L’angolo di Full: “La chiave”

una chiave

una chiaveLa chiave

«Deve sapere che quando ero giovane e sano di mente, volevo fare l’investigatore privato, poi mi hanno spiegato che, prima, dovevo sfangarmi vent’anni di servizio nell’Arma perché gli investigatori sono tutti carabinieri o poliziotti in pensione, una specie di lobby con la riga rossa sui pantaloni. Siccome, sui pantaloni, portavo solo qualche toppa, sono rimasto a fare l’operaio alla pressa. Eppure ho risolto un caso misterioso che ne parlano tutti i giornali e le televisioni. Volevo anche spiegarlo ai cosiddetti inquirenti, ma in questura mi hanno dimenticato in una stanza per due ore e alla fine me ne sono andato affanculo convinto che il mio destino è la pressa»

Un raggio di sole sulla scrivania, improvviso e inatteso, distolse Pautasso. Il nostro colloquio terapeutico si svolgeva solitamente nei giardinetti dell’ospedale anziché nel gabinetto medico, ma quel giorno minacciava pioggia. Il paziente era ricoverato da due settimane, non presentava patologie gravi e presto l’avremmo dimesso. Nei colloqui alternava momenti di loquacità a improvvisi silenzi e sapevo che non dovevo fargli fretta. Riprese quasi subito:
«Devo dirle, dottoressa, che leggo sempre Crimen, così so tutto sugli appartamenti svaligiati di notte con gli inquilini narcotizzati. La cosa ha dell’incredibile perché, quando i derubati si svegliano, trovano l’appartamento ripulito, ma con porte e finestre intatte e chiuse dall’interno. Infatti la chiamano la banda fantasma… però i soldi e i gioielli spariscono per davvero».

Eravamo tutti allarmati per quei crimini che duravano da un anno, ormai. Non c’erano porte blindate o finestre antisfondamento che potessero fermare la banda fantasma che sembrava attraversarle senza sfiorarle. Un enigma inspiegabile: «Il mistero della stanza chiusa è anche un classico del romanzo giallo», osservai, «ma quello viene svelato mentre il mistero della banda fantasma rimane».
«Ce l’ho già detto che la soluzione l’ho trovata, dottoressa. Io ci sono addirittura passato attraverso una di quelle porte blindate».
Questo era un elemento nuovo e il mio interesse per le storie di Pautasso superava ormai quello professionale. Ad ogni colloquio mi stupiva con aneddoti nuovi e inattesi come i colori di quell’autunno oltre la finestra.
«Deve sapere, dottoressa, che ho sempre giocato a biliardo. C’ho anche del talento e quando trovo il pollo tiro su qualche euro. C’era uno, il Gerla, sempre pieno di soldi, che s’era fissato di battermi. Una sera l’ho lasciato vincere per pura strategia e lui, tutto gasato, ha preso a raccontarmi dei suoi guadagni. Così ho cominciato a perdere qualche partita perché la cosa m’interessava. Insomma, lui faceva il corriere dei soldi in un giro di grossi negozianti. Si presentava a casa loro a prelevare la valigetta di banconote alle sei del mattino perché doveva passare il confine svizzero prima delle otto mescolato ai frontalieri per evitare i controlli. Beh, è facile capire che una valigetta sigillata che esce di casa alle sei del mattino ha dormito sicuramente insieme al suo padrone e io conoscevo il segreto per andarmela a prendere. Mi bastava avere la data e l’indirizzo. Così, una sera ho inciucchito il Gerla di vittorie, sconfitte e di bourbon americano e ho saputo quello che volevo. Il giorno prima del colpo ho fatto un sopralluogo di studio e, la notte, ho aperto la porta blindata, facile come aprire il portello del frigo. Ma, appena entrato, c’era qualcosa che non quadrava. Dal disordine e dall’odore di gas soporifero capivo che qualcuno mi aveva preceduto. Dei soldi, nessuna traccia… porca vacca! La banda fantasma! E anche quella volta me ne andai affanculo convinto che il mio destino è la pressa».
Pautasso fece una delle sue lunghe pause e concluse: «Poi, la storia la sa anche lei dottoressa: la depressione, le fobie, il ricovero».

In ogni colloquio, Pautasso diceva d’aver scoperto il segreto della banda fantasma senza mai svelarlo per cui poteva trattarsi di una delle sue fissazioni. Dovevo capire se avevo di fronte un millantatore o, piuttosto, quel personaggio complesso, sgangherato e geniale che immaginavo:
«Dunque, quale sarebbe il segreto che dice di conoscere? Vuole portarselo nella tomba? Non pensa che, liberandosene, potrebbe chiudere coi suoi fantasmi e iniziare la risalita?»
«No dottoressa, quello non c’entra un bel niente. Il segreto non lo dico perché è come il trucco del prestigiatore che quando si scopre è una gran cazzata. Però c’ha ragione anche lei, dovrei chiudere fuori per sempre questa storia».
«Non faccia il modesto: il prestigiatore apre le porte truccate, lei apre quelle blindate», lo spronai.

