atto dal quale poter generare riflessioni. Per questo si è pensato di contrapporre il suo movimento a quello della pietra di Gerusalemme. Vediamo cosa succede se contemporaneamente abbiamo anche la possibilità di muovere dalla Palestina, da casa sua, insieme a una persona, dieci-dodici tonnellate di pietra…

Pietre e persone da liberare… e con le carceri? 

Ci sono persone con cui continuo a mantenere contatti. Che non significa necessariamente che scrivo loro spesso, ma che sono persone cui spesso penso, delle quali cerco di capire la condizione: come vivono le giornate, cosa fanno. Provo proprio a immaginarmele le loro giornate. Si è formato un forte legame, infatti mi succede quello che succede con un amico: magari un certo modo di dire mi ricorda uno di loro; penso a loro quando vedo qualcuno che me li ricorda o mi imbatto in qualcosa che so che a uno di loro potrebbe piacere, che so, una foto…

 

A cura di Francesca de Carolis

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