Fine vita: niente buona legge senza crescita culturale
Sul fine vita non serve una legge purché sia: occorre una buona legge. Ma cosa dovrebbe prevedere per essere tale? E quali i presupposti per arrivarci? Significative indicazioni le ha offerte il dibattito organizzato a Cagliari dal Comitato per il Mese dei diritti umani.
di Marcella Onnis
(segue dall’articolo Fine vita: perché in Italia una legge ancora non c’è)
Sabato 28 marzo 2015 si è svolto a Cagliari il dibattito pubblico “Fine vita: il diritto di decidere”, promosso dal Comitato per il Mese dei Diritti umani e organizzato dallo studio editoriale Typos. Come emerso dalle prime due parti del nostro resoconto, la società civile spinge per un intervento legislativo, ma questo tarda ad arrivare per difficoltà che in parte sono anche oggettive. Il tema, infatti, è delicato e bene ha fatto la senatrice Nerina Dirindin a mettere in guardia sul fatto che una cattiva legge può fare più danni di un vuoto normativo. A questo punto, però, occorre capire come debba essere strutturata una buona legge.
COME ARRIVARE A UNA BUONA LEGGE – La quadratura del cerchio non è facile, anche perché, come ha evidenziato il costituzionalista Daniele Piccione, «il tema dell’eutanasia è soltanto uno dei temi che riguardano il fine vita: è il compimento dell’atto sulla base della determinazione del singolo che riesce a chiedere ad altri o fare con altri ciò che in solitudine non potrebbe fare». Ma, ha aggiunto, esistono altre scelte che si possono prendere in vista dell’eventualità che in futuro si sia impossibilitati a decidere.
Il costituzionalista ha poi evidenziato i due quesiti che il legislatore non può eludere, se non a rischio di creare discriminazioni:
– le dichiarazioni di volontà sulla prosecuzione/interruzione delle terapie sono vincolanti o no?
– ci sono requisiti di validità per tali dichiarazioni?
Sia lui che la senatrice Dirindin hanno, inoltre, evidenziato che le norme in questione dovrebbero essere in grado di adattarsi anche ai casi in cui una persona prenda una decisione e poi all’ultimo voglia cambiarla o alle situazioni in cui la persona interessata sia impossibilitata a esprimere la propria volontà. E potremmo aggiungere il caso in cui un paziente voglia usufruire dell’eutanasia, ma il medico interpellato non voglia praticarla: obbligarlo a eseguirla contro coscienza sarebbe, infatti, irrispettoso quanto impedire al paziente di ottenere la morte dignitosa che desidera.
Un punto fermo per scrivere una buona legge, però, esiste ed è costituito da alcune dichiarazioni di Leopoldo Elia, costituzionalista e cattolico, ricordate da Piccione: «In questo delicato ambito dobbiamo cercare di capire non quale sia la verità rivelata ma di cosa abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di leggi facoltizzanti». Leggi, cioè, che non impongano divieti e prescrizioni, ma che consentano all’individuo di scegliere, ha chiarito il costituzionalista. Pertanto, una buona legge non può derivare da una concezione paternalistica e deve, al contrario, garantire il rispetto dell’autodeterminazione. Come ha detto bene Maurizio Pau, intervenendo nella parte del dibattito aperta al pubblico, «il legislatore deve dare la possibilità di scelta, senza imporre una sola visione a tutti. Questa è civiltà, questo è progresso, questo è amore».
Non mancano per giunta buone prassi da prendere a modello. Piccione ha citato il caso della Francia, dove di recente è stato approvato un disegno di legge che «di fatto ha inciso in modo molto forte sul fine vita». Tali norme individuano chiaramente i requisiti che consentono di indurre uno stato di sedazione profonda a un paziente che sia stato adeguatamente informato e che si sia dimostrato consenziente. In particolare, i trattamenti volti ad alleviare le sofferenze del fine vita sono considerati legittimi se la prognosi è infausta e se il paziente ha espresso legittimamente tale volontà.
NECESSARIA UNA CRESCITA CULTURALE – Per arrivare a una buona legge, però, anche la società civile deve fare un passo avanti. Non si può, infatti, negare che c’è ancora una minoranza di cittadini che fa resistenza e che fa da freno, per convinzione personale o per motivi elettorali, ad un’azione parlamentare. Questa resistenza, ritiene don Ettore Cannavera, nasce, innanzitutto, dal fatto che non per tutti la morte rappresenta veramente la fine della vita: secondo una certa lettura filosofico-ideologica lo è, ma secondo un’altra la morte è solo un passaggio verso una nuova vita. E per chi crede davvero in questo, ha affermato, ciò implica che «il momento della fine fisiologica della vita va vissuto con dignità». Ma definire cosa ciò concretamente significhi non è semplice. «Per me morire con dignità vuol dire sì alle cure palliative, che servono a lenire il dolore, e sì all’eutanasia passiva. Lo dice la parola stessa: buona morte. Non sono per l’eutanasia attiva» ha chiarito nelle repliche finali il sacerdote. Ma a pensare “Lasciami morire bene” si arriva «facendo un lavoro di accettazione della fine della vita», «un lavoro che va fatto prima, sin dall’inizio della vita». E che alla morte tendiamo a pensarci solo tardi, tendenzialmente quando se ne prospetta in concreto l’avvicinamento, lo attesta pure il fatto che tra il numeroso pubblico presente al dibattito i giovani fossero in netta minoranza.
Buona parte delle resistenze a una legge sul fine vita provengono dall’ambiente cattolico, impossibile negarlo, per cui le parole di don Cannavera, cioè di un membro dell’istituzione Chiesa, acquistano un peso fortissimo: «Come cristiano dico che bisogna affrontarlo questo tema». E va pure oltre: «Sono gli uomini di fede che devono combattere per il fine vita umano perché davvero credono che dopo ci sarà una vita senza lacrime e senza dolore». A suo tempo, ha raccontato, si dichiarò favorevole alla legge sul divorzio, al contempo puntando a educare sull’indissolubilità del matrimonio, che non può essere imposta. Stesso atteggiamento tenne anche per la legge sull’aborto e così fa oggi per il fine vita. Davvero una testimonianza preziosa, la sua, perché dimostra che se c’è una via che può consentire alla Chiesa di reggere il contraccolpo dei cambiamenti etici, è proprio questa: accettare il pluralismo e svolgere con rispetto e passione il proprio compito di evangelizzazione, ribadendo quelli che sono i valori della dottrina cattolica.
Il personale orientamento di don Cannavera nasce dall’idea che «della vita siamo amministratori, non padroni» e che «la vita non è tale solo in senso fisiologico, ma è tale se c’è capacità relazionale, perché Dio stesso è relazione». Per questo, ha affermato, «se non sono più in grado di entrare in relazione con gli altri, non posso più considerarla vita. La mia visione di credente è in una vita umana e piena di senso». Secondo il sacerdote, «è importante che ognuno abbia a monte la sua visione della vita prima di parlare di norme». Anche perché – come ha ricordato il consigliere comunale Gaetano Marongiu, facendo mea culpa – questo è un problema che ci riguarda tutti e non dovremmo aspettare di occuparcene solo quando concretamente ci tocca.
Come la senatrice Dirindin (ma probabilmente pensando a tempi meno biblici), don Cannavera ritiene che il cambiamento culturale sia «un processo che richiede tempo», ma necessario se si vuole arrivare davvero ad avere questa legge. «Dobbiamo fare un grande lavoro culturale per rispettare le diverse visioni della vita, che non sono solo quelle cattoliche» ha affermato, aggiungendo «il legislatore è reticente perché fa le leggi secondo il consenso che può avere». Occorre, pertanto, «lavorare sulla società» affinché comprenda che devono esistere norme che rispettino le diversità, lasciando a ognuno la possibilità di usufruire o meno di certe opportunità. Secondo don Cannavera «la legge sul divorzio è passata perché c’era il riconoscimento di questa diversità», per cui «questa cultura deve crescere. La legge ci sarà quando sarà la società a essere pronta».
NIENTE CRESCITA SENZA DISCUSSIONE E INFORMAZIONE – Non è un caso che il nostro resoconto si chiuda con questa testimonianza, stravolgendo la sequenza cronologica degli interventi. Come ha giustamente affermato Riccardo Laria, di professione medico, «Cannavera ha espresso le parole più laiche e illuministe», per cui è da qui che, a nostro parere, dovrebbe proseguire la riflessione di tutti noi.
Il dibattito di Cagliari ha dimostrato che il cambiamento culturale non solo è già in atto ma è anche piuttosto avanzato. Tuttavia, appare anche evidente che per vincere questa battaglia di libertà ci sia ancora un bel po’ da fare. Serve un ulteriore sforzo non solo per spingere il Parlamento a discutere e approvare una legge in materia, ma prima ancora per portare a compimento quella crescita culturale auspicata da don Ettore Cannavera.
In vista di questo obiettivo, nei saluti finali, Gisella Trincas ha invitato tutti ad un «rivederci presto, magari per ragionare su proposte da presentare in Parlamento», proposte che siano «coraggiose e rispettose», «che vadano verso l’autodeterminazione». E per una crescita culturale i confronti pubblici e, in generale, l’attività di informazione sono imprescindibili: senza conoscenza non si possono superare i preconcetti, senza conoscenza non sono possibili la comprensione e il rispetto dell’altro.
Foto Studio editoriale Typos