In visita in una Residenza assistenziale sanitaria di alta intensitá

un'infermiera accompagna un'anziana signora

Una struttura temporanea di lungodegenza per anziani con gravi patologie e per la maggior parte non autosufficienti. Una delle tante realtà che fanno parte del nostro vivere sociale, non sempre affrontate con il dovuto senso civico e morale. Per queste ragioni le Strutture socio-assistenziali cercano di “sopperire”, per quanto possibile a tale carenza.

di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

logo della Asl Torino 1La mia consuetudine con l’ambiente sanitario si protrae ormai da circa sei lustri, e ancora oggi non mancano ulteriori “opportunità” per seguire l’evoluzione della Medicina, e per estensione della Sanità nelle svariate forme di assistenza che vengono erogate dal Servizio sanitario regionale e/o nazionale. L’ultima tappa mi ha visto nei giorni scorsi ospite della Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA) dell’Asl TO/1 di via Spalato 14, al seguito del direttore sanitario medico internista Roberto Rey, presente tutte le mattine della settimana. È una struttura moderna di tre piani, spaziosa, luminosa e confortevole. «Attualmente ospita 78 pazienti (uomini e donne) tra i 60 e i 90 anni di età – spiega il dottor Rey – e sono affetti per lo più da demenza senile, neuropatie, vasculopatie, cardiopatie, ipoacusia, morbo di Parkinson, postumi di fratture agli arti, ipertensione, malattie polmonari. Alcuni non hanno più famiglia, altri hanno familiari che li vengono a trovare periodicamente intrattenendosi con loro quanto desiderano. Quelli con più autonomia cognitiva e fisica manifestano il bisogno di dialogare, o avere più attenzione per le piccole cose. I pazienti interdetti, e quindi con un tutore legale di riferimento, sono particolarmente fragili e con una invalidità totale. Vi sono alcuni casi che non dovrebbero stare in questa struttura in quanto potenzialmente in grado di vivere al proprio domicilio, ma per carenza di assistenza familiare la nostra struttura è “costretta” a farsene carico».

un'infermiera accompagna un'anziana signoraÈ questo il primo dilemma umano (e pratico) che si rileva venendo a contatto con questi “particolari” pazienti, nei quali si legge la debolezza non solo fisica ma soprattutto quel senso di abbandono e solitudine, che gli operatori di questa Rsa cercano di sopperire con amorevoli cure e non solo per mero assistenzialismo. La salute fisica ma soprattutto psichica di questi ospiti, quasi inconsapevoli (ma non tutti) di percorrere la parte ultima del loro cammino, credo abbia a che fare con una sorta di alienazione da parte della società nel suo insieme, per lo più indifferente se non insensibile. Da sempre si è portati a citare l’adagio “Mens sana in corpore sano”, una verità che in parte andrebbe rivista tramutando l’adagio in “Mens sana in societate sana”, perché a prescindere da qualche eccezione, come precisa Erich Froom (Francoforte 1900-1980), «una mente sana può albergare solo in una società sana, e ne consegue che il problema della salute psichica dell’individuo non può essere scisso da quello della salute della società». Evidentemente il riferimento vuole richiamare l’attenzione su quella che si può definire “la patologia della normalità”, concetto più che mai attuale rappresentato sia dall’evoluzione dell’età senile che dalle molteplici malattie cui va incontro l’individuo, al centro di una collettività non sempre in grado di rispondere in modo adeguato (e tempestivo) ai suoi bisogni.

Avvicinandomi ad ogni singolo ospite, accompagnato dal dottor Rey, mi sono reso conto che il concetto di normalità tende sempre più ad impoverirsi, a fronte di quella ricchezza che dovrebbe essere il nostro sapere, saper essere e saper fare… Ma quali i nostri limiti? Il mio disquisire non vuole essere (od apparire) come atto accusatorio tout court, ma più concretamente la rilevazione di un fenomeno che definirei “malessere sociale” la cui sintomatologia è spesso sottovalutata. Del resto, basterebbe che ciascuno di noi si immedesimasse in questi casi, e proiettasse il proprio futuro verso una concezione di vita degna di essere vissuta fino in fondo con la vicinanza dei nostri cari, e quand’anche questi venissero a mancare prima di noi, con la sicurezza di una adeguata tutela e il conforto affettivo di chi è preposto a manifestarcelo. Ben vengano dunque per molti di questi casi strutture come le Rsa, purché dirette con la massima competenza e soprattutto con la consapevolezza che il bisogno reale per l’assistito va ben oltre la cura medica e il mero sostentamento. E questo, la politica dovrebbe concepirlo come atto etico prioritario.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *