“Suite francese”: il messaggio universale di Irène Némirovsky

copertina del libro Suite francese di Irène Némirovsky

Con “Suite francese” Irène Némirovsky non solo ha raccontato con lucidità il dramma del popolo francese ai tempi dell’occupazione nazista, ma ci ha anche consegnato un’eredità morale che non conosce confini.

di Marcella Onnis

Recentemente, un post di Patrizio Zurru mi ha fatto riflettere sull’(in)utilità di parlare di libri per provare a salvarli. Patrizio, voce autorevolissima in materia, ha purtroppo ragione, tuttavia, non riesco a smettere di scriverne: la speranza di contagiare altre persone con il mio entusiasmo per certe letture è dura a morire.

copertina del libro Suite francese di Irène Némirovsky “Suite francese”, scritto da Irène Némirovsky fra il 1941 e il 1942,  racconta quasi in diretta l’arrivo dei tedeschi in Francia, la fuga dei parigini dalla città, l’armistizio e l’occupazione nazista. Nelle intenzioni dell’autrice doveva essere una “sinfonia in cinque movimenti”, ma riuscì a scrivere solo i primi due romanzi (“Tempesta in giugno” e “Dolce”) perché morì ad Auschwitz a neanche quarant’anni. Aspirava a scrivere un capolavoro – ci rivelano i suoi appunti – e forse non è esagerato affermare che, pur non avendo portato a compimento il suo progetto, ci è comunque riuscita.

NON PARLATE DI FREDDEZZA – Per raccontare un dramma vissuto sulla propria pelle esistono due vie: parlare a cuore aperto, a costo di lasciarsi “prendere la mano” e scivolare nell’autocommiserazione, o (provare a) prenderne le distanze, a costo di risultare freddi. Irène Némirovsky ha optato per questa seconda via, ma è stata una scelta sofferta e quasi necessitata, come sembrano suggerire i suoi preziosi appunti, che rivelano l’accurato e critico lavoro di ricerca e riflessione che sta dietro queste pagine: «Mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamolo freddamente, guardiamolo mentre perde l’onore e la vita.» E ancora: «[…] il libro (nel suo complesso) deve sempre risolversi in una lotta fra il destino individuale e il destino collettivo. Senza doversi schierare; la tentazione di far conoscere il mio punto di vista personale è forte, e vi ho ceduto con brevi accenni», ma talmente brevi e mimetizzati da non dare comunque mai al lettore l’impressione di una “intromissione” nella storia.

Trovo, tuttavia, ingeneroso parlare – come fa qualche lettore – di scrittura fredda: le sue minuziose descrizioni sono pregne di vita, di umanità e di sofferenza, ma anche di amore e di speranza. Ci ha regalato di quei giorni una cronaca quanto più possibile oggettiva e alquanto impietosa – soprattutto nel mostrarci che la guerra non è poi così epica come a volte la dipingiamo -, ma si è preoccupata di rendercela “digeribile”, alternando scene cruente e immagini bellissime, poesia e ironia. Un’ironia acuta che – come evidenzia la stessa autrice negli appunti – spesso emerge dal contrasto tra situazioni di estrema miseria, su cui volutamente non indugia a lungo, e scene di sfarzo sfrenato, su cui, invece, volutamente si sofferma.

Irène Némirovsky ha scelto, dunque, di non soffermarsi sui propri sentimenti, ma sul sentire comune di un popolo umiliato, offeso e oppresso. Un sentire che, però, non appartiene solo ai francesi di allora, ma a qualunque popolo che, in ogni tempo e luogo, si trovi in balia di menti scellerate. Scrive l’autrice nei suoi appunti: «Il valore di questo libro deve essere dato dai movimenti di folla.» Ed è effettivamente così, soprattutto per “Tempesta in giugno” dove si racconta la fuga dei parigini dalla loro città: «Da quell’assembramento saliva un rumore sordo e indistinto, un insieme di respiri difficoltosi, di sospiri, di parole scambiate sottovoce come per paura di essere ascoltati da un nemico in agguato. […] Non era esattamente inquietudine ma una strana tristezza che non aveva più niente di umano, perché non portava con sé né coraggio né speranza: è così che gli animali aspettano la morte. Ed è così che il pesce preso nelle maglie della rete vede passare e ripassare l’ombra del pescatore.»; «[…] vedevano all’orizzonte, fin dove poteva arrivare lo sguardo, una massa confusa di gente che trascinava i piedi nella polvere. […] Erano i poveri, gli sfortunati, i perdenti, quelli che non sanno trarsi d’impiccio, quelli che vengono respinti dovunque, che restano sempre in fondo, nell’ultima fila. […]Non sapevano perché fuggivano: la Francia tutta era in fiamme, il pericolo ovunque. E certo non sapevano dove stessero andando.»

Senza ricorrere alla sua capacità di distacco, peraltro, non avrebbe potuto fare un’analisi così lucida della psiche umana, di quelle sue pieghe nascoste su cui è imbarazzante soffermarsi e che diventano più evidenti in circostanze eccezionali: «Gli eventi gravi, fasti o nefasti che siano, non cambiano la natura di un uomo ma permettono di definirla meglio, così come un colpo di vento, spazzando all’improvviso le foglie morte, rivela la forma di un albero; mettono in luce quello che era rimasto in ombra; danno allo spirito l’inclinazione che da lì in avanti lo caratterizzerà.» O ancora: «É risaputo che l’essere umano è complesso, molteplice, diviso, misterioso, ma ci vogliono le guerre o i grandi rivolgimenti per constatarlo. É lo spettacolo più appassionante e più terribile […]; il più terribile perché è il più vero: non ci si può illudere di conoscere il mare senza averlo visto nella tempesta come nella bonaccia. Solo chi ha osservato gli uomini e le donne in un periodo come questo può dire di conoscerli – e di conoscere se stesso.» Ma ciò non ci impedisce di sentenziare su persone e situazioni senza cognizione di causa, anzi.

primi piani in bianco e nero di 12 attori dello spettacolo La terza ondaCORSI E RICORSI STORICI – È facile, infatti, osservando i fatti dal di fuori, tacciare come assurde e inaccettabili certe debolezze e connivenze, ma non sempre, quando si è in balia degli eventi, si ha la lucidità necessaria per decifrare il quadro d’insieme.

Come lo spettacolo “La terza onda”, portato in scena da Abaco teatro, anche gli appunti di Irène Némirovsky ci mostrano quanto sia falsa e ottusa la convinzione che nelle nostre democrazie occidentali la dittatura possa considerarsi un male archiviato: «A scuola, l’allievo più debole preferisce l’oppressione di un solo individuo all’indipendenza; il tiranno lo tartassa ma impedisce agli altri di rubargli le biglie, di picchiarlo. Se sfugge al tiranno, si ritrova solo, piantato in asso in mezzo alla mischia.» È questa paura che, negli anni Venti, portò molti italiani a vedere con favore l’ascesa di Mussolini al potere, ma possiamo davvero credere che non ci spingerà più ad appoggiare nuove – magari occulte – dittature (o che non l’abbia già fatto)?

Che sia, però, questa la via per la salvezza è un’illusione: la tirannia annulla proprio quell’individualità che, accettandola, ci si illude di proteggere. E qui entra in ballo il tema del conflitto tra individualità e collettività che tanto stava a cuore a Irène Némirovsky: «”Ahimè, signora, è proprio questo – individuo o collettività – il problema principale del nostro tempo, perché la guerra, vede, è opera collettiva per eccellenza. Noi tedeschi crediamo nello spirito comunitario, così come si dice che le api hanno lo spirito dell’alveare. Gli dobbiamo tutto: nutrimento, splendore, profumi, amori… […]” […] E Lucile pensava: “Individuo o collettività? Dio mio, questa non è una cosa nuova, non hanno inventato niente. I nostri due milioni di morti, durante l’altra guerra, sono stati sacrificati anche loro allo “spirito dell’alveare”! Loro sono morti… e venticinque anni dopo…  Che inganno! Che illusione!»
Più esplicita ancora che in questo passaggio di “Dolce”, l’autrice lo è nei suoi appunti: «Vogliono farci credere che siamo in un’epoca comunitaria in cui l’individuo deve soccombere affinché viva la società, e non vogliamo vedere che quella che soccombe è la società affinché vivano i tiranni. Questa epoca che si crede “comunitaria” è più individualista di quella del Rinascimento o di quella dei grandi feudatari. É come se nel mondo ci fosse una quantità complessiva di libertà e di potere ripartita ora fra milioni di individui, ora fra un singolo e milioni di individui».

uccellino posato su un filo spinato con il tramonto sullo sfondoDi questa verità è ben consapevole Lucile Angellier (forse il più bel personaggio di “Dolce”, cui probabilmente Irène Némirovsky attribuisce anche proprie convinzioni personali): «Aspiro non tanto alla libertà esteriore, quella di viaggiare, di lasciare questa casa (benché sarebbe già una felicità inimmaginabile!), quanto a essere libera dentro, a scegliere la mia strada, seguirla senza dover seguire lo sciame. Odio questo spirito comunitario di cui ci riempiono le orecchie. Su una sola cosa tedeschi, francesi, gollisti la pensano tutti allo stesso modo: bisogna vivere, pensare, amare con gli altri, in funzione di uno Stato, di un paese, di un partito. Oh, mio Dio, non voglio! Sono una povera donna inutile; non so niente, ma voglio essere libera! Schiavi lo diventiamo, […] la guerra ci manda qua o là, ci priva del benessere, ci toglie il pane di bocca; mi lascino almeno il diritto di giudicare il mio destino, di farmene beffe, di sfidarlo, di sfuggirgli se posso. Uno schiavo? Meglio questo di un cane che si crede libero quando trotta dietro al padrone. Non sono neppure consapevoli della loro schiavitù.»

Probabilmente è da una ribellione simile alla sua, verso questa “cultura dello spirito comunitario”, che è nato il mondo di oggi, dominato da quello che gli studiosi chiamano “individualismo esasperato”. Ma, a ben guardare, cosa è cambiato? Non molto: «Il mondo è sempre più diviso fra chi possiede qualcosa e chi è nullatenente. I primi non vogliono mollare niente e i secondi vogliono prendere tutto», scriveva Irène Némirovsky negli anni Quaranta e potremmo scrivere noi negli anni Duemila. Così come potremmo scrivere anche noi che «di questi tempi un farabutto vale più di un galantuomo».

E quando, sempre nei suoi appunti, la scrittrice si impone di «Cercare di mettere insieme il maggior numero di cose, di argomenti… che possano interessare la gente nel 1952 o nel 2052» un sorriso mesto si fa spazio nel lettore: come ci ha sopravvalutati, noi posteri, credendoci capaci di  archiviare quegli episodi in un indegno ma superato passato!
Sono, infatti, ancora vergognosamente parte del nostro presente nazionalismi, guerre, persecuzioni razziali e conseguenti esodi. Ieri erano parigini (e non solo) a lasciare la loro città in fiamme, prima di loro tanti altri popoli (come ha modo di riflettere Michel Michaud, uno dei personaggi di “Tempesta in giugno”) e dopo di loro sono oggi africani, siriani, ucraini… E anche se questa è – come l’ha definita papa Francesco – una “Terza guerra mondiale a pezzi”, il dramma non è certo minore di quello di allora.

UN’UMANITÀ ASSUEFATTA – Purtroppo, annota Irène Némirovsky, «Ci si abitua a tutto, a tutto quello che succede nella zona occupata: i massacri, la persecuzione, il saccheggio organizzato sono come frecce che si conficcano nel fango! Nel fango dei cuori.»
E in “Tempesta in giugno” racconta: «La gente che scendeva dal treno domandava: “Ehi, è l’allarme?” “Ma no, è il cessato allarme” rispondeva qualcuno, e passati cinque minuti il fioco tintinnio si faceva sentire di nuovo.  Veniva da ridere. Là c’erano ancora negozi aperti, ragazzine che giocavano a campana sul marciapiede, cani che scorrazzavano nella polvere vicino all’antica cattedrale. Non ci si preoccupava neanche più degli aerei italiani e tedeschi che planavano placidi sopra la città. Alla fine, la gente ci si era abituata».
Forse è solo così che si può (soprav)vivere in luoghi come Gaza, dove le bombe sono parte integrante della quotidianità. Ma se l’assuefazione si fa spazio tra chi non è vittima bensì spettatore, allora il discorso cambia: non è più una questione di sopravvivenza ma di indifferenza.

logo di Medici senza frontiereEmblematico, in proposito, il 10° rapporto sulle crisi umanitarie dimenticate dai media, redatto da Medici Senza Frontiere (MSF) in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia. Il rapporto analizza la «copertura mediatica delle crisi umanitarie internazionali da parte dell’informazione italiana e in particolare nei principali telegiornali di prima serata» dal 2004 al primo semestre del 2014, facendo pure un confronto con principali Tg di altri paesi europei. Una delle conclusioni più imbarazzanti di questo studio – che vi invito a leggere per intero – è quella che evidenzia una «tendenza alla drammatizzazione, secondo una logica informativa catastrofista che dà ampio spazio agli eventi spettacolari nella loro tragicità e tralascia quelli “continui” ma dagli effetti altrettanto devastanti (fame, malattie, negazione di diritti)». Spiega MSF che con questo stratagemma i media cercano di risvegliare la nostra attenzione poiché, secondo quanto sostenuto da Vittorio Zucconi, «siamo in una fase di “overload”, una fase di sovraccarico di tragedie e di fallimenti a cui siamo abituati e che produce un senso di stanchezza».
Non facciamoci illusioni, comunque: neanche questa caratteristica è un’invenzione del nostro tempo e ancora una volta sono gli appunti di Irène Némirovsky ad aprirci gli occhi: «Quali sono le scene che meritano di passare alla posterità?» si domanda e la sua risposta è una lista in cui al punto 3 annota «Non tanto gli attentati e la fucilazione degli ostaggi quanto la profonda indifferenza della gente».

COMPRENSIONE E LIBERTÀ INTERIORE – “Suite francese” ci dimostra, ancora una volta, che la Storia è la danza circolare dell’Uomo intorno al proprio istinto di autodistruzione. Che fare allora? Adeguarsi al peggio o provare a spezzare questo cerchio maledetto?

Già mantenere uno spirito critico sarebbe un grande passo avanti e anche in questo i propositi di Irène Némirovsky sono di grande esempio: «Giuro qui di non riversare mai più il mio rancore, per quanto giustificato, su una collettività di uomini, quali che siano la razza, la religione, le convinzioni, i pregiudizi, gli errori. Compiango quei poveri ragazzi. Ma non posso perdonare gli individui, quelli che mi respingono, quelli che freddamente ci voltano le spalle, quelli che aspettano solo di giocarti un tiro mancino».

Tante volte il “nemico” è una vittima come noi, lo insegna De Andrè con “La guerra di Piero”, lo insegna Pavese con “La casa in collina” quando scrive che  «ogni guerra è una guerra civile, ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione…», lo insegna questa scrittrice straordinaria. Significativa, fra tante, questa scena: «Il tedesco domandò la strada. Il francese rispose, poi, fattosi coraggio: “É stato firmato l’armistizio?” Il tedesco allargò le braccia.  “Non lo sappiamo ancora. Speriamo” disse. E la risonanza umana di quella parola, quel gesto, tutto l’insieme provava in modo evidente che non ci si trovava di fronte a un mostro assetato di sangue ma a un soldato come gli altri, e il ghiaccio fra il paese e il nemico, fra il contadino e l’invasore si ruppe immediatamente.» O, ancora, lo sono questi pensieri attribuiti al personaggio di Lucile: «”Forse è stato suo padre a uccidere il mio”; lei sa bene che mio padre è morto nell’altra guerra… Ci penso, ma poi, in fondo, non me ne frega niente. Di qua ci siamo lui e io, di là quella gente. E quelli non si curano di noi; ci bombardano e ci fanno soffrire, e ci ammazzano come tanti conigli. Be, neanche noi ci curiamo di loro.»

Ma c’è un’altra più salda ancora di salvezza cui possiamo aggrapparci: «Quello che ci salva – scrive Irène Némirovsky nel suo diario – è il fatto che in genere il tempo che è riservato a noi è più lungo di quello riservato alla crisi». L’importante è riuscire a resistere fino a che non sarà passata.
Nel frattempo, possiamo seguire l’esempio di Michel Michaud (altro probabile alter ego dell’autrice) che quando sua moglie gli chiede “Ma allora, cos’è che ti conforta?”, risponde: «La certezza della mia libertà interiore, […] questo bene prezioso, inalterabile, e che dipende solo da me perdere o conservare. La convinzione che le passioni spinte al parossismo come capita ora finiscono poi per placarsi. Che tutto ciò che ha un inizio avrà una fine. In poche parole, che le catastrofi passano e che bisogna cercare di non andarsene prima di loro, ecco tutto. Perciò, prima di tutto vivere: Primum vivere. Giorno per giorno. Resistere, attendere, sperare

 

Foto Abaco teatro e Michele Porcu

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