Viaggio tra le parole alla ricerca del senso perduto
Riceviamo e pubblichiamo:
Incapace di definire una mappa completa e articolata di radici lessicali e di probabili etimi da collegare attraverso la ramificazione semantica, continuerò a procedere per campionature. Partendo da gruppi di parole della stessa famiglia. E quale avvio migliore se non cercare le affinità semantiche tra le parole che usiamo più frequentemente, le quali, apparentemente lontane sul piano del significato, mostrano invece nella struttura fonologica una comune origine. In questa ricerca ci può essere d’aiuto la pagina del dizionario dove più dense sono le ricorrenze fonetiche che rendono probabile se non evidente questa loro appartenenza. Il criterio, infatti, della organizzazione dei lemmi nel dizionario è quello dell’ordine “alfabetico”, costruito proprio sulla componente fonologica delle parole.
Perciò oggi ho scelto di partire da una pagina del vocabolario di latino, in cui si trovano le parole legate al verbo vìgeo/vigère. Si tratta di un verbo intransitivo, cioè tale che, per completare il suo significato, non richiede nessun elemento lessicale aggiuntivo (il tradizionale complemento oggetto): basta il soggetto affinché il verbo esaurisca la sua capacità di significare. Vìgeo/vigère significa essenzialmente: aver vigore, essere pieno di vita. Poi, anche, continuare ad aver vigore, continuare ad essere forte, continuare a vivere. Da qui l’area del significato si espande per metafora a tante altre situazioni che il vocabolario, per darne l’ampiezza, documenta con esempi della lingua (le cosiddette espressioni idiomatiche).
Nella stessa pagina trovo il verbo vigesco (dove il suffisso –sco modifica l’aspetto del verbo e gli aggiunge la parte di significato che possiamo sintetizzare nelle parole “inizio a …” oppure “divento …“ . Quello che si dice aspetto incipiente del verbo, cioè: azione che comincia. Quindi: “prendo vigore”, oppure “riprendo vigore”. Poi trovo l’aggettivo vigil, che significa “in forza” e per traslato “sveglio”, “vigile”. Da vigil si forma un altro verbo: vigilo/vigilare (vegliare). Poi c’è il sostantivo vigor (vigore, forza, energia, forza vitale; con tutte le espansioni originate dalla pratica dell’uso attraverso la metafora).
Vigil (“che è sveglio” o “che tiene sveglio”), vigilare (“vegliare”; ma anche “sorvegliare”), vigilia (“lo stare sveglio”). Notiamo già che il significato originario va trasformandosi verso un diverso contenuto semantico: quello della funzione e dell’attività della guardia. In italiano, infatti abbiamo: il vigile, l’azione del vigilare, e (implicitamente) anche la sorveglianza notturna. Così del vigeo iniziale, nella lingua italiana è rimasto (quasi) solo il participio vigente, cioè “in forza”, “in atto”, “in corso”, o meglio, in vigore, come diciamo generalmente quando parliamo di leggi o di monete. Cioè: che vale ancora.
Vigilia, invece, che come termine tecnico era passato ad indicare la guardia notturna, e, anche, la persona che la faceva (la sentinella), nonché il turno stesso, e la durata in termini di ore del turno di guardia (prima vigilia; seconda vigilia; ecc.), come vocabolo è rimasto identico anche nella lingua italiana; ma con la differenza che, a causa dell’uso che se ne faceva durante le feste importanti (per indicare la veglia dalla sera del giorno precedente fino all’alba della festa) è andato ad indicare: “giorno precedente una solennità”. Come, ad esempio, vigilia di Natale. Da vigilia (veglia) – attraverso il verbo ex-vigilare – si passò al verbo provenzale “ex-velhar”. E da qui il nostro “svegliare”.
Luigi Casale