L’angolo di Full: “Sandokan”

Sandokan con una sciabola in mano

Il brano che segue è tratto dalla raccolta privata del maestro Full, particolare che lo rende ancora più bello e toccante. Buona lettura, ma soprattutto buona riflessione.

Sandokan con una sciabola in manoSandokan

«Quelli menano sempre per primi. Invece di guardarli in faccia, tieni d’occhio le mani e i piedi. Se il fetente parte con un calcio, gli afferri il piede e glielo pieghi in fuori: vedrai che capriola! Se parte con un pugno, schivi, finti il sinistro e gli spari il destro in faccia: di solito si calma».
Me l’aveva spiegato Polpetta che, nella dimostrazione, mi spaccò un labbro, giusto per ficcarmi la lezione in testa.
Quando capitò a me, il fetentone di turno finse di guardare di lato e sparò il cazzotto. Schivai e lo beccai all’occhio dopo aver fintato col sinistro.
Subito venne informato Gabriele, un pulè (*) biondo e dall’aria strana. Alcuni ragazzi difesero il fetentone dicendo che io avevo menato per primo e, in effetti, quello non era riuscito nemmeno a toccarmi.

All’epoca avevo tredici anni ed ero in un carcere minorile. Proprio così, sono stato in galera. Con gli anni, insieme alle cose da perdere, si esauriscono anche quelle da nascondere. Del resto, avevo sposato la vita nella buona e nella cattiva sorte, ma non sapevo nulla di quella sposa che mi cornificò da subito.
Sia che voglia ridere o incazzarmi, non ho che da pensare alle ragioni che mi spedirono in riformatorio. Mi avevano trasferito da un collegio che mi ospitava in forma provvisoria, a un istituto che accettava gli orfani senza grana. Purtroppo, dalla fine della guerra, quelle strutture traboccavano e la disponibilità del posto slittò di qualche mese, così fui ficcato nell’unico buco fruibile che, di fatto, era un riformatorio (**). Per gli ospiti occasionali, non c’erano spazi appositi per cui finii coi reclusi, a dividere lo stesso trattamento, ma la cosa non mi disturbò affatto. Del resto, negli anni cinquanta contava l’essenziale, cioè mangiare e avere un tetto sulla testa. Anzi, ebbi subito molti amici, forse perché li facevo ridere col mio italiano da signorino, oppure perché li aiutavo a scuola. In cambio m’insegnavano le canzoni sconce, le scazzottate, il passo dello sciancato e lo sguardo con occhi indipendenti, buoni per elemosinare. Mescevamo le nostre diversità ridendo e stupendoci a vicenda.
Ancora non so pensare, senza commuovermi, ad alcuni di quei ragazzi, dolci e disponibili, deboli e soli: in pratica, destinati all’estinzione sociale. Soprattutto, lo scoprire delle persone più perdute o più disperate di me, mi riconciliava con quella sposa un po’ puttana di cui parlavo e, in seguito, vivemmo felici e contenti, io e la vita. O quantomeno, senza tirarci i piatti.

«Per questa bravata ti beccherai la cella», m’avvertì il pulè Gabriele dopo aver verificato l’occhio nero del fetentone. Cingendomi le spalle con un braccio, mi accompagnò dal Superiore che considerò un’aggravante il fatto che la violenza venisse da un ospite estraneo.
«Ceni con una mela cotta e ti fai la notte in cella, tutto qui»,
mi confortò il pulè Gabriele.
La cella era molto piccola e aveva una finestrella buia che dava in qualche cavedio. Disponeva di un lettino, del lavabo e di un servizio alla turca otturato e sostituito da un bugliolo del quale capii l’utilizzo dalla puzza di ammoniaca. La luce veniva dalla lampada del corridoio attraverso lo spioncino della porta. La sera, dopo la mela cotta, mi addormentai. Mi svegliai al buio perché avevano chiuso lo spioncino e restava giusto un filo di luce sotto la porta. Per un po’ mi aggrappai a quel filo, poi mi prese l’ansia e cominciai a urlare: Luce! Luce! Come risposta, qualcuno spense la lampada in corridoio e restai nel buio completo.
Non avevo mai temuto il buio, ma quell’oscurità totale in un ambiente angusto ed estraneo mi metteva paura e mi toglieva il fiato. Né sapevo cosa fosse una crisi di claustrofobia.
Mi salvò Salgari. Quando capii che stavo per collassare, chiusi gli occhi e passai il resto della notte con l’amico Sandokan e i pirati della Malesia. Fra agguati, duelli e sparatorie, ne facemmo fuori parecchi.

primo piano di Fulvio Musso«Vuoi scherzare?», stupì Polpetta, «la luce del corridoio va lasciata accesa tutta la notte e lo spioncino deve restare aperto. È la regola: metti che devi pisciare, come fai a centrare il bugliolo?»
Allora ricordai lo stupore e il disappunto del pulè Gabriele nel trovarmi in perfetta forma quando, la mattina dopo, venne ad aprire la cella per accompagnarmi in classe.
Anche lui era di quelli che menano sempre per primi. Quelli che fanno il male per il male.
Apposta era arrivato Sandokan.

Fulvio Musso


(*) Pulè = nel gergo malavitoso milanese: guardia/poliziotto/sorvegliante.

(**) Il vecchio carcere minorile Marchiondi di Milano, in seguito trasferito a Baggio e infine chiuso.

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