ULTIMI INCONTRI SULLA PREVENZIONE AL MBC DI TORINO

Young woman sleeping

Particolare attenzione alla Malattia di Parkinson e ai problemi del sonno

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)

Si è concluso a Torino, a cura della Associazione “Più Vita in Salute”, presieduta dal dott. Roberto Rey, il secondo ciclo di conferenze ai Lunedì pomeriggio della Prevenzione e della Salute. Le ultime due relazioni hanno avuto per tema: La malattia di Parkinson: quale prevenzione, tenuta dal neurologo Prof. Leonardo Lopiano; e Il sonno è salute, pe il cuore, il cervello ed il sistema immunitario, tenuta dal Prof. Guido Gasparri, chirurgo e particolarmente dedito anche a questo argomento. Sappiamo tutti, si suppone, che la Malattia di Parkinson (d’ora in poi M di P) è una malattia neurodegenerativa e progressiva che, dal punto di vista dell’incidenza e frequenza, è la seconda malattia degenerativa dopo la malattia di Alzheimer. Si calcola che in Italia ci siano circa 250 mila pazienti affetti da M di P, e non esclusivamente dell’anziano, e che non include necessariamente il disturbo del tremore; si ipotizza inoltre che entro il 2030 i casi saranno raddoppiati in quanto l’incremento di tutte le malattie neurodegenerative riguarderanno la popolazione anziana in costante aumento, la cui maggiore età interessata è tra i 70 e i 75 anni. «Tuttavia – ha precisato il prof. Lopiano (nella foto) –, la M di P nel 10% dei casi può avere un esordio precoce: secondo alcuni autori prima dei 55 anni, secondo altri prima dei 50-60 anni; quindi, c’è una discreta percentuale di pazienti ad esordio precoce e all’interno di questa percentuale esiste anche un esordio giovanile (10-20%), ossia si manifesta prima dei 40-45 anni e, più precoce è l’esordio, più è importante l’aspetto genetico come possibile causa, e più è tardivo l’esordio più importante è l’aspetto legato all’ambiente». Il meccanismo dal punto di vista anatomo-patologico riguarda i neuroni che producono la cosiddetta dopamina che è un neurotrasmettitore chimico, che il nostro cervello utilizza affinché i nostri movimenti siano eseguiti correttamente. “Nel paziente parkinsoniano – ha spiegato il clinico – c’è una “zona scura” che diventa più chiara e questo significa che i neuroni degenerano, perdendo così la caratteristica della pigmentazione. Questi accumuli che ci sono nella cellula si chiamano Corpi di Levi, e sono costituiti soprattutto da una proteina». Secondo uno studio di alcuni anni fa la M di P si manifesta inizialmente, ad esempio, con il tremore, la lentezza del movimento ed altri sintomi che caratterizzano la cosiddetta fase prodromica, ed è qui che è importante fare prevenzione. Quindi, molto spesso prima dei sintomi classici noti, i pazienti possono avere disturbi dell’olfatto, stipsi e disturbi del sonno, tant’è che questa malattia non è solo motoria. «La fase prodromica – ha proseguito – può durare molti anni prima di poter giungere ad una diagnosi, anche perché esistono varie forme di Parkinson, come ad esempio le sindromi parkinsoniane che si differenziano in base alla combinazione di tutti i vari sintomi dovuti  alla degenerazione di varie aree cerebrali, oltre la sostanza nera che produce dopamina. Lo studio ha evidenziato l’ipotesi che ci possa essere connessione tra l’intestino e il cervello, tant’è che alcune forme precoci avvengono proprio nell’intestino, dove la proteina potrebbe essere alterata provocando vari disturbi, e in seguito anche i disturbi motori». Nella M di P l’insieme dei sintomi è presente nella fase prodromica, ossia prima della diagnosi, ma uno dei disturbi più importanti è il disturbo comportamentale in sonno Rem (fase durante la quale si sogna), i muscoli non sono più bloccati (sogni agiti). Questo disturbo del sonno Rem è uno dei marker più importanti della fase prima che si manifesti la malattia; e questi soggetti hanno un rischio aumentato di sviluppare la M di P ed altre malattie neurodegenerative. Altri sintomi hanno a che fare con il sistema nervoso autonomo anche a livello viscerale e vescicale, come pure relativamente al controllo della pressione arteriosa con tendenza all’ipotensione ortostatica (in posizione eretta), oltre alla riduzione dell’olfatto (anosmia), disturbi dell’umore e dell’affettività (depressione precoce). «Ma proprio perché vi è tendenza a perdere cellule – ha precisato il relatore – è molto importante agire sulla prevenzione pur in assenza di diagnosi, ma in presenza  di alcuni sintomi su descritti… la ricerca in questo senso è molto attiva, ossia verso i soggetti che svilupperanno la malattia, e sui quali si spera di poter utilizzare terapie neuroprotettive che, indipendentemente dalla causa, sono in grado di rallentare la progressione della malattia. A questo punto compaiono i sintomi». Il relatore ha tenuto a precisare che ci sono varie forme di M di P che vengono raggruppate in almeno tre fenotipi, ossia caratteristiche di malattia. Il fenotipo benigno che ha una progressione molto lenta e che risponde molto bene ai farmaci, e solitamente  ha un esordio precoce con il tremore che è il sintomo dominante; un altro fenotipo  che non ha il tremore come disturbo (nel 30-40% dei casi), ma prevalgono i disturbi di lentezza del movimento, rigidità muscolare; è una forma un po’ più aggressiva e risponde un po’ meno ai farmaci, ma ha un esordio più tardivo e può dare disturbi dell’equilibrio e del cammino. Attualmente si sta classificando la malattia in sporadica (85% dei casi) e su quale base genetica (5-10% dei casi), ma nella maggior parte la causa è sconosciuta. «Si sa comunque – ha aggiunto – che ci sono dei fattori di rischio e al tempo stesso anche dei fattori protettivi per i quali si prospetta il profilo della prevenzione. Per i fattori  di rischio ambientali è quando il soggetto è esposto ai pesticidi e insetticidi per un certo periodo in zone rurali, ed altre sostanze come solventi, colle, etc. Prodotti protettivi, invece, risultano essere la caffeina, l’acido urico in quanto antiossidante, ma anche l’attività fisica non è meno importante». Per quanto riguarda la diagnosi il clinico ha ricordato che in caso di sospetto si fa la visita per verificare l’esistenza di una sindrome parkinsoniana con l’evidenza di determinati sintomi come bradicinesia (rallentamento dei movimenti), tremore e rigidità muscolare. Ma è importante che la diagnosi sia precisa per via delle molteplici sindromi parkinsoniane, e questo a volte richiede un po’ di tempo. «In molti casi – ha spiegato – è presente la bradicinesia che può essere associata, oppure no, in modo vario a rigidità o tremore. La M di P si manifesta sempre prima da un lato (destro o sinistro), e alcuni di questi pazienti inizialmente manifestano la perdita dell’olfatto, stipsi, disturbo del sonno, etc. La diagnosi clinica è seguita da quella strumentale: scintigrafia, TAC o risonanza; mentre la risposta positiva alla terapia è un criterio diagnostico ulteriore». Pur essendo una malattia cronica progressiva la M di P la si può trattare e curare bene sin dall’inizio, e anche nelle fasi avanzate le terapie sono assai efficaci. Il farmaco principale  rimane la Levodopa (precursore della Dopamina), utile soprattutto per “riequilibrare” il movimento; altri farmaci che potenziano l’azione della Levodopa sono gli inibitori enzimatici. Ma come iniziare la terapia? «La terapia – ha precisato il prof. Lopiano – va iniziata subito dopo la diagnosi anche se i sintomi sono lievi, in quanto ciò garantirebbe la manifestazione di forme meno gravi a lungo termine. La terapia “standard” non esiste in quanto dipende dall’età del paziente, dai sintomi, dal lavoro che svolge (o ha svolto), dall’attività funzionale, etc.; quindi la terapia è mirata al soggetto. Ma nel tempo la stessa ha meno effetti e i sintomi tornano a manifestarsi sia pur alternativamente (stato di off). Nelle fasi più avanzate si interviene con la terapia chirurgica, soprattutto in pazienti giovani che presentano da tempo i movimenti involontari, con il posizionamento di due elettrodi all’interno delle zone cerebrali e quindi collegati ad uno stimolatore elettrico, e ciò con l’obiettivo di “risistemare” i circuiti alterati dalla carenza di Dopamina, e il paziente tende a migliorare. Per questo tipo di terapia i pazienti sono ben selezionati». Oggi, si sa che per la prevenzione della M di P e delle malattie neurodegenerative, oltre alla attività è importante la dieta… mediterranea, la quale ha maggior supporto scientifico per prevenire, appunto, soprattutto la degenerazione, ma da associarsi possibilmente durante la terapia subito dopo la diagnosi. L’attività fisica moderata e costante ha effetto protettivo, e tutto ciò rientra nelle Linee Guida, precisando che la prevenzione è anche ritardare l’esordio della malattia.

Sul tema del sonno è stato posto il quesito: perché dormire è salute? Molte sono le virtù del sonno sul cuore, sul cervello e sul sistema immunitario, una sorta di panoramica dei benefici per il nostro corpo. «Il nostro sonno – ha spiegato il Prof. Gasparri (nella foto) – si compone in varie fasi: il sonno lento leggero che corrisponde ad uno stadio intermedio tra la veglia ed il sonno stesso, e rappresenta circa il 50% della durata totale del sonno. La fase del lento profondo (25% del totale) e quella che fa meglio recuperare il nostro organismo, quello paradossale (20-25% del tempo totale) è contrasto tra l’attività cerebrale intensa, simile a quella della veglia, ma associata ad una assenza di tono muscolare. Questa fase è quella animata dai sogni. Tutte queste fasi hanno un ruolo preciso nel processo di recupero e preparazione per la giornata successiva, ma purtroppo con l’avanzare dell’età l’organizzazione temporale del sonno si modifica e la qualità e durata del sonno diminuiscono». Mentre nel giovane adulto gli stadi del sonno sono ben definiti, nell’anziano il sonno si frammenta, ossia si nota infatti un aumento del tempo prima di addormentarsi, una riduzione del tempo passato in sonno lento profondo ed un aumento di risvegli notturni con associata difficoltà a riaddormentarsi. Il tempo del sonno lento profondo e paradossale diminuisce e questo comporta un sonno più leggero e meno “riparatore”: testa annebbiata, irritabilità e difficoltà di concentrazione, e tutti conosciamo il prezzo da pagare dopo una notte troppo breve… La mancanza di sonno, è noto, non è una malattaia in sé; ma a lungo andare non dormire a sufficienza infligge danni reali al nostro corpo, con un rischio significativo di sviluppare condizioni patologiche. «Prime vittime delle nostre piccole notti insonni – ha precisato il relatore – sono il cuore e i vasi sanguigni. Essere privati del sonno significa anche essere privati di sostanze antinfiammatorie, secrete durante il sonno, come ha precisato Joëlle Adrien, neurobiologa e ricercatrice presso Inserm. L’infiammazione porta all’irrigidimento della parte del vaso. È un importante fattore di rischio per l’ipertensione e l’ictus. In ogni caso, il sonno sembra essere un alleato della nostra lotta contro le malattie neurodegenerative: l’osservazione  di grandi coorti per diversi decenni ha dimostrato che dormire brevi notti è un fattore di rischio per lo sviluppo della malattia di Alzheimer, caratterizzata in particolare da un accumulo di proteine che “danneggiano” il cervello». In effetti sappiamo tutti, anche intuitivamente, che quando abbiamo dormito male siamo meno attenti, meno vigili e che abbiamo più difficoltà ad integrare nuove conoscenze, così afferma Stèphanie Mazza, professoressa di Neuropsicologia all’Università di Lione 1. Ma quello che ora sappiamo è che il sonno post-apprendimento è essenziale  per consolidare la conoscenza. Secondo gli esperti l’esigenza di un buon sonno consiste anche nel rafforzare l’immunità, in quanto una buona notte di sonno combatterebbe meglio le malattie infettive: le persone che non dormono abbastanza hanno 4 volte più probabilità di contrarre un raffreddore. Per scoprirlo, ha raccontato il clinico torinese, gli scienziati, che non mancano di immaginazione e possono anche avere uno spirito allegro, inizialmente hanno cronometrato le notti di 164 volontari per una settimana prima di soffiare virus del raffreddore nel naso. Cinque giorni dopo i meno dormienti si soffiarono il naso molto più degli altri. La mancanza di sonno compromette il sistema immunitario a causa di un difetto delle molecole antinfiammatorie. «Queste molecole – è la precisazione di Joëlle Adrien – sono coinvolte nella risposta immunitaria. Se non ne abbiamo abbastanza il nostro sistema di difesa risponde meno bene all’aggressione: diventiamo molto più sensibili alle infezioni, in particolare ai virus. E questa differenza si nota anche nella risposta al vaccino. È stato inoltre dimostrato che se si trascorre una notte insonne dopo una vaccinazione, gli anticorpi saranno secreti in quantità minori ed è evidente che il vaccino è meno efficace».

