Mondiali per trapiantati 2013: una bella esperienza, ma la nazionale italiana deve crescere. Parola degli atleti sardi

di Marcella Onnis

Poco più di un mese fa vi abbiamo raccontato dei tre atleti sardi in partenza per Durban, in Sud Africa, per partecipare alla XIX edizione dei Giochi mondiali per i trapiantati (World Transplant Games – WTG).

Stefano Caredda, Vladimiro Atzori  e Marina Cotti hanno ormai fatto ritorno in patria da diverse settimane e, concluse le ferie della nostra redazione, abbiamo chiesto loro di condividere con noi qualcuna delle riflessioni maturate durante e dopo quest’esperienza.

Le prime considerazioni non possono che riguardare il “contesto”. La città di Durban si è mostrata accogliente e attenta a questa manifestazione: c’erano striscioni appesi ovunque, accanto a quelli dedicati a Nelson Mandela, raccontano Marina e Giorgio, il suo compagno. E qui scatta il primo paragone: ricorda, infatti, Pino Argiolas, presidente della Prometeo Aitf onlus, che, invece, a Goteborg, in occasione dei WTG 2011, non erano stati esposti striscioni che segnalassero l’evento.
In Sud Africa i mondiali sono stati organizzati come un vero spettacolo con tanto di presentatore, danze, canti e tanto tifo da parte del pubblico. Entusiasmante vedere ballare e cantare donne agghindate come Mami in Via col vento, racconta Marina, che poi mi mostra le foto dei danzatori zulu (zùlu e non zulù, come usualmente diciamo noi italiani, mi spiega).
Da buoni italiani, poi, non possiamo farci mancare un commento sulla cucina tipica locale: buona e molto speziata (troppo per i gusti di qualcuno). E, per la cronaca, il costo della vita lì non è alto.

Ma ciò di cui a tutti preme parlare, ovviamente, è ben altro. Sempre Marina racconta che uno degli aspetti per lei più straordinari è stato pensare che tutti quei 1200 atleti provenienti da ogni parte del mondo avessero condiviso lo stesso suo percorso di vita: prima la malattia, poi il trapianto e, infine, la nuova vita, fatta anche di sport. Da lei apprendo anche che uno dei motti di questo Paese è “Il Sud Africa crede nella seconda chance”. «Quale motto migliore per i WTG!» mi dice entusiasta e tutti pienamente concordiamo.

Vladimiro, nonostante per motivi di salute (anni di dialisi e poi un secondo trapianto di rene) abbia saltato diversi appuntamenti, è ormai un veterano di queste competizioni: la prima volta è stata nel 1991 in Ungheria, sempre per i WTG, e questa è stata la sua quinta partecipazione. Quinta, ma con il sapore della prima volta, considerato che tornava in vasca dopo il lungo stop forzato ed esordiva sulla pista da bowling. Con il suo caloroso sorriso mi racconta che, infatti, anche l’esperienza di Durban è stata molto emozionante. Ma com’è andata dal punto di vista sportivo? Bene nel nuoto: un 4° posto nei 50 m stile libero e un 5° posto nei 50 m dorso. Dopo tutto stiamo parlando di un pluricampione della categoria che «è sempre entrato in finale», come precisa lui con un sacrosanto pizzico di orgoglio. E nel bowling? Quindicesimo, che in realtà è un risultato migliore di quello che, a prima vista, potrebbe sembrare, visto che i partecipanti alla gara erano quattro volte tanti. Ma se c’è una cosa in cui è imbattibile è nel ricordare nomi, luoghi, anni ed eventi: chiunque voglia scrivere di sport e trapianto può trovare in lui un’enciclopedia vivente.

Stefano si è classificato secondo nella gara a cronometro su un percorso di 5 km, concludendo degnamente quella che a detta degli esperti è stata un’eccellente prestazione. Davanti a lui solo Richard Smith, che è ormai il suo avversario per eccellenza (ma con il quale ha un bel rapporto di amicizia e stima reciproca). Nella gara su strada di 20 km ha, invece, ottenuto “solo” un bronzo. In questi anni ha collezionato tante medaglie e quando Marina gli chiede se le appenderà in casa, sua moglie Cristina risponde pronta “no” (da leggere con l’intonazione del “Quando mai!”) mentre lui, stupendo lei e divertendo noi, rivela che, invece, sta pensando di appenderle in una bacheca. Da quando è stato trapiantato non ha mai saltato una di queste competizioni internazionali (mentre prima dell’intervento non aveva mai gareggiato), ma  – mi racconta – questa è stata l’esperienza più bella. Perché? «Perché per la prima volta si è creato un gruppo unito, un gruppo di amici. Forse perché eravamo di meno o forse perché, quest’anno, c’erano meno tensioni. La prima volta in Australia, nel 2009, ad un anno dal trapianto, è stata emozionante, ma non vedevo fattori negativi.» Ora che l’entusiasmo dell’esordiente ha ceduto il posto alla consapevolezza del quasi veterano, infatti, distingue chiaramente luci e ombre, ma soprattutto coglie appieno il valore di queste partecipazioni e per questo augura anche agli altri atleti trapiantati che ancora non l’hanno fatto di vivere questa esperienza. Stefano è quello che si può definire uno Sportivo nel senso più nobile del termine, un esempio per quei tanti, trapiantati e non, che praticano attività sportiva senza aver interiorizzato le universali regole del gioco: le vittorie richiedono impegno costante e grande sacrificio; si gareggia con l’intenzione di vincere ma, se il risultato è al di sotto delle aspettative, non se ne deve fare una dramma (né tantomeno si deve puntare il dito sempre su fattori terzi) e si deve pensare, piuttosto, a come migliorare le prestazioni future; bisogna desiderare solo vittorie “pulite”; è importante guardare agli avversari forti per imparare da loro e non per trovarvi punti deboli cui appigliarsi per sminuire la bravura. È uno Sportivo perché, prima ancora di essere un ottimo atleta, è un uomo saggio:  «Le medaglie sono un fattore secondario, anche se sono importanti perché sono il frutto di grandi sacrifici, soprattutto per chi, oltre all’attività sportiva, deve dedicarsi al lavoro e alla famiglia.» E qui interviene Cristina a ricordare come una parte di sacrifici ricada necessariamente anche sui familiari cui – dice scherzando  – spetta il ruolo di “sopporter”, ben più impegnativo di quello di semplici supporter. Chiusa questa parentesi scherzosa (non l’unica della nostra chiacchierata), Stefano riprende a raccontare le sue impressioni: «La cosa che mi fa maggiormente piacere in queste occasioni è condividere con altri un percorso di vita, incontrare persone che ti lasciano un segno e che poi avrai piacere di risentire o magari anche rivedere.» I rapporti tra gli atleti si potrebbero pensare tutt’altro che idilliaci, visto che in ballo ci sono delle medaglie da vincere, invece, la sintonia non si è creata solo tra loro tre. I ciclisti, in particolare, dice Marina, si sono mostrati molto uniti tra loro. E il campione sardo delle due ruote conferma ancora una volta, con la sua testimonianza, che la lealtà con cui tra loro si rapportano in pista, fuori dalla gara cede il posto ad una vera amicizia che si rafforza negli anni, di manifestazione in manifestazione e sì, anche grazie a Facebook, che annulla le distanze.

L’aspetto umano è, infatti, quello che in assoluto conta di più in questo tipo di eventi: «Il fine è più grande della medaglia: dare ad altri, con il tuo esempio, un incoraggiamento.»  afferma Stefano e poi spiega perché: «Prima del trapianto pensavo che avrei fatto una vita da malato, non pensavo che dopo l’intervento la mia condizione sarebbe migliorata, anzi. Per cui spero che chi legge o ascolta notizie che ci riguardano si senta incoraggiato. Questa è la medaglia più grande. Anche se poi, quando gareggi, punti ad arrivare primo.» E viva la sincerità! Del resto, non si diventa campioni se si parte con l’idea di potersi anche accontentare di un modesto risultato. È anche vero, però, ciò che dice Vladimiro: che per loro «partecipare è già vincere».

Marina, che sin da prima della partenza si è mostrata particolarmente modesta, interviene per confessare una sua sensazione: «Mi sento un’intrusa perché non facevo sport agonistico ma solo l’allenamento classico che fa chi vuole tenersi in forma. È con questo intento che ho iniziato a praticare il nuoto, poi sono stata coinvolta da altri atleti trapiantati, ma non conoscevo bene i “meccanismi” e ho iniziato quest’esperienza come un gioco. Mi faceva quasi sorridere dire di essere parte di un team. Ma vedendo che nella competizione ottenevo risultati non troppo buoni mi sentivo in colpa per non essermi allenata con sufficiente impegno. Nessuno, però, mi faceva sentire in difetto, anzi, tutti applaudivano per ogni atleta. Non arrivare ultima quindi mi ha fatto piacere.» Per la cronaca, Marina non è stata affatto una schiappa o giù di lì, come le sue parole lascerebbero pensare: ha gareggiato nei 50 m e nei 400 m stile libero, portando a casa un quinto posto in quest’ultima competizione. Va poi considerato che si è iscritta in piscina solo un anno e mezzo fa e che nei mesi precedenti le gare non si era dedicata solo allo stile libero ma anche ad altri stili.

«Qualche rito scaramantico?» chiedo, visto che tanti sportivi (e non solo) li hanno. La risposta è negativa per tutti e tre. Marina dice che il suo rituale (non scaramantico) è stato fare grandi chiacchierate con altre atlete, in particolare, con una nuotatrice dell’Ohio. Stefano, invece, correda il suo “no” di un eloquente seguito: «Credo nelle cose concrete perché sono abituato a non avere nulla gratis.» E racconta che, dopo una delle gare, Richard Smith gli ha dato una pacca sulla gamba, esclamando: “Very strong!” «Perché la forza – spiega – o c’è o non c’è: se non ti alleni, non puoi ottenere nulla.»

«Ma non dimentichiamo che loro non gareggiamo mai solo per se stessi: – interviene Pino – lo fanno anche per i loro donatori.
«Certo,
– prosegue Stefano – la riconoscenza verso chi ci ha donato i suoi organi è la motivazione stessa della partecipazione. Lo facciamo per promuovere la donazione nel modo in cui ci viene meglio, cercando quindi di farlo nel miglior modo possibile. Per questo mi alleno con impegno.»
Anche in questa circostanza Marina mostra uno spirito diverso: «Mi sento in colpa perché dimentico di essere trapiantata Ma, a differenza sua, noi troviamo questo atteggiamento positivo, perché questa è la “prova provata” che dopo il trapianto si può riprendere una vita normale. Del resto, lo scopo di questo intervento e, ancora prima, del sacrificio del donatore e della coraggiosa generosità dei suoi congiunti, non è forse consentire ad altre persone di superare la malattia e cominciare (o ricominciare) a condurre un’esistenza sana, sia dal punto di vista fisico che mentale, da assaporare appieno?

(continua)

 

Le foto ci sono state gentilmente fornite da Stefano e Cristina Caredda

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