Quel giorno Pautasso non aggiunse parola, ma la mattina dopo fu lui stesso a chiedermi un colloquio. Come ci sedemmo sulla panchina dei giardinetti, attaccò senza preamboli come sua abitudine:
«Un giorno che facevo la manutenzione settimanale alla pressa, mi cade un perno in fondo a una fessura del macchinario e non riesco a recuperarlo nemmeno con la calamita perché è fatto di una lega strana. Passa il mio caposquadra, butta un occhio e fa: la colla, pirla!  Così vado a prendere un tubetto di loctite, un collante industriale con una forza di adesione bestiale. Ne metto mezza goccia in testa a una barretta di ferro che infilo nella fessura sino a toccare il perno, lascio agire la loctite per un minuto e tiro su il mio perno bello bello.  Ebbene, un paio di giorni dopo sto al cesso, con licenza parlando, e durante la seduta capisco il segreto della banda fantasma. Una cazzata geniale, se così si può dire! Una gran pirlata, glielo dico io.»

Di colpo si piantò e capii che dovevo solo tacere e aspettare. Gli offrii una sigaretta e restammo a fissare la lama di sole tra il fogliame che tagliava il fumo in fette oblique.
Come solito, Pautasso ripartì all’improvviso: «Una furbata! In pratica, la porta si apre e richiude con la sua stessa chiave. Occorre solo che questa venga lasciata nella toppa come fanno un po’ tutti quando sono in casa: chiudono e lasciano dentro la chiave, anche per sicurezza, cioè per impedire l’inserimento esterno di chiavi false o clonate. Ebbene dottoressa, le dico il trucco per le serrature di sicurezza con chiave a farfalla:  dall’esterno s’infila nella toppa un cacciavite mozzo, cioè senza la parte terminale e con mezza goccia di loctite sulla testa per saldarla alla testa della chiave che si trova nella toppa. Bisogna mettere pochissimo collante perchè, se cola, blocca tutto. Si aspetta che faccia presa poi si apre tranquillamente la porta girando il cacciavite come fosse la chiave. Siccome il materiale molto duro è anche fragile, dopo avere richiuso la porta basta dare un colpetto secco nel senso giusto per recuperare il cacciavite».
Tornammo lungo il vialetto di ghiaia dove Pautasso coglieva sempre qualche sassetto opalescente o striato che intascava dopo avermelo raccontato: «Questa venatura è magma, questa stellina è quarzo: ogni sassolino si porta dentro la sua montagna».

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primo piano di Fulvio Musso    È trascorso qualche anno ormai, eppure non c’è sera senza un pensiero a Pautasso. Magari mentre tolgo, trepida, la chiave rimasta nella toppa. O quando mi scivola di tasca un sassolino con dentro la sua montagna.

Fulvio Musso 

NdA: Non mi risulta che questa mia tecnica della chiave saldata sia mai stata usata nella pratica o in narrativa.

4 thoughts on “L’angolo di Full: “La chiave”

  1. “Ogni sassolino si porta dentro la sua montagna”, è vero!
    Ogni uomo, rispetto all’Universo, è un sassolino con magma incandescente e una stellina a far luce sulle ombre; ogni uomo è un sassolino che si porta dentro la sua montagna di ansie a dilemmi insieme a quella “sound of silence” che lo porta ad escogitare stratagemmi di ogni sorta per aprire porte già spalancate sulla vita.
    Ciao, Full, e
    buona domenica a tutti i lettori del giornale.
    Lucia

  2. Grazie agli intervenuti. Tengo a precisare che questo brano era stato concepito quale modesto omaggio all’ex chimico industriale Primo Levi che, come molti altri valenti scrittori, si era creato un mondo alternativo a quello professionale fatto di rigidi concetti tecnici. Come nel mio caso, fatte le dovute proporzioni letterarie. Il titolo riprende in parte quello del debutto letterario di Levi, “La chiave a stella”. Anche il mio protagonista somiglia al suo sul piano caratteriale. Nessun riferimento nella trama.
    Fulvio

  3. Grazie a te,carissimo Full! Conosco l’opera di Privo Levi, come ne conosco la storia umana. Una microstoria, la sua, inserita in una macrostoria dai toni lividi e oscure che, ardentemente mi auguro, NON debba mai essere parte dei corsi e ricorsi della storia come del tempo ciclico, tempo scabroso verso cui l’intera Umanità oggi sembra avviata…
    Ammiro la tua dedica letteraria.
    “Quella umana è la specie più feroce, siamo animali terribili, la nostra è una storia di guerre, storia senza fine, una storia folle. Di fronte a tutto questo ho pensato che nessuno è degno di sopravvivere, nessuno” così afferma Sebastiano Salgado, il fotografo brasiliano che ha fatto della sua arte, unita al sua grande senso di umanità, indagine sociologica con partecipato coinvolgimento emotivo.
    Ti abbraccio.
    Lucia

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