Le donne di Ravensbrück

ebree in marcia a Ravensbruk

Riceviamo e pubblichiamo:

ebree in marcia a RavensbrukAncora un appuntamento nel tempo che attraversiamo, per non dimenticare gli orrori che la storia ci ha consegnato, non perché basti una commemorazione a cancellare le tracce delle infamie perpetrate dalla malvagità dell’uomo, ma nella speranza che gli errori del passato siano un monito e un insegnamento alle generazioni future.

Il 27 gennaio – data prescelta dalla risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite perché in quel giorno del 1945 fu liberato il campo di concentramento di Auschwitz – si celebra la giornata mondiale in memoria delle vittime dell’Olocausto, una delle carneficine più brutali del XX secolo, perpetrata ai danni del popolo ebraico dalla Germania di Hitler e dai suoi alleati, che contò circa 15 milioni di vittime. La persecuzione fu poi estesa ad altri gruppi etnici e religiosi considerati “indesiderabili” e a categorie di persone invise alla politica di elevazione del Terzo Reich della razza ariana, quali Rom, omosessuali, lesbiche, Testimoni di Geova, sacerdoti cattolici, dissidenti politici, disabili, malati di mente, per cui ad oggi si stima che le morti possano essere non ancora esattamente quantificabili e di sicuro superiore ai 17 milioni di cui 5/6 milioni solo ebrei il cui genocidio viene indicato correttamente con il termine Shoah.

Il solo ricordo di questo sterminio insensato di massa, orchestrato da una mente folle, genera ancora orrore per le modalità e di contro, la perfetta macchina organizzativa con la quale è stato messo in atto ha reso discutibile l’estraneità di un intero popolo tedesco, avallandone le antiche radici antisemitiche. Chiaro che vi siano tesi contrastanti a riguardo; lo stesso Primo Levi, scrittore italiano ebreo, deportato nel campo di Auschwitz, sostiene che seppur vero che la popolazione aveva sentore che qualcosa di grave stesse accadendo, ignorasse l’esistenza dello sterminio nudo e crudo, o forse preferì non sapere e non vedere per tutelare la propria incolumità. D’altronde è ciò che naturalmente accade a livello inconscio, al cospetto di episodi criminosi – che siano di massa o a persona – sotto l’impulso dell’istinto di conservazione che spinge alla tutela dell’individuo e non della collettività.

Ne abbiamo un esempio più recente anche in ciò che accadde in Argentina dal 1976 al ‘79 durante il “Golpe militare” in cui scomparvero 30.000 persone di cui non si seppe più nulla: i desaparecidos. Per attuare il “Processo di riorganizzazione nazionale” le forze armate del regime si macchiarono di torture atroci e delitti. La gente veniva prelevata dalle proprie abitazioni, dai posti di lavoro, per strada e poi non se ne avevano più notizie. Ognuno ne era testimone, ognuno vedeva arrestare amici, parenti, vicini di casa, ma stentava a comprendere i fatti rifiutando una verità atroce. Si chiama forse sopravvivenza oppure è il limite imposto dalla mente umana per evitare lo stupro dell’anima.

Ma tornando alla storia dell’Olocausto un pensiero particolare vorrei dedicarlo alle donne di Ravensbrück di cui poco si è parlato, l’unico campo di sterminio, 90 km a nord di Berlino, progettato personalmente da Hitler con l’obiettivo di sterminare esclusivamente donne. Uno dei campi in cui vennero compiute le peggiori atrocità tra il 1939 e il 1945 sulle oltre 120.000 donne imprigionate, provenienti dalle nazioni più disparate. Infatti delle 50.000 che vi morirono solo il 10% erano ebree, a testimonianza dell’atipicità del Lager.

A Ravensbrück infatti si mise in atto una guerra di parte esclusivamente contro le donne “non conformi”, come riportano i documenti ritrovati; per “non conformi” si intendeva: prigioniere politiche, lesbiche, disabili, prostitute, rom. Le violenze messe in atto furono inaudite e disumane, si tratta soprattutto di stupri, sterilizzazioni, aborti forzati e sperimentazioni genetiche. A Ravensbrück i crimini commessi non furono solo crimini contro l’umanità, ma crimini contro le donne, sebbene questo campo degli orrori rimase nell’anonimato per molto tempo.

Nell’autunno del 1944, dopo che Himmler ordinò la sospensione delle camere a gas, Ravensbrück ricevette un ordine diverso; venne costruita una camera a gas provvisoria, vicino al forno crematorio e 6 mila donne vennero asfissiate. Fu l’ultimo sterminio di massa del regime nazista. A riportare alla luce tali brutalità fu la giornalista Sarah Helm, autrice del libro, dal titolo evocativo dell’opera di Primo Levi, “Ravensbrück: If this is a woman “Se questa è una donna”, appunto. La scrittrice sulla base di testimonianze delle pochissime sopravvissute ha dedotto che la poca conoscenza del Lager è derivata sia dalla riluttanza delle stesse a voler rievocare o narrare le atrocità subite (pudore, vergogna e anche sensi di colpa “giustificabili a livello inconscio laddove la mente non riesce a darsi risposte plausibili”) e sia perché gli storici furono quasi tutti uomini e poco si interessarono di cosa fosse accaduto in un campo prettamente femminile.

Orrore che va ad aggiungersi ad altro orrore. L’esperienza umana millenaria insegna che il male genera solo altro male ed è nostro dovere morale ricordare, affinché conoscendone le sembianze si possa evitare. Un insegnamento alle generazioni future perché abbiano chiara la differenza tra il bene e il male per definire chiare linee di demarcazione che diano direttive all’azione dell’uomo. Il giusto e l’ingiusto sono concetti che regolamentano l’esistenza umana; due processi attraverso i quali l’uomo deve passare per metabolizzare e fare le sue scelte. Il male è un istinto primordiale che spinge a desideri di odio, vendetta e sentimenti negativi verso il prossimo che alla fine si ritorcono soprattutto su chi li attua.

Il bene invece è la capacità di riuscire a governare questo istinto malevolo innalzando l’uomo a un livello superiore che giova alla sua spiritualità. Due principi che non dovrebbero generare confusione affinché il cammino umano sia chiaramente definito per evitare conflitti interiori nelle azioni delle future generazioni. Avremmo preferito non avere un 27 gennaio da commemorare, ma che almeno si trasformi in momenti meditativi di conoscenza e di crescita umana, per non dimenticare, per insegnare. Per scegliere di stare dalla parte del bene. “E’ giunta l’ora di andare. Ciascuno di noi va per la propria strada: io a morire voi a vivere. Che cosa sia meglio Iddio solo lo sa.” * Platone. Apologia di Socrate.

Maria Teresa Infante

 

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