IL Mondo Della Follia Femminile in oltre un secolo. Nel libro di BRUNA BERTOLO storie di vita vissuta tra emarginazione, povertà e pregiudizi.

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico e biografo)

Addentrarsi ogni volta nei meandri della psiche umana, sia pur attraverso la lettura di testi anche divulgativi, ancorché “impreziositi” da ricche nozioni storiche, è per certi versi affascinante e per altri un po’ inquietante. È una considerazione che mi sento di sottolineare dopo aver letto la storica e preziosa opera Donne e follia in Piemonte (ed. Susalibri, 2021, pagg. 232, euro 11,90) della giornalista e scrittrice rivolese (To) Bruna Bertolo. Un ricco lavoro di ricerca e ricostruzione di vite vissute dai moltissimi risvolti umani che non riguardano solo le pazienti (per la maggior parte giovani), ma anche medici, infermieri e Istituzioni. Un tuffo nel passato a partire degli inizi dell’800 dal quale emerge quanto di più significativo ha determinato l’esistenza della follia (pazzia), come pure l’impegno per addivenire ad una diagnosi, ricovero e cura. I molti episodi di vita al femmnile che l’autrice documenta minuziosamente con molte immagini e ampie citazioni bibliografiche, non manca di rievocare la Legge Basaglia (n. 180 del 13/5/1978) attraverso i ricordi del giornalista Alberto Sinigaglia, pietra miliare per una nuova concezione della psichatria in Italia, partendo dalla chiusura dei manicomi. Ma prima di quella data l’autrice ci accompagna passo passo nei vari momenti di un’esistenza all’interno di alcuni manicomi, soprattutto quelli di Collegno (precursori furono i Regi ospedali psichiatrici di Torino), di via Giulio, detto anche “Albergo dei due pini”, di Savonera, la realtà di Grugliasco, e Villa Azzurra manicomio dei bambini. Diverse le citazioni di cartelle cliniche dalle quali emerge quasi sempre che bastava molto poco per far internare persone con problemi di diverso genere, non necessariamente affette da particolari disturbi psichiatrici, ma semplicemente ritenute ingombranti e da allontanare dal tessuto famigliare e sociale. Ma anche a tutte quelle pazienti che presentavano segni di “follia” non erano risparmiate umiliazioni e violenza… spesso all’oscuro della collettività. Tra le pazienti “celebri” nella sede di Via Giulio e in seguito a Collegno fu ricoverata Ida Peruzzi (1868-1922), moglie del celebre scrittore Emilio Salgari. Ricoverata nel 1911, molta provata da vicissitini famigliari, fu dichiarata affeta da mania furiosa con tendenza ad atti impulsivi che la rendono pericolosa a sé e agli altri, per  cui si è ritenuto urgente il ricovero; ma nella sua cartella clinica si faceva riferimento a “sogni specifici dell’alcolismo, il cui stato mentale comprendeva le voci “esaltata, gaia, logorroica, clamorosa”; meno significativo era il quadro relativo alla “vita psichica e affettiva”, sia pur in presenza di accentuati sentimenti religiosi. Ma se questo suscita un capitolo “storico-cultural-sociale”, altri non meno coinvolgenti sono quelli a cui la scrittrice ha dato non minore risalto, e riguardano tutte quelle pazienti affette sì dai sintomi di follia ma anche provenienti da situazioni famigliari di estrema indigenza e strato sociale ai margini. Una lunga parentesi è dedicata alla storia di Lucia Saltarin (1944-2017), un’artista (poetessa e scrittrice) un po’ sui generis, per 17 anni ricoverata nei manicomi torinesi perchè affetta da visioni e allucinazioni di tipo mistico, manifestazioni che sono assai ricorrenti nella malattia mentale. Questa tenera e vulnerabile persona, peraltro ben sostenuta dagli psichiatri come il prof. Annibale Crosignani, ha lasciato molto di sé come tutte quelle poesie che l’hanno accompagnata in quel lungo viaggio di “autoisolamemto interiore”, quindi un mondo in cui la stesura dei versi le consentiva di appagare il suo estro e la sua passione. Tra queste, mi piace citarne una dal titolo “ll sonno”, che testualmente ripropongo:

“(… Portami nelle grotte oscure/del tuo mistero/e mi perderò/ nel tuo essere/ finché insieme/ stretti nella stanchezza/ ci sentiamo perduti./E allora che farò?/Ti aiuterò, ma come?/Farò a te vedere che è bello/essere sperduti/quando si sa/che sono solo le apparenze/che non mi lasciano/oltrepassare l’angoscia/che ora provi”.

Bruna Bertolo

Bruna Bertolo

Ma altre pazienti ”illustri” sono ricordate dalla scrittrice come la scultrice francese Camille Claudel (1864-1943), sorella maggiore dello scrittore e diplomatico Paul Claudel; un’artista al centro di un “conflitto” familiare e sentimentale che però non attenua il suo senso artistico. Fu ricoverata nel manicomio di Montfavet. Rosemary Kennedy (1918-2005), nata con un lieve ritardo mentale, a 23 anni fu sottoposta a lobotomia frontale bilaterale transobitaria, con la conseguenza di una parziale emiparesi e ricoverata in un istituto psichiatrico nel Wisconsin. Nel ricordare Philippe Pinel (1745-1826) il celebre medico francese che nel 1793 liberò i malati dalle catene, e autore del primo trattato di psichiatria, poi completato dal collega Jean Etienne Dominique (1772-1840), la Bertolo non manca di dedicare un capitolo all’Elettroshock,  noto anche come terapia elettroconvulsivante che fu applicata per la prima volta nel 1938 ad opera dal suo fautore, il neurologo e psichiatra Ugo Cerletti (1877-1963), su un paziente presso la clinica delle Malattie nervose e mentali dell’Università La Sapienza. Una citazione tanto storica quanto doverosa perché questa, come l’intera opera dell’autrice, ci aiuta a comprendere vittorie e sconfitte della Medicina e della Psichiatria in particolare, ma soprattutto la fragilità dell’essere umano in particolar modo quando è la sua memte ad essere oggetto di studio e cura. Un libro da leggere perché la storia non mente, e con essa i travagliati vissuti dei suoi protagonisti all’interno del capitolo esistenziale.

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