Sì alla PEC, pec-cato che…

La chiamano PEC, acronimo di “posta elettronica certificata”, un nome che si presta a reazioni opposte: c’è chi può trovarlo simpatico perché gli ricorda i famosi prodotti PIC indolor, chi invece trovarlo inquietante perché evocativo delle sigle di esami diagnostici quali TAC, MOC …
Con le sigle queste cose succedono. Pensate anche – per restare ancora in tema di pubblica amministrazione informatizzata – alla carta d’identità elettronica, nota come CIE che ricorda CIA e questo basterebbe per non volerci avere a che fare. Forse per questo non ha poi avuto grande diffusione.
Tornando alla PEC, dallo scorso 26 aprile, ogni cittadino può averla gratuitamente: lo sappiamo tutti perché abbiamo visto al telegiornale il simpatico faccione di Brunetta annunciarci tronfio che d’ora in poi non ci saranno più file agli sportelli.
Ma che cos’è e a cosa serve questo strumento (peraltro già in funzione da diversi anni)?
Si tratta di un servizio rivolto a tutti i cittadini italiani maggiorenni (anche se residenti all’estero), gratuito e attivabile su richiesta, che permette di comunicare in modo sicuro con la Pubblica Amministrazione senza recarsi presso alcun ufficio grazie all’ausilio di un qualunque dispositivo in grado di connettersi ad internet. In particolare, la posta certificata permette di richiedere, inviare e ricevere informazioni, comunicazioni e documenti.
Una bella innovazione, dunque. Come lo sportello unico telematico per le attività produttive, il protocollo informatico, il fascicolo elettronico per la gestione dei procedimenti amministrativi e tante altre belle invenzioni che si proponevano di rivoluzionare la pubblica amministrazione e che, però, per anni ed anni sono rimasti più o meno lettera morta.
Questo accade perché le norme innovative non bastano per generare il cambiamento: occorre prima svecchiare la mentalità di coloro che quelle norme devono applicarle, indurli cioè ad abbandonare quei meccanismi che per decenni hanno caratterizzato l’operare delle strutture cui appartengono. E su questo punto concordano anche esperti come Carlo Mochi Sismondi, presidente del Forum PA, e persino persone molto vicine a Renato Brunetta, quale il Dott. Sandro Mameli, membro della segreteria tecnica del ministro, che in un intervento al Forum dell’innovazione – Sardegna, tenutosi a Cagliari lo scorso 19 aprile, ha ricordato proprio che il punto di partenza per il cambiamento è “l’innovazione produttiva, cognitiva e comportamentale, per la quale la legge fa solo da contesto”.
Giusto per fare qualche previsione sui tempi di diffusione della PEC nella nostra quotidianità, pensiamo alle modalità con cui un cittadino può dotarsi di questa casella: occorre collegarsi al sito www.postacertificata.gov.it e sperare, innanzitutto, che non compaiono messaggi come “è stato raggiunto il numero massimo di connessioni. Riprovare più tardi. Grazie” o “Si è verificato un errore di sistema. Riprova più tardi.”; poi se, baciati dalla fortuna, si dovesse arrivare a concludere la procedura, occorrerà attendere 24 ore dalla registrazione online per recarsi (entro tre mesi) presso uno degli uffici postali abilitati per l’identificazione e la conseguente firma sul modulo di adesione (il cui elenco è disponibile sullo stesso sito). Il richiedente dovrà portare con sé il documento originale di riconoscimento personale, utilizzato per la registrazione online, e un documento comprovante il codice fiscale (la tessera del codice fiscale o del servizio sanitario nazionale), lasciandone una copia all’ufficio postale. Al termine della verifica dei dati forniti dal cittadino e della sottoscrizione del modulo di adesione per l’attivazione del servizio, la casella PostaCertificat@ sarà pronta all’uso. Insomma, una procedura facile facile, no? Che per permettere ai cittadini di usufruire di un sistema “taglia code” richiede di andare a far la coda allo sportello! Qualcuno obietterà sicuramente che l’identificazione del richiedente è necessaria per ragioni di sicurezza, ma è piuttosto improbabile che una persona richieda il servizio per conto di un altro, essendo entrato in possesso della sua carta d’identità … Perché, poi, al momento del riconoscimento, richiedere ben due documenti identificativi?
Riflettiamo anche su altri dati: il Codice dell’amministrazione digitale, entrato in vigore il 1° gennaio 2006, impone alle pubbliche amministrazioni di utilizzare la posta elettronica certificata per ogni scambio di documenti e informazioni con tutti i soggetti interessati (imprese, professionisti, cittadini) che ne fanno richiesta. Dal 30 giugno 2009, poi, le pubbliche amministrazioni devono, per legge, pubblicare nella pagina iniziale del proprio sito istituzionale un indirizzo di posta elettronica certificata a cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta. Non solo: devono anche assicurare un servizio che renda noti i tempi di risposta. Ad oggi , però, queste norme sono ben lontane dall’essere applicata in tutte le amministrazioni. I dati per quanto riguarda Non sono incoraggianti neppure i dati sulle amministrazioni statali, raccolti dall’Ispettorato della Funzione Pubblica. Non vi ha adempiuto neppure la Sardegna, che è una delle regioni più avanzate per quanto riguarda l’offerta di servizi via web e che è stata più volte premiata per la qualità dell’informazione e la trasparenza del proprio portale istituzionale. E se sono indietro le regioni, figuratevi i comuni, soprattutto quelli di minori dimensioni, ossia gli enti cui più spesso i cittadini si rivolgono e ai quali chiedono con maggior frequenza il rilascio di certificazioni.
Ben vengano, quindi, le innovative norme volute da Brunetta, soprattutto perché accompagnate da sistemi sanzionatori senza i quali – è risaputo – le p.a. tarderebbero ancora di più ad adeguarsi, ma – memori delle esperienze passate – condividerne tutto l’entusiasmo risulta piuttosto difficile.
Marcella Onnis

la foto del ministro Brunetta è tratta dal sito: www.gulp.it

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