Raccontonweb: “Il guerriero” di Beatrice Sabatini – 2^ parte

Il guerriero

(segue)

Uno dei Giganti di Mont'e Prama raffigurante un guerriero che si protegge la testa con lo scudoIl malcontento e la sfiducia aleggiavano fra gli uomini: il nemico aveva attuato un’azione a morsa, stringendo le nostre forze da sud e da nord. Non restava altro che cercare di sconfiggerlo in campo aperto, ma, ai più, tutto ciò pareva soltanto l’ultimo e disperato tentativo, destinato al fallimento. Anche fra i generali era alta la sfiducia, poiché molti fra loro dubitavano della fermezza dei propri uomini. E non a torto, pensai, dato che anche fra i coscritti miei compagni di viaggio vi erano volti cupi e nervosismo diffuso. Fu così che passammo la notte in un sonno ristoratore solo per le membra stanche, mentre gli spiriti vagavano inquieti nel regno dei presagi di sventura. E la prima sventura si presentò con i primi albori di un cupo e gelido mattino, quando le trombe suonarono l’adunata e fummo ammassati nella grande spianata di fronte agli alloggi dei generali. Sui volti ancora assonnati leggevo attesa e curiosità, mentre serravamo i ranghi di fronte ad una pedana allestita in fretta poco prima dell’alba. Quando il silenzio divenne assoluto il generale salì sulla pedana, si schiarì la voce e impartì gli ordini che avremmo dovuto eseguire.
“Chiunque fra voi abbandonerà senza permesso questo luogo sarà considerato disertore e consacrato al dio della vittoria”. Tutti ebbero un fremito, ben sapendo che questo significava un’uccisione cruenta sull’ara del dio. Ma dov’era l’ara?
Il generale continuò:
“Siete convocati al tramonto nel luogo destinato: colà il sacerdote del dio della vittoria provvederà ai riti prescritti perché il dio ci sia propizio.” Fu allora che alle spalle del generale, notammo un uomo assai anziano, che annuiva mentre questi, splendente nella sua corazza e nell’elmo crestato, impartiva ordini.

Durante la giornata si provvide ad allestire, nel mezzo dell’accampamento, un ampio recinto, chiuso da un’alta siepe e da un imponente steccato ricoperto di bianchi teli di lino. Capimmo che quello sarebbe stato il luogo destinato al sacro rito. Lungo i duecento piedi di ogni lato gli uomini non impegnati nell’allestimento si aggiravano turbati, e alla premonizione della sconfitta si aggiunse l’inquietante terrore superstizioso di ciò che sarebbe accaduto al tramonto. I miei sensi erano all’erta e non capivo, rifiutando di cercare spiegazioni nella memoria dei riti della mia gente. Mi limitai ad attendere. Un livido cielo invernale cedette il passo, al calare delle prime ombre della sera, ad un tramonto striato di sangue.
“Cattivo presagio”, mormorò un uomo passandomi accanto, “dalle mie parti questi tramonti indicano sconfitta in tempo di guerra.”
Non era ciò che pensavo, ma non controbattei.

D’un tratto le trombe dell’adunata squillarono stridendo e il loro suono si affastellò al cupo mormorio del vento.
Allora, come uno sterminato corteo di spettri, gli uomini si radunarono nella spianata. I panni di lino sventolavano sinistri, riverberando le fluttuanti luci di mille bracieri situati all’interno, attorno agli altari nascosti.
Il generale era in piedi accanto all’ingresso del recinto e il sacerdote gli era al fianco, avvolto in candide vesti, e fra le mani stringeva alcune tavolette di bronzo avvolte in un panno di tela ingiallita. Quando il silenzio fu assoluto, il sacerdote svolse le tavolette e le innalzò dicendo a gran voce, di modo che le sue parole potessero essere udite dal maggior numero di uomini possibile: “Queste sono le tavole dei riti degli antenati, che invocarono il dio della vittoria a loro favore quando vollero strappare ai nemici la terra sul mare. Alla tradizione dei padri ci atterremo.”

Entrò quindi nel recinto, sparendo alla nostra vista, e cominciò il rito, sgozzando sugli altari, al cospetto del simulacro del dio della vittoria, decine di vittime, animali selvatici e domestici i cui urli agonizzanti fendevano il silenzio attonito all’esterno. Infine i rantoli cessarono e ognuno degli uomini, ancori in piedi nella notte ventosa e gelida, si aspettava che il rito fosse terminato, ma il sacerdote tardava ad uscire dal recinto. Attorno al recinto le fiaccole proiettavano le loro luci oscillanti sui volti dei guerrieri chiamati a far da guardia e sulle lame delle loro spade sguainate. Il generale chiamò infine un messo, parlandogli sommessamente per alcuni istanti. Questi provvide a far disporre dai comandanti tutti gli uomini secondo stirpe e anzianità.

Ad uno ad uno i guerrieri vennero introdotti nel recinto e fatti avvicinare agli altari. Dall’esterno nulla poteva essere compreso di quel che accadeva all’interno e gli uomini erano fatti uscire dal lato opposto da cui erano entrati. Per questo motivo solo quando venne il mio turno conobbi ciò che avveniva nel recinto sacro. Mi condussero all’entrata e mi spinsero quasi con violenza accanto ad uno degli altari. Lì, eretto e terribile a vedersi, stava il sacerdote. I suoi occhi ardenti si fissarono su di me ed io non riuscivo ad osservare che quelli.  Con durezza mi fece giurare il silenzio su ciò che stava accadendo. Ma non era tutto. Alzando un pugnale grondante di sangue me lo puntò al collo e sibilando come un serpente mi ingiunse:
“Ora ripeti con me o muori!”
Mi diede appena il tempo di comprendere quel che aveva detto e poi continuò:
“Giuro di andare in battaglia ovunque i miei comandanti mi condurranno, di mai fuggire dal campo, di uccidere senza pietà chiunque vedrò fuggire. Se non prestassi fede alla parola data, dopo innumerevoli e meritate torture, morte violentai colga la mia stirpe, ogni suo individuo sia squartato e fatto a pezzi, senza mai trovare sepoltura, e la sua ombra sia condannata a mai trovare riposo e vagare senza requie fino alla fine dei tempi. Questo occorra a me, alla mia famiglia e a tutta la mia stirpe!” mi scrutò cercando sul mio volto l’effetto di questo giuramento.
“Ripeti o muori!” minacciò premendomi la punta del pugnale sulla giugulare. Ma io non esitai: giurai tutto d’un fiato e il sacerdote sorrise, leggendomi in viso il desiderio infuocato di combattere. Gli sorrisi di rimando, quasi stolidamente, e fui lasciato andare. Mentre mi dirigevo all’uscita un cumulo che prima mi era parso di vecchi sacchi prese identità: alle carcasse degli animali erano mescolati i corpi pallidi e impiastrati di sangue di parecchi guerrieri, alcuni dei quali mi erano noti. Erano coloro che avevano rifiutato di giurare. Con gli occhi colmi del vermiglio acceso e grumoso del loro sangue e lo spirito pieno di raccapriccio uscii nell’aria gelida e inodore della notte, ritrovando il mio alloggio e crollando addormentato sul mio giaciglio, esausto per l’orrore e per il desiderio di dimenticare.

Fummo svegliati che era ancora notte: la battaglia era imminente. Indossai, svuotato di ogni pensiero, corazza, bandoliera e schinieri. Assicurai spada e pugnale alla cintura e mi posi l’elmo sul capo. Impugnai lancia e scudo e mi diressi, perso nella folla di guerrieri, verso il campo di battaglia. Mentre attendevo che avesse inizio il combattimento, i pensieri tornarono nella mia mente e mi resi conto che tutto il mio impeto amoroso verso la guerra era stato fiaccato, invece che rafforzato, dal rito terrificante della sera precedente. Non avevo più desiderio di udire il cozzare delle spade e degli scudi né di provare l’acre usto di sangue nemico. Al suo posto, nelle mie narici, già regnava invincibile l’odore dolciastro dei corpi dei guerrieri, miei compagni, sacrificati alla disperazione.  Ero come sbiadito nella nebbia che diradava nel crepuscolo scoprendo cime di monti innevati. Ma implacabili squillarono le trombe e le prime file si catapultarono contro il nemico. Poi giunse il nostro turno e l’urgente istinto di sopravvivenza mi riscosse dal torpore. Abbattei facilmente vari nemici meno imponenti di me prima di trovarmi, la lancia ormai spezzata, di fronte ad un guerriero dalla spada ancora lustra. Lo affrontai ferocemente: era alto come me e non pareva meno forte. Combatteva valorosamente e non fu semplice atterrarlo. Vi riuscii infine colpendolo di taglio alle gambe e facendolo cadere sulle ginocchia. Lui reagì bloccandomi il braccio destro mentre cercavo di colpirlo ancora. Ma il mio braccio sinistro era stato addestrato al combattimento altrettanto che il destro e, in esso, vi erano pari forza e agilità. Così adoperai lo scudo come un’arma e colpii l’uomo al collo.

