Pedofilia o pedotropia?

Non solo una questione etimologica, ma anche e soprattutto un fenomeno sociale che si va sempre più estendendo con gravi ripercussioni sulla psiche del minore e sulla sua qualità di vita

L’argomento è certamente molto impegnativo. Ma è ricorrente e sempre più merita l’attenzione non solo per la profonda implicazione sociale che esso comporta ma anche per come viene spiegato a partire dall’etimologia che, a mio parere, non si tratta di mero “purismo” letterario ma semplicemente di rispetto del significato linguistico-letterario e concettuale. Il termine pedofilia (fenomeno sociale insidiante e insidioso) dal greco “filia” che significa amore, amicizia, è improprio e andrebbe sostituito da pedotropia (come suggerito da Paolo Berruti, neuropsichiatra e scrittore) che significa attrazione verso i bambini, ossia “volgersi verso”; peraltro già utilizzato in eliotropia ed eliotropo: il girasole è una pianta eliotropa perché si volge verso il sole.

La pedofilia/pedotropia è una malattia di pertinenza psichiatrica, inclusa dall’Oms nell’Elenco dei disturbi del comportamento sessuale. Il primo a legare questo termine alla patologia fu lo psichiatra svizzero Auguste Forel (1845-1931) nel 1905, e pur trattandosi di un comportamento noto fin dall’antichità è in questo momento storico che assume il significato di malattia.  Lo stesso Diagnostic Statistical Manual American Psychiatric Association, molto diffuso anche nel nostro Paese come strumento diagnostico per gli psichiatri, include la pedofilia tra le parafilie, intese come fantasie, impulsi, comportamenti di eccitamento legati a “oggetti” o situazioni particolari e anomali. Secondo altri autori la pedofilia, o parafilia, corrisponde ad una perversione. «Le parafilie – ha spiegato, qualche tempo fa in un convegno dedicato, Giovanni Cociglio, psichiatra e membro della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica – sono costituite da una alterazione della meta dell’oggetto sessuale… la pedofilia si esprime in varie forme legate all’attività sessuale con bambini prepuberi (minori di 13 anni), esercitate da parte di un adulto che riesce ad eccitarsi esclusivamente, o prevalentemente, soltanto con un bambino. La diagnosi di pedofilia si fa sulla base della presenza di fantasie, impulsi e comportamenti che comprendono l’attività sessuale con bambini prepuberi, e devono essere ricorrenti, intensamente eccitanti sessualmente e durare da almeno sei mesi».

Si tratta di un grande disturbo psichiatrico (secondo gli esperti le persone che ne soffrono sono rare) conseguente a traumi infantili precoci di eccessiva frustrazione o iperstimolazione che provocano un arresto dello sviluppo del vero sé, con conseguente mancanza di simbolizzazione degli impulsi creativi. Il concetto essenziale è che nella genesi della pedofilia ci sono due elementi sostanziali: la carenza di tenerezza nella prima infanzia da parte dei genitori e l’eccesso di stimolazioni erotiche, ossia genitori tendenti più alla sensorialità piuttosto che alla tenerezza e all’affettività. Secondo lo psicoterapeuta le persone che soffrono di questo disturbo sono rare, e soltanto oggi (?) si è raggiunta la consapevolezza di questa realtà, mentre nell’antichità o in società meno evolute i rapporti sessuali prepuberi erano più o meno tollerati… Sulla identificazione del pedotropo, secondo un altro psichiatra, è un drammatico e penoso “nulla” e nella cui mente c’è molto poco. Non c’è una costruzione diabolica o una strategia di pensiero; è un individuo da cui parte un sentimento di assoluta mancanza di stima di sé, che viene nascosta. Se considerato dal punto di vista psichiatrico è un soggetto gravemente malato, e rientra in un capitolo importante in cui si evidenziano anomalie quantitative e qualitative, con una personalità molto fragile e, purtroppo, non ha nulla che lo si possa riconoscere dall’esterno…

Ma chi sono le vittime del pedofilo? «Sono, in ordine di frequenza – spiega Cociglio – i figli (un fenomeno essenzialmente incestuoso), figliastri, parenti di vario ordine e grado, e persone esterne all’ambiente famigliare». Si ritiene che oltre il 90 per cento degli abusi sessuali compiuti su bambini avvengono in famiglia, i cui membri (adulti) abusano non con violenza… Ma il loro “ruolo” famigliare permette di far fare al bambino quello che loro vogliono in modo “subdolo”, seduttivo, etc. L’abuso, secondo gli esperti, avviene prevalentemente da parte del padre, anche se su bambini molto piccoli; poi, da parte di fratelli maggiori, delle madri, dei nonni, etc. «L’abuso da parte del genitore – ha spiegato in occasione di un convegno sul tema Tilde Giani Gallino, ordinario di Psicologia dello Sviluppo all’università di Torino – riteniamo possa costituire l’evento più drammatico per il bambino… È comunque difficile stabilire le dinamiche e le conflittualità psicopatologiche che ne derivano, anche perché non si tratta soltanto della gravità dell’atto in sé, ma delle condizioni in cui tale atto avviene: circostanze, modalità, intrighi, situazioni particolarmente “favorenti”, etc. Il bambino, all’inizio può “accettare” le proposte sotto forma di giochi proposti dal padre, perché a lui sembrano esser atti naturali…; ma quando intuisce che in questi “giochi” c’è qualcosa che non va, si viene a trovare in qualche modo in difficoltà, sino ad opporsi con un rifiuto al padre. Al tempo stesso, essendo stato coinvolto proprio dal genitore, non sa fino a che punto è colpa sua o del padre: il discorso di colpa per i bambini è molto importante perché sono disponibili a prendersi le colpe degli altri».

Ma qualunque sia la definizione di pedofilia o di pedotropia, che cosa succede quando si è vittime di uno di questi episodi? Secondo gli esperti (psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, sociologi) la prima cosa che si manifesta è uno shock emozionale che comporta una caduta di credibilità verso gli adulti, un senso di dipendenza dall’adulto (una sorta di “schiavitù sessuale”) che deve restare nel segreto… Il violentatore, o comunque il protagonista adulto di queste vicende attiva un gioco segreto di complicità da cui il bambino non riesce ad uscire e proprio perché c’è questo marchio della segretezza, non riesce a parlarne, tanto da attivare diverse forme di comunicazione non verbale; quelle che dovrebbero essere poi codificate dalla scuola o da chiunque altro le riceva: i compagni di gioco, gli amici, i nonni, i vicini di casa. Si tratta di una disponibile capacità di ascolto, che purtroppo oggi è ancora molto scarsa. Un osservatore attento può quasi immediatamente percepire un cambiamento nelle modalità comportamentali del bambino che ha subìto una aggressione (anche di “modesta” entità), come nel caso di un bambino vittima di un qualunque trauma: essere picchiato violentemente dai genitori, o la separazione degli stessi, ad esempio, sono esperienze negative che possono influire sulle sue abitudini comportamentali; il bambino in questi casi diventa più scontroso, più taciturno, più introverso e questo avviene piuttosto frequentemente. Tale atteggiamento ha due tendenze opposte, e questo perché l’episodio dell’aggressione è vissuto in modo ambivalente in quanto il bambino lo può recepire come una manifestazione affettuosa, ma che al tempo stesso lo percepisce come un qualcosa di ambiguo, quale in effetti non è. Quindi, da una parte il bambino tende a rivivere una situazione emozionale di cui è stato vittima, dall’altra può evitare i luoghi in cui è avvenuta la violenza (ad esempio i bagni della scuola).

Alla luce di queste valutazioni quali possono essere le conseguenze? «Il bambino – spiegano i clinici – può sviluppare una forma depressiva. Ci sono delle depressioni senza causa che possono però colpire anche i bambini e guariscono bene con i farmaci. Questa sarebbe una depressione con una causa ben specifica che richiede non solo la somministrazione di farmaci e la psicoterapia, ma anche la collaborazione famigliare (quando non sono gli stessi membri responsabili del trauma, ovviamente). La reazione al trauma varia da un soggetto all’altro, e ciò dipende dall’entità del trauma stesso ma anche dalla precedente struttura di personalità del minore. Se il bambino era molto solido l’impatto del trauma è, per così dire, di lieve entità, ma resta pur sempre un trauma… È comunque da rilevare il fatto che il bambino è stato protagonista involontario e quindi passivo, di qualche cosa che non può capire; e questo è il vero senso della violenza: imporre una qualunque cosa che il bambino non può decodificare». Sarebbe utile approfondire l’argomento per conoscere ogni possibile forma di prevenzione di questo fenomeno, sulla quale si possono fare molte ipotesi (anche se nutrita è la letteratura a riguardo); ma per etica e per la mia non competenza mi rimetto ai suggerimenti di esperti qualificati, lettori e non di questo testo.

 

Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

 

 

 

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