Per quanto riguarda la relazione sonno-obesità per controllare l’aumento di peso non è sufficiente basarsi su ciò che c’è nel piatto…, e ciò è stato evidenziato nei primi anni 2000 da studi epidemiologici: esiste un legame tra notti di sonno troppo brevi e disturbi metabolici. «La mancanza di sonno – riferisce ancora la prof.ssa Adrien (nella foto) – induce stress e un aumento del desiderio di mangiare, e la causa è una deregolamentazione  degli ormoni che controllano l’appetito. La sintesi della peptina, l’ormone della sazietà secreto dalle cellule adipose, diminuisce quando non abbiamo il nostro giusto riposo, allo stesso tempo aumenta quella della Grelina secreta nello stomaco e che stimola la fame. La mancanza di sonno sollecita maggiormente l’assunzione di cibo e, allo stesso tempo, blocca l’interruzione di tale esigenza… È comunque difficile resistere al richiamo del frigorifero, e anche se non si ingeriscono più calorie il metabolismo dei grassi e degli zuccheri è meno buono quando non si dorme a sufficienza». Non sorprende quindi che più della metà delle persone anziane abbiano almeno un difetto nella regolazione del sonno, e questo si riflette sulle funzioni cognitive e sull’umore, e la condizione fisica può avere anche un effetto finale deleterio sull’autonomia. Il mondo del lavoro, così veloce a stigmatizzare i cosiddetti “sisteurs”, non è risparmiato dalle conseguenze a volte catastrofiche  della mancanza di sonno. Va ricordato che la sonnolenza rimane la principale causa di incidenti in autostrada: prima della velocità e dell’alcol circa il 20% degli incidenti stradali è legato all’addormentamento al volante. La soluzione più semplice per evitare di mettersi in pericolo è quella di prendersi una pausa di sonno, soprattutto durante i mesi più caldi di luglio e agosto. È il tempo di veglia continua che porta a un rischio di incidente equivalente a quello di un livello di alcol nel sangue di 0,5 g/litro, e 24 ore di veglia corrispondono a un livello di alcol nel sangue di 1 g/litro. Ma come poter migliorare la qualità e la durata del sonno nell’anziano? «Spesso per sopperire a questa mancanza di sonno – ha spiegato il clinico torinese – si ricorre ai sonniferi i cui effetti secondari possono alterare la qualità della vita delle persone anziane diminuendo le capacità mentali, deteriorando inoltre la coordinazione dei movimenti e aumentando quindi il rischio di cadute accidentali. Dunque, per migliorare la qualità e la durata del sonno, bisogna considerare che in generale le persone anziane dovrebbero praticare una attività fisica aerobica (all’aria aperta), ossia una attività che porti ad un aumento del ritmo cardiaco e respiratorio, come la marcia nordica (camminata total body con coinvolgimento degli arti inferiori e superiori e con l’ausilio di bastoni), la ginnastica in acqua, la bicicletta, etc.». L’OMS raccomanda alle persone anziane di praticare almeno 150-300 munuti di attività fisica aerobica moderata alla settimana. In questo modo le persone anziane si addormentano più rapidamente, dormono più a lungo con un sonno di qualità migliore. Un sonno insufficiente coinvolge molti fattori della performance sportiva e del recupero dopo affaticamento: la velocità di sintesi del glicogeno muscolare è rallentata come anche quella della cicatrizzazione di danni muscolari indotti dalla fatica, pertanto il rischio di lesioni muscolari aumenta. Per quanto riguarda il pisolino (o siesta) “potente” la durata ideale sarebbe di circa 30 minuti di pausa, con almeno 10 munuti di sonno, nel primo pomeriggio o fino alle 17.oo se si ha intenzione di lavorare fino a tardi, in posizione sdraiata e al buio, se possibile; i vantaggi sono la stimolazione dell’attenzione immediata e, per più di 2 ore, miglioramento dell’umore e della memoria, riduzione delle sensazioni di stress o dolore. Dopo 10-20 minuti di sonno, il corpo sprofonda in uno stato di sonno più profondo che provoca una sensazione di disagio al risveglio. «Per il pisolino “ristoratore” – ha aggiunto e concluso il prof. Gasparri – la durata ideale sarebbe fino a 2 ore e ciò nel primo pomeriggio, sdraiati su un letto al buio. I vantaggi sono la vigilanza  fino a 5 ore. Da praticare saltuariamente in caso di debito di carenza significativa di sonno, e permette di riposare veramente soprattutto ai lavoratori che hanno orari irregolari, e ne riduce il dolore e consolida la memoria».

Le prime due foto sono Giovanni Bresciani

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