Quello stramazzò con la schiena al suolo senza quasi più respiro, lasciando la presa sul mio braccio. Allora gli puntai la spada fra il collo e la spalla, lì dove non c’era protezione, e affondai la lama. Ne sgorgò un fiotto di sangue scuro che sprizzò ovunque. Preso dall’esaltazione della vittoria mi chinai e gli strappai l’elmo, scoprendogli il volto. Era ancora vivo e respirava appena, gli occhi semichiusi. Era giovane, più giovane di quanto mi aspettassi, e la barba era ancora un velo trasparente sul suo volto. Conoscevo già quel volto. Rimasi di sasso e mi chiesi inorridito il suo nome e la terra da cui proveniva. Era davvero arrogante come ci avevano riferito oppure era stata solo la volontà di conquista dei suoi capi a costringerlo ad una lunga marcia lontano da casa? Forse avrebbe preferito restare lì, in pace, a realizzare le promesse di gioia della sua giovinezza. Forse la fame e la carestia lo avevano spinto a cercare un magro ma regolare pasto nell’esercito della sua terra. Colui che, poco prima, era stato il mio valoroso nemico aprì gli occhi e io percepii il soffio della sua vita abbandonarlo e vidi la morte dilatare le sue pupille scavate in iridi di un blu inaudito.

Gli occhi della Signora mi tornarono alla mente, con le sue profezie di dolore e devastazioni. Ero io l’uccisore del guerriero della visione, di colui la cui sorte tanto avevo compatito, e come in essa il suo cadavere diveniva il mio, così la sua morte, lì, sul crudo e reale campo di battaglia, divenne la fine della vita che, fino ad allora, avevo condotto. Mi alzai di scatto, tolsi l’elmo per fuggire il senso di soffocamento che mi attanagliava e restai immobile, impietrito nel turbine della battaglia attorno a me: finalmente comprendevo le visioni donatemi dalla Signora, che mi danzavano davanti, non più obliate dal mio spirito leggero, e mi nascondevano la realtà circostante. E compresi la crudele insensatezza della guerra, che solo dolore arreca agli uomini, e considerai quale fosse lo stolto tesoro cui i figli degli uomini donavano l’anima per timore del nulla. Fu allora che un dolore acuto al capo e la percezione della gamba che cedeva sotto il mio peso mi riportarono alla realtà, giusto in tempo perché la vista mi si oscurasse di nuovo. Caddi in deliquio e per me la battaglia e il mio ruolo di guerriero finirono sul nudo terreno gelato. Nella nebbia confusa che regnò nella mia coscienza vidi solo il simulacro del dio della vittoria abbattuto e reso polvere dal turbine di tempesta che scendeva dalla Grande Montagna e il giovane che avevo ucciso unirsi alle ombre luminose di coloro che andavano ad abitare nel regno sopra le nuvole, liberi da tutto e ricchi ormai di tutto, il cui canto di gioia si perdeva nell’armonia perfetta del vento.

Ero un guerriero. Ora sono soltanto il Vecchio del Bosco, e la mia unica battaglia è quella contro le fiere e il gelo che percuotono le selve in cui ho posto la mia casa. Dopo una lunga convalescenza presso gente buona e semplice, tornai alla mia terra, ma non rimasi che pochi istanti nella casa dei miei padri. Ora è mio fratello a comandare la mia touta al posto mio. Mio padre è morto da tempo, senza aver perdonato la mia fuga nel bosco e solo mia madre, ormai anche lei in compagnia degli avi, comprese, come sempre, la mia scelta. Restai pochi giorni nella mia casa. Poi cercai la Signora, zoppicando nel bosco, ed ella si fece trovare, ancora seduta accanto alla fonte. Mi insegnò ad ascoltare il vento e lo stormire delle foglie, la musica celata nelle acque e lo scorrere della linfa negli alberi. Mi insegnò che il suo Signore parlava in tutto con voce di brezza gentile e che il suo perdono stillava come miele sul capo dei suoi figli ostinati. Mi insegnò a curare i mali degli uomini con erbe e preghiere e a svelare alle coscienze i segreti nascosti che imputridiscono gli spiriti. Divenni suo servitore e per lei viaggiai ovunque mi inviasse. E a tanti fra gli aedi, come mio padre desiderava, giunse la mia storia ed essi presero a cantarla, sulle cetre, nelle corti dei potenti signori, spesso da loro non compresi o addirittura scacciati. Gli aedi narrano però del Vecchio del Bosco, che era un guerriero, e che ora canta con gli uccelli e danza con il vento nelle foglie.

Beatrice Sabatini

 

 

Nella foto uno dei Giganti di Mont’e Prama, raffigurante un guerriero della civiltà nuragica

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