Fine vita: perché in Italia una legge ancora non c’è

Una legge sul fine vita è davvero necessaria in Italia o bastano Costituzione e sentenze? E se è necessaria, perché ancora non è stata approvata? Dal dibattito organizzato a Cagliari dal Comitato per il Mese dei diritti umani eloquenti risposte.

Locandina di un dibattito sul fine vita organizzato a Cagliaridi Marcella Onnis

(segue dall’articolo “Fine vita: la società è pronta, la legge no”)

Lo scorso 28 marzo si è tenuto a Cagliari il dibattito pubblico “Fine vita: il diritto di decidere”, organizzato dallo studio editoriale Typos e promosso dal Comitato per il Mese dei Diritti umani. Nella prima parte del nostro resoconto abbiamo parlato delle istanze provenienti dalla società civile, che avverte l’urgenza di una legge in materia, e dell’attuale quadro normativo, privo appunto di disposizioni sul fine vita. Ma una legge è proprio necessaria? La risposta non è immediata né scontata.

SULLA NECESSITÀ DI UNA LEGGE – «La Costituzione sul punto non è muta, anzi» ha spiegato il costituzionalista Daniele Piccione che, per prima cosa, ha citato l’art. 32, a suo parere molto trascurato in questo ambito: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Secondo alcuni, il richiamo all’interesse della collettività significherebbe che la salute non è nella disponibilità del singolo e che la società debba disporne secondo la morale ampiamente condivisