Medico e paziente. Due “protagonisti” indivisibili

In tempi di “ristrettezze” in ambito sanitario il richiamo al rapporto medico-paziente è sempre ben speso, poiché l’uno e l’altro necessitano di una sempre maggior complicità per un conforto reciproco. La mia esperienza in tale ambito mi suggerisce alcune considerazioni e/o riflessioni.

 

di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

Già Platone (428-349) osservava che il medico, preoccupato sia del corpo che dell’anima, è co-autore della vita umana; convive umanamente con il malato, e la corretta cooperazione tecnica tra la propria libertà e quella del malato è giustamente ciò che permette l’azione terapeutica. In effetti il miglior e più razionale atteggiamento etico per la cura del paziente è averne cura. La storia ci rammenta che in non pochi medici, quelli che hanno operato in epoche storiche e anche recenti, vi era qualcosa di sacro, frutto della consapevolezza dei propri limiti e dell’esercizio dell’amore, della coscienza di una presenza immancabile quale è il sofferente. Il loro dovere naturale “imponeva” (ed impone) di considerare l’uomo ammalato non solo come un problema diagnostico e terapeutico, ma come essere nobilitato e reso sacro dalla sofferenza…

È noto a tutti il concetto che una buona diagnosi e delle corrette prescrizioni terapeutiche rappresentano la condizione necessaria (ma non sufficiente) per una cura efficace nel corpo e nello spirito. Queste esigono che il rapporto medico-paziente (primo intervento terapeutico) sia soddisfacente, e ciò implica un coscienzioso impegno per evitare la “spersonalizzazione” del vissuto del malato. Ancora più importante diventa la relazione tra medico e paziente soprattutto quando quest’ultimo è affetto da grave patologia; ecco che quando si tratta di dire la “verità” io credo che ogni medico debba eticamente e, per quanto possibile, serenamente trovare il modo e il momento più adatti di rafforzare la propria capacità di valutazione partendo dalla considerazione che il dialogo tra loro rappresenta un “solidale” avvicinamento, e quindi un incontro culturale e spirituale tra due persone. Instaurandosi così una relazione empatica tra questi due “protagonisti” della sofferenza, la stessa tende ad assumere la forma di un impegno reciproco (alleanza terapeutica), basandosi sull’ascolto del medico verso il paziente attraverso il quale prima viene la persona e poi la malattia. Un modo “moderno” di fare medicina avendo una visione olistica del paziente che forse non tutti sanno avere o condividere (al di là di qualunque scuola di pensiero), poiché il medico paternalista è per certi versi superato e più “distante” dalle reali necessità del suo assistito.

Il processo terapeutico è di natura soprattutto “interpersonale”, legato alla relazione medico-paziente: è un rapporto fortemente “umano” tra due persone che provano i medesimi sentimenti, che soffrono le paure e le ansie che si affacciano alla vita. Molteplici sono gli ambiti in cui il medico è chiamato ad intervenire: stanza di degenza in ospedale, ambulatorio, studio privato, consultorio, a domicilio del paziente; ambiti non solo di lavoro ma luoghi di relazione con altre persone dove quest’ultimo porta le sue angosce e le sue ansie, che il medico dovrebbe saper cogliere ascoltando, magari annuendo ad ogni sua affermazione ma ben lontano dal sottovalutare… Il medico dovrebbe sapere ciò che il paziente ha in sé oltre alla sua malattia: egli risponderà meglio alla terapia se reso partecipe alla cura. È stato infatti dimostrato che se il paziente (a parte alcune eccezioni) viene adeguatamente informato e coinvolto nei processi decisionali ha una migliore aderenza alle prescrizioni del medico, ed effettua un cambiamento nel proprio stile di vita a vantaggio della salute. Nell’ambito della salute mentale, ad esempio, la relazione terapeutica è un predittore indipendente nell’esito dei trattamenti: una buona relazione predice un buon esito a breve e a lungo termine, e che uno “stile” di comunicazione improntato alla collaborazione sin dal primo incontro, può influenzare favorevolmente il livello di informazione dei pazienti per il prosieguo dei trattamenti. «La medicina umanistica – sottolinea Mirko Labella, psicologo, psicoterapeuta e membro della Sipnei – non è “buonismo” ma una vera e propria eccellenza terapeutica e, una buona relazione, previene lo spettro della medicina difensivistica che allontana sempre di più il medico dal paziente».

Nella Medicina Generale (il riferimento è al medico di famiglia) che si definisce centrata sulla persona, sulla famiglia e sulla comunità di appartenenza, implica il rispetto della cultura familiare, delle credenze e soprattutto delle scelte, che solo al paziente appartengono. Attraverso un approccio relazionale orientato nel senso dell’empowerment (inteso come potenziamento globale fisico e psichico e con esso il rispetto della sua dignità), sarà il medico che permetterà l’aprirsi di almeno una nuova possibilità di cura, di speranza, di aspettative, etc., ampliando la comprensione di sé del paziente e favorendo un maggior controllo-potere sul percorso e sull’esperienza personale della malattia. È pur vero che l’apporto empatico non è necessariamente innato, ma è altrettanto vero che è un atteggiamento  che si può assumere riflettendo sulle proprie esperienze e capire quando le persone ci trattano con distacco e non ci coinvolgono nelle scelte. Questo autoesame è sicuramente un buon ausilio per aver più empatia nella relazione con il paziente. Ma non solo. Nella comunicazione sanitaria anche un sorriso aiuta… giacchè è espressione e quindi un modo per comunicare. Un’efficace comunicazione tra cittadino e Strutture sanitarie consente di raggiungere in maniera più appropriata l’ottenimento di adeguate prestazioni e, possibilmente, in tempi ragionevoli poiché l’eccessivo protrarsi delle attese potrebbe influire negativamente sulla decorso della sintomatologia e sulla risposta terapeutica.

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