Raccontonweb: “Calciatori” di Adele Costanzo

Calciatori

Quasi tutti i bambini sognano di diventare calciatori. In questi sogni si vedono come sono, ma con la maglia della squadra del cuore in uno stadio pieno di gente. Si vedono campioni, coi toraci gonfi di muscoli e di gioia, che guardano la vita da dentro un album, padroni del mondo. E’ quel genere di sogni, sia pure ad occhi aperti, che fa sentire leggeri, è un  incantesimo da cui non ci si risveglierebbe.

Valeria, dieci anni, si vedeva con  la maglia della squadra del paese e il petto le si allargava quando  respirava forte al risveglio improvviso da quell’incubo, da quel sortilegio.

Cominciava così, che si vestiva come per andare in guerra.
Le gambe magre sotto i parastinchi, la divisa con il numero quattro sulla schiena e lei che usciva di casa con il nonno.
Lei non sapeva perché l’aveva portata nella stanza dove, sul letto, c’era la divisa da calciatore; perché non aveva avuto bisogno di chiederle di indossarla, come se fosse normale, un atto dovuto, una scelta, un’ambizione, un desiderio, una prova, un piacere da fare a qualcuno, un semplice gioco. Perché, mentre andavano, non si curava di guardarla come se imbarazzo, paura, voglia di scappare non lo riguardassero. Come se la divisa fosse l’abito della festa. Come se le stesse bene addosso. Come se fosse una domenica qualunque di un campionato qualunque. Senza dire una parola e senza entusiasmo e senza gioia né attesa. E perché suo nonno, che era così buono con lei, la portasse allo stadio senza che glielo avesse chiesto ma anche senza che facesse resistenza, come in un copione già scritto in cui il rifiuto non era compreso nella trama.

Poi arrivavano al campo sportivo e c’erano tutti. Pubblico, compagni, avversari. Il nonno spariva e Valeria non vedeva che calciatori tutti uguali, come se appartenessero a un’unica squadra malgrado le divise diverse. Non riconosceva compagni tra loro, tra quegli uomini dai calzettoni che quasi scoppiavano per la pressione dei polpacci e che la guardavano come un’intrusa, senza solidarietà. Era una partita che si giocava da sola in un torneo al quale non si era iscritta ma a cui qualcuno aveva deciso che partecipasse. O forse non c’era stata nessuna decisione da prendere perché il torneo apparteneva semplicemente alle sue domeniche. Provava un disagio, uno star fuori posto. E il disagio diventava imbarazzo, l’imbarazzo paura, la paura terrore ed il terrore insopportabile al punto da provocare il risveglio. E la partita finiva, o meglio, continuava senza di lei, da qualche parte, in quello stadio, nei sogni di suo nonno o negli incubi di un altro. Ma per lei la partita finiva
prima ancora che cominciasse. Prima che le sue gambe sottili provassero solo ad accennare un contrasto. Prima che il fiato le mancasse. Prima che sbagliasse un passaggio o sbucciasse la palla. Prima di cadere. Prima di riconoscere, tra gli altri, lo sguardo del nonno ai bordi del campo o sugli spalti. Prima che qualcuno si decidesse non dico a rimandarla a casa, ma almeno a richiamarla in
panchina.

Invece Federico aveva vent’anni, era alto e robusto ed abitava in campagna. Aveva frequentato con scarso successo ogni tipo di scuola, asilo e scuola calcio compresi, e usciva di casa raramente. Non aveva progetti particolari per il futuro, ma sicuramente in passato non gli era dispiaciuto pensare di poter diventare calciatore, perché amava tantissimo il pallone e gli piaceva giocare. Tifava per il Milan e sapeva tutto sulla sua squadra. La domenica la dedicava allo sport nazionale ascoltando le partite alla radio e dando soddisfazione al suo cane. Infatti, quando non pioveva e si  poteva stare in giardino, Rex, il vecchio pastore, gli si metteva davanti e lo fissava ansimando.
Allora lui prendeva il supertele bucato e giocavano.
Non è facile avere ragione di un cane: anche quando è vecchio ha i riflessi prontissimi e devi essere veloce e abile a dribblare, perché lui zac, afferra la palla con i denti e si mette a scodinzolare perché è contento  di aver vinto. E’ un buon avversario, ha resistenza e non si annoia mai per primo. Poi concede sempre la rivincita, perché ti posa il pallone davanti ai piedi e si ricomincia. E’ un buon avversario soprattutto perché non guarda mai il giocatore, a lui non importa contro chi sta giocando.
Guarda solo la palla.
Così raccontava al suo professore di educazione fisica mentre i compagni, a fine lezione, si rilassavano con la solita partitella a pallavolo e lui, poiché erano dispari, rimaneva, come dire, in panchina.

 

Adele Costanzo

Di quest’autrice abbiamo già pubblicato i racconti Lei e lui , I viaggi, i paesi, le parabole e i cinghiali e I fiori di carta

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