I collegi ad internato per disabili

Villa Gualino (TO), dal 1955 al 1972 sede del collegio “Santa Maria ai Colli” della Fondazione Pro Juventute

Una realtà del passato ma che ha lasciato il “segno” nella memoria di chi l’ha vissuta

 

Sino a non molti anni fa l’handicappato affetto da una menomazione fisica o da un disturbo psichico, veniva internato in istituti o collegi; oggi, grazie ad una crescita civile e culturale, i collegi ad internato sono solo più un ricordo, mentre sono sorte le cosiddette Comunità (solitamene gestite da Cooperative sociali in convenzione con la Regione, il Comune o la Provincia). Una evoluzione che poggia le basi sulle più moderne concezioni pedagogiche e psicologiche, finalizzate a valorizzare al massimo il rapporto del disabile (minore o adulto) con la propria famiglia e la società; con particolare riguardo per i casi in cui la famiglia è “assente” e le cui veci (giuridiche e materiali, ma non affettive) sono demandate al tutore e/o amministratore di sostegno, e agli operatori della Comunità ospitante ai fini assistenziali. Ma tornando ai collegi (o istituti ad internato) quali erano le motivazioni della loro esistenza? Assai varie: riabilitazione della disfunzione fisica e/o psichica, istruzione, preparazione all’inserimento professionale e nella società. In alcuni casi non meno importante era la situazione familiare: prole numerosa, povertà, ignoranza, abbandono del soggetto ed infine assenza totale della famiglia e della parentela più prossima. Tra questi collegi (visti e analizzati con lo spirito dell’epoca) figurano quelli della Fondazione Pro Juventute Don Carlo Gnocchi.

Nel 1945, con l’ingresso (a seguito dei mutilati) dei poliomielitici ha avuto inizio una progressiva e radicale trasformazione dei collegi. Il minore colpito dalla poliomielite (oggi l’incidenza di questa patologia infettiva è quasi totalmente in estinzione anche nei Paesi in via di sviluppo) presentava problemi diversi dal soggetto mutilato, poiché l’affezione non poteva essere stabilizzata: variava continuamente in rapporto alla crescita, all’aumento ponderale e alle nuove prestazioni richieste del bambino che ne era affetto. Anche i soggetti colpiti da gravi paralisi, in cui il recupero anatomico appariva compromesso, il trattamento educativo era ritenuto di primaria importanza in quanto si cercava di orientare il recupero nell’ambito dell’autonomia della vita quotidiana. Secondo gli esperti, l’assistenza del poliomielitico in particolare, non doveva essere limitata alle sole sedute di rieducazione motoria (chinesiterapia, idroterapia, terapie fisiche, etc.), ma doveva essere continua e costante durante tutte le attività. Inoltre, il lavoro di assistenza doveva svolgersi in stretta collaborazione con tutto il personale dei diversi collegi distribuiti sul territorio nazionale; e questo al fine di acquisire una perfetta conoscenza di tutti i problemi inerenti alla riabilitazione del fanciullo minorato fisico. Subito dopo il loro ingresso nei collegi i poliomielitici venivano visitati e curati con criterio individuale, poiché ogni caso presentava problemi propri a seconda dell’età, della gravità e dell’epoca di comparsa della paralisi, delle cure già praticate o trascurate prima dell’ingresso nel collegio.

La maggior parte di questi disabili ricoverati negli istituti della “Pro Juventute” provenivano da famiglie prive di adeguati sostegni, non certo in grado di curarli sia dal punto di vista della rieducazione fisica (a quei tempi il Servizio sanitario nazionale non  prevedeva particolari forme di assistenza e riabilitazione per i disabili) quanto da quello psicologico. Recuperato o no fisicamente, ad ogni mutilato o poliomielitico doveva comunque essere garantita una adeguata istruzione, preludio ad un futuro ruolo attivo nella società. Visto il numero elevato di questi ospiti (già nel 1950 il collegio torinese ospitava 390 ragazzi), parte dei quali gravemente colpiti e pertanto impossibilitati a recarsi alle scuole pubbliche, nei vari collegi entravano in funzione le scuole dell’obbligo, corsi di ragioneria, avviamento commerciale e professionale affidati ad insegnanti governativi di ruolo. Se il primo tempo del recupero fisico ha dato sensibili riscontri individuali, la seconda fase ha creato valide prerogative per un risultato sociale.

L’impostazione dell’assistenza, professionale e sanitaria nel collegio di Torino “Santa Maria ai Colli” (ma anche in altri collegi) prevedeva che i mutilatini e i poliomielitici venissero avviati ad uno studio di carattere industriale e commerciale per conseguire un titolo di perito industriale o di computista. I meno dotati (anche se di età superiore ai 14 anni) partecipavano ad un corso elementare o “popolare”. Chi invece non aveva attitudini allo studio era avviato ad un’«arte»: meccanica, falegnameria, sartoria, calzoleria, legatoria, giardinaggio, agricoltura, etc. A tutti, oltre alla rieducazione fisica, veniva impartita una rieducazione morale, civile su basi pedagogiche e psicologiche le cui nozioni erano impartite dagli istitutori. La funzione educativa, che completava la formazione del giovane disabile, era demandata ad insegnanti ed assistenti (religiosi e laici), peraltro non sempre preparati e “predisposti” (soprattutto dopo la morte di don Carlo) al recupero del giovane ricoverato.

Villa Gualino (TO), dal 1955 al 1972 sede del collegio “Santa Maria ai Colli” della Fondazione Pro Juventute

In alcuni di questi collegi (oggi non più tali perché trasformati in centri di riabilitazione e cura di altre patologie, parzialmente o totalmente convenzionati con le Regioni), ove sono stato dal 1958 al 1965, in più occasioni si avvertiva la carenza pedagogica e psicologica degli istitutori e degli assistenti laici. Aspetto, questo, di rilevante importanza per i minori da rieducare, soprattutto perché ogni giovane assistito presentava problemi psicologici derivati da malformazioni causate dalla poliomielite e da minorazioni causate dalle mutilazioni di ogni grado. Gravità che lasciavano in ciascuno una traccia sovente visibile e indelebile. Il metodo del piano rieducativo, ad esempio, doveva essere determinato dalla convergenza tra la vocazione e l’attitudine dei religiosi e la dipendenza della minorazione psicofisica imposta dal trauma. Ma non sempre le direttive e le scelte volte a migliorare la vita collegiale hanno avuto l’esito sperato, sia per la mancanza di personale e la presenza contemporanea di oltre 300 assistiti ogni anno, sia per i particolari problemi che tutti gli assistiti presentavano.

Poiché gli educatori religiosi presenti all’epoca del mio internato erano numericamente insufficienti, la funzione gestionale ed educativa degli allievi richiedeva l’intervento di assistenti educatori (non volontari), solitamente giovani immigrati e studenti universitari, mantenuti e retribuiti sia pur inadeguatamente. Il contributo di questi ultimi ha alleviato di molto il lavoro e le responsabilità dei religiosi, ma in entrambe le figure, alcuni adottavano una disciplina eccessivamente rigida con conseguenze poco piacevoli per alcuni di noi, e questo non ha certo favorito il nostro “sereno” inserimento nella società. Pur ammettendo la presenza di soggetti particolarmente caratteriali (ma non per ragioni di ordine psichico), sono da sottolineare l’età adolescenziale e il prematuro distacco dagli affetti famigliari: condizioni queste, che hanno peggiorato in alcuni casi l’adattamento alla vita collegiale.

Oltre a questo importante aspetto psicologico, che ha coinvolto quasi tutti i giovani ospiti (compreso chi scrive), sono da rilevare le ristrettezze relative alle primarie necessità, come la mancanza di acqua calda anche nei mesi invernali; alimentazione scarsa e inadeguata; divieto di parlare nella maggior parte della giornata; punizioni (anche per piccole mancanze) consistenti nello stare in piedi contro un muro senza appoggiarsi (sovente il poliomielitico non sopportava a lungo la stazione eretta; ma anche il mutilato agli arti inferiori, specie se senza protesi); privazione della merenda, del cinematografo (unico svago settimanale); punizioni corporali, etc. L’elenco sarebbe interminabile, ma per ragioni di opportunità è preferibile andare oltre. Va da sé che il disabile, sia esso fisico, psichico o sensoriale, per quanto grave, non si realizza di certo vivendo in istituto, bensì nell’ambito familiare e quand’anche questo venisse a mancare, e possibile (io credo) rimediare individuando ambienti pseudo familiari, o assistenziali… Ma il giovane affetto da una qualunque forma di handicap dovrebbe essere temporaneamente “ospitato” soltanto per necessità terapeutiche, al solo fine di “potenziare” le sue residue funzioni fisiche e/o psichiche, per poi dimetterlo e reinserirlo nel tessuto sociale e familiare. Tale intendimento contribuisce certamente a far vivere una vita intensa a chi soffre, poiché tale esigenza è di gran lunga superiore ad ogni trattamento terapeutico adottato a qualunque età. Purtroppo rimane il problema del “dopo di noi” (già titolo di un movimento associativo), ossia quando il disabile grave, soprattutto se ancora giovane, resterà solo per la scomparsa dei suoi familiari: un momento “drammatico” della sua vita poiché nessuna istituzione o forma alternativa potrà sostituirsi agli affetti di un genitore…

Ernesto Bodini

(giornalista scientifico)

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