prose poetiche
GIOCO DI VENTO
È un gioco di vento, di luci e ombre. Il sole fa capolino tra le nuvole. Una donna si affaccia alla finestra. È primavera ed è quasi sera. Tutto è già stato detto e pensato oppure forse io ho detto e pensato tutto quello che avevo da dire e pensare. Le parole sono inutili se non sono un semplice mezzo e divengono un fine. Ecco perché alcuni poeti si uccidono, lasciando in vita solo le loro parole. L’importante è non lasciare testamento, né eredi. Fate come se non fossimo mai esistiti perché noi non abbiamo mai vissuto pienamente e perciò non siamo mai esistiti veramente. L’importante è questo nostro cuore che pulsa qui e ora, non la nostra memoria quando il cranio diverrà teschio e saremo carne per i vermi. No. Non pensare a tutti gli amplessi del mondo in questo istante. Pensa a tutti coloro che soffrono e che muoiono perché questo, al di là di ogni apparenza e bugia, è il destino di tutti. I nostri problemi sono i problemi di molti. Un tempo condividevamo i nostri problemi e andavamo in piazza. Ma era solo l’illusione sciocca e vanesia della gioventù. Altri giovani più belli e con anime più belle ora sono nelle piazze. Poi ognuno prenderà la sua strada, esattamente come abbiamo fatto noi, e penserà a sé stesso oppure ad altro. Altro che forever young! La politica? Tutto si riduce più o meno ignorantemente a tifare un partito, soggetti al bias della conferma. È inutile avere un’opinione perché ci sono già tanti opinionisti alla tv che pensano per noi. Si parte con il credersi speciali e poi ci si rende conto di non essere nulla. Non resta che l’amore disamorato e l’odio diventato indifferenza. Non ci sono più nemici. Degli amici solo un vago ricordo. Se faccio la conta degli amici, ne ho solo uno vero e ringrazio Dio di averlo. Nemici e amici in questo limbo possono essere interscambiabili, se poi la sommatoria di tutto è la solitudine. Al bar non leggo più neanche il giornale. Fare bene, fare male, non fare…Solo questi passi nella strada. È stato tutto un sogno, di cui resta un ricordo sbiadito. Bisognerebbe smettere di scrivere, pensare. Bisognerebbe rassegnarsi ad assaporare albe e tramonti, il tepore del sole, il cielo sgombro. Bisognerebbe aspettare di sognare di nuovo. Bisognerebbe accontentarsi di non morire per ora. Rincaso e mi saluta mio padre sulla soglia.
IL TARLO
Qui, gioca il tarlo. Qui, ridendo di me. Qui, corrodendo pensieri, che mi corrodono. Bisognerebbe entrare nella testa altrui, chiedendo permesso. Non basta sorridere a un sorriso, gioire insieme, piangere insieme. Chi ha spezzato il pane e l’ha condiviso ha fatto una brutta fine. Mai dire ciò che pensi, ma sempre pensare a ciò che dici. Bisogna seguire il gregge. Queste sono le regole, vivacchiando in attesa di una novità o anche solo dell’irreparabile. Sono solo uno che ha il lusso di pensare o di non pensare. Basta di dare la colpa a questa società, che ha già troppe colpe. Sono pensieri piccoli, idee sminuzzate, rintuzzate, in fuga. Noi siamo tutti innocenti e tutti colpevoli con le nostre scuse, le nostre giustificazioni da portare, i nostri peccati, le nostre omissioni. Incrocio sempre le solite facce o forse sono loro che incrociano me. Non conosco l’angoscia né l’alienazione metropolitana. Mi bastano già queste piccole solitudini e queste malinconie di provincia. Se non ho trovato il grande amore a vent’anni, vuoi che lo trovi ora, che vado verso il declino? A volte ci sono e a volte non ci sono. Mi esauriscono nella presenza. Mi nutro di assenze. Pieni e vuoti della mente, luci e ombre dell’animo. Il cielo non è mai vuoto. Il cielo è sempre lì in agguato. L’importante è fissare le stelle e la luna in questi giorni in cui il cielo è sereno. Chiedersi, fissando il cielo, se qualcuno lontano mi sta pensando. Pensare che si è solo un nonnulla in questo cosmo, che miliardi di persone non sanno nemmeno che esistiamo. Tra quarant’anni nessuno si ricorderà di me, per cui sopportate queste mie parole. Ho il diritto di esistere anche io e di darne una minuscola, insignificante testimonianza. Siamo nulla. Siamo niente, anche se facciamo di tutto per cercare conferme del contrario.
MIA MADRE
Mia madre sta abbastanza bene. Le sentono un poco i polmoni. Mangia il giusto. Ogni giorno cammina per 10 minuti con il deambulatore. È sempre nel centro di Bientina. Da oggi non posso più andarla a trovare perché ho il raffreddore e sarebbe da irresponsabili rischiare di attaccarglielo, visto che ha 6 costole rotte. Si annoia. Ha la tv in camera. A volte la guarda. A volte non ha voglia di niente. Infermieri/e e medici sono gentili, efficienti e scrupolosi. È in camera con una signora ottantenne, sola nel mondo, che a volte sragiona e a volte è lucida. Nessuno la viene a trovare. Forse anche io farò quella fine oppure ne farò una addirittura peggiore. Certamente la vita è anche tirare a campare e sopravvivere ai guai, ma spesso è distrazione dal pensiero della morte, come pensava Pascal, o vanità, come scritto nell’Ecclesiaste. A volte è difficilissimo dare un senso al mondo, alla vita. Poi alla fine, persi tra lucidità e follia, si resta soli di fronte alla morte, come quella signora che condivide la stanza con mia madre, e si prega la morte di rimandare l’appuntamento perché alla fine non siamo mai pronti, vuoi per la paura, vuoi perché c’è sempre qualcosa di sospeso, di inconcluso, di irrisolto.
DECLINARE L’OSCURITÀ
Mi è venuta meno la voglia di incontrare qualcuno per ore per parlare dei miei problemi, anche perché spesso bisogna ascoltare in cambio e per contrappasso quelli altrui. La mattina presto il silenzio è alto. Poi giunge all’improvviso il canto di un motore. Quindi di nuovo il silenzio, ma se presto davvero attenzione c’è lo scalpicciare dei miei passi. C’è solo l’eco dei miei passi. C’è la nuvoletta del mio fiato nel freddo pungente. A volte c’è un vento gelido, altre volte la nebbia riduce il mio campo visivo, fino a che dei fari la squarciano, la perforano per qualche attimo. Camminare così, raccolto nei miei pensieri, e credersi troppo vecchio per amare e troppo giovane per morire di nuovo. Ma è un gioco assurdo, impossibile cercare un discrimine tra vita e non vita, tra amore e morte, perché amare è anche un poco morire. Due chiacchiere di circostanza al bar per essere nel mondo, per stare con gli altri (la ragazza è in prova presso un calzaturificio e non sa come arrivarci, perché la sua macchina è guasta: questi sono i veri problemi della vita: noi siamo mestieranti senza alcun mestiere e contano poco la noia, l’ansia che ci assalgono). Poi declinare l’oscurità nell’animo per cercare un senso nuovo nelle cose di tutti i giorni. C’è da perdersi in ogni vuoto, in ogni ramo spoglio, in ogni striatura del tramonto. Cercare parole, ma non trovare mai quelle giuste, quelle esatte, perché a vincere è l’inadeguatezza, la mancanza, l’assenza. Alzarsi all’alba e camminare in luoghi, che sono non luoghi. Ma la vera solitudine è di chi è veramente solo e malato e nessuno gli offre parole di conforto. La verità è nuda come un ramo spoglio, è inarrivabile come una striatura del tramonto. Declinare la verità nell’animo per cercare un senso nuovo nelle cose di tutti i giorni. C’è da perdersi in ogni verità, in ogni ramo spoglio, in ogni striatura del tramonto.