La cardiologia approda all’Accademia di Medicina
di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)
Ancora una volta l’Accademia di Medicina di Torino assolve al suo ruolo di centro di cultura ospitando un evento di interesse generale, rivolto sia agli specialisti che alla popolazione. Stavolta salgono in primo piano le patologie cardiache che, come quelle oncologiche, sono costantemente sotto i riflettori degli operatori sanitari (clinici e ricercatori) e dell’opinione pubblica. Due ambiti in cui le incidenze di morbilità e mortalità inducono sempre più alla prevenzione e, nel contempo, al miglioramento delle strategie terapeutiche. Il convegno, promosso dal dottor Alessandro Comandone, presidente dell’Accademia, ha preso in esame il tema della Storia della cardiopatia ischemica con gli interventi di nomi illustri come quelli del prof. Fiorenzo Gaita (nella foto), direttore del Dipartimento Cardiovascolare e Toracico della Città della Salute e della Scienza (ospedale Molinette); del dott. Sebastiano Marra, direttore del Dipartimento di Cardiologia al Maria Pia Hospital (To); della dott.ssa Patrizia Presbitero, Senior Consultant Cardiology della Clinica interventistica presso il Gruppo Humanitas di Rozzano (Mi). Nell’introdurre le relazioni il prof. Gaita ha ricordato che sino a non molto tempo fa la cardiopatia ischemica (C.I.) era considerata la causa di morte più frequente, ma che, grazie alla prevenzione eliminando o riducendo i fattori di rischio, il numero dei pazienti oggi è diminuito sensibilmente. «Relativamente alle terapie per il trattamento dell’evento acuto di questa patologia – ha sottolineato Gaita – c’è stata una analoga evoluzione, come pure è progredita la prevenzione secondaria dello scompenso cardiaco».
Più “storico” e al tempo stesso dettagliato l’intervento del dott. Marra (nella foto), volto soprattutto al concetto di prevenzione cardiologica in generale. Ma che cosa si intende per prevenzione? È noto che si tratta di un insieme di azioni coordinate sulla popolazione che possono eliminare i fattori di rischio e/o “minimizzare” la sintomatologia dell’infarto e delle patologie cardiovascolari. «Ma la malattia cardiovascolare, seppur in diminuzione – ha precisato il clinico – resta a tutt’oggi la causa principale di morbilità e mortalità, e ciò nonostante i miglioramenti terapeutici a disposizione. In Inghilterra, ad esempio, l’incidenza di mortalità dagli anni ’70 al 2000 era di 800 casi per 100 mila abitanti, percentuale però dimezzata in diverse città europee». Ma a cosa attribuire i maggiori vantaggi dati dalla riduzione dei fattori di rischio o alle migliori terapie? «Nel 90% dei casi – ha spiegato Marra – l’infarto miocardico acuto (IMA) è dovuto ai principali fattori di rischio che dovrebbero essere a tutti noti: fumo, ipertensione, dislipidemie, obesità, diabete, scarsa attività fisica, etc., e il 50% di questi fattori include una non corretta alimentazione. In effetti la prevenzione cardiovascolare ha delle notevoli potenzialità nella riduzione del rischio di mortalità». Sempre secondo l’esperienza inglese la riduzione di tali fattori riduce del 71% l’evento mortalità e del 42% l’apporto terapeutico. Dati che secondo Marra possono essere però migliorati. In questi ultimi anni i trattamenti hanno avuto un’efficacia del 40% e la correzione dei fattori di rischio del 50%. 2 Ma quale il futuro? «Se i fattori negativi continueranno ad essere considerati con la dovuta attenzione – ha spiegato Marra – si contribuirà a ridurre ulteriormente il tasso di mortalità a causa delle malattie coronariche in genere, soprattutto in presenza di diabete e obesità. Ma è indubbio, come dimostrato negli ultimi anni, che la prevenzione dei fattori di rischio è più efficace della terapia, e su questo versante bisogna agire “invocando” il supporto delle Istituzioni, delle Associazioni di volontariato, e in particolare coinvolgendo i medici di famiglia, oltre al contributo dei mezzi di informazione evitando però campagne allarmistiche». Uno dei fattori di rischio, oggetto di particolare attenzione, è l’abuso del tabagismo soprattutto tra i giovani e i giovanissimi; ma anche l’ipertensione che interessa il 50% degli uomini e il 39% delle donne, percentuali che tendono ad aumentare con l’avazare dell’età e la sedentarietà. Dati che interessano anche la regione subalpina, dove le donne pare abbiano maggior coscienza del concetto di familiarità per queste patologie.
Per quanto riguarda la terapia, rispetto ad un tempo oggi si ha un po’ meno paura di sottoporsi al trattamento delle patologie cardiovascolari, in particolare dell’infarto miocardico acuto (IMA), e ciò è dovuto ai notevoli progressi di questi ultimi decenni: si è passati dal 30% nell’era pre-unità coronarica al 3- 4% di oggi. Ma che cosa ha determinato la diminuzione di mortalità? Secondo la dottoressa Presbitero (nella foto) un primo successo lo si è avuto con l’isituzione delle Unità Coronariche e con il defibrillatore, e in seguito con la terapia riperfusiva per via endovenosa e per via endovascolare (riapertura della coronaria occlusa), e ciò grazie al ruolo della fisiopatologia che sta a dimostrare che l’occlusione del vaso arterioso è provocata dalla trombosi. «In quest’ultimo ventennio – ha spiegato la relatrice – la terapia riperfusiva miocardica si è andata affermando sempre più come terapia ottimale di elezione nel trattamento dell’IMA. Va rilevato che la terapia endovascolare per la rimozione del trombo con l’ausilio dei cateteri, e quindi per la riapertura della coronaria occlusa con il posizionamento degli “stent”, è migliorata rispetto alla terapia infusionale (trombolisi per via endovenosa). Tale procedimento favorisce sensibilmente la diminuzione del rischio di occlusione e quindi minore è il rischio di emorragia intracranica». È dunque importante giungere in tempo per la terapia riperfusiva: secondo gli esperti entro 90 minuti sarebbe l’ideale dall’ingresso in ospedale al trattamento vero e proprio; e va da sé che è altrettanto importante ridurre i tempi dal manifestarsi dei sintomi al ricevimento della terapia perché ciò ridurrebbe il tasso di mortalità. «Il tempo di riperfusione – ha insistito la dott.ssa Presbitero – resta l’aspetto più importante da perseguire per effettuare il trattamento endovascolare dell’infarto. E sempre in fatto di terapia innovativi sono i vari tipi di “stent” per il trattamento medicato, come quelli che “catturano” le cellule progenitrici in modo da endotelionasizzarsi più rapidamente. Altri tipi di stent sono quelli autoespandibili che si adeguano opportunamente alla parete del vaso arterioso; ma anche quelli di tipo riassorbibile dopo aver svolto la sua funzione, ossia il ripristino della vasomotilità della coronaria».