OTTENERE GIUSTIZIA È UN CONFORTO CHE NON SEMPRE DURA NEL TEMPO

Veder condannare chi ha procurato un danno induce a considerare le debolezze umane, e per la parte lesa è un senso di conforto che però è destinato ad attenuarsi nel tempo. Poiché l’enfasi non acquieta il dolore, dovrebbe lasciare il posto all’umiltà e alla sobrietà

di Ernesto Bodini (giornalista e opinionista)

Si sa che le notizie di cronaca nera e giudiziaria si riferiscono a fatti e misfatti spesso anche gravi, come delitti contro la persona, il patrimonio, le Istituzioni e tanto altro ancora. In particolare la cronaca giudiziaria riporta la descrizione e spesso anche la rievocazione di delitti con tanto di protagonisti, e successivi sviluppi in tribunali dove dibattiti e sentenze si consumano giorno dopo giorno e anno dopo anno. Ma quello che vorrei mettere in evidenza è il comportamento delle parti lese quando vengono emesse le sentenze di condanna nei confronti di chi li ha danneggiate, in quanto non di rado (riprese dai mass media in versione cartacea e televisiva) esultano di gioia con sorrisi ed abbracci verso i propri difensori non solo per aver vinto la causa, ma anche per il fatto che il reo è stato condannato in quanto «la giustizia ha imperato». Ma a questo riguardo mi permetto di osservare che una vittoria e una sconfitta tra esseri umani sono sempre espressione di dolore, tanto per chi ha sbagliato quanto per chi è stato leso. Esultare per una sentenza a proprio favore, oltre che per il riconoscimento di eventuali risarcimenti, può appagare l’animo ferito ma poco dopo quella “sete di giustizia” si placa perché, inconsciamente o meno, resta inalienabile il concetto di persona con i suoi difetti, le sue debolezze e i suoi inesorabili enigmi. In più occasioni, per ragioni di volontariato nella veste di “consulente artistico e letterario” per una associazione onlus che lavora all’interno di una Casa Circondariale, ho potuto avvicinare alcuni detenuti senza conoscere (per ragioni etiche e di sicurezza…) il loro pregresso e, indipendentemente dal loro reato e dalla relativa entità di pena, mi sono immedesimato nel loro essere “persona” e nel loro ruolo di artista improvvisato o in ascesa. Questo mio ruolo ben mi distanzia (non per indifferenza) dal dolore di chi ha subito le conseguenze di un reato, e sarebbe una presunzione affermare di potermi immedesimare (nessuno può comprendere a fondo il grado di sofferenza, sia essa fisica o psichica altrui); tuttavia, pur recependo l’entità di un dramma rimane al centro dello stesso la persona in quanto tale, penalizzata dalla giustizia umana, divina e dalla sua coscienza; ma esultare perché un procedimento di legge ha fatto il suo corso rendendo giustizia, mi sembra un appagamento interiore che quasi sempre lascia il tempo che trova.

E vi è anche un altro dolore da “sopportare” per chi ha subito un torto, specie se di una certa entità, ossia il fatto che nel nostro Paese in molti casi le pene detentive sono assai esigue, ed in altri  non vi è addirittura la certezza della pena, un ulteriore sfregio per le vittime che vedono ridimensionata l’entità dell’offesa arrecata dal reo perché, quasi d’incanto, sopraggiungono attenuanti: varie insussistenze dei fatti pregressi, ritrattazioni, pentimenti, buona condotta durante la detenzione, indulto, condono, etc. Ed è su questi aspetti che bisognerebbe insorgere… Le mie presenti osservazioni non intendono certo giustificare in alcun modo gli autori di reati, e a condanna emessa nemmeno un pianto a dirotto, un applauso ed altre plateali manifestazioni come l’eccessiva esaltazione proprio perchè non danno maggior “valore” al risultato di una sentenza, così come rendere più responsabile la coscienza di chi è stato condannato. Da sempre sono un garantista fino a prova contraria e per molti aspetti anche un anticonformista, e il mio dispensare considerazioni sui drammi umani parte sempre dall’esistenza della persona in quanto Essere che, se anche privata della libertà, non potrà mai colmare il vuoto interiore di alcuno. Infine, come si può esultare per una sentenza di condanna senza ipotizzare che un giorno si verrà a sapere che il condannato risulterà essere innocente? Rammento che allo stato attuale nel nostro Paese i detenuti innocenti (accertati) sono diverse migliaia e, a questo riguardo, mi sovviene una precisazione del politico, avvocato e uno dei padri delle Costituente, Piero Calamandrei (1889-1956): «La pena non è legata alla sentenza, ma è legata alla stessa assistenza del processo: un soggetto che è imputato e quindi sottoposto a un procedimento giudiziario, di per sé sta pagando una pena anticipata rispetto al suo giudizio di colpevolezza». Ed è anche per quest’ultima ragione che a mio avviso è saggio non rendere pubblica, ancorché in modo plateale, una “gioia” di carattere giurisprudenziale… un piatto servito per i mass media e per un  pubblico morbosamente assetato di queste notizie, pronto a compiangere e poi tirare dritto per la propria strada il giorno dopo.

|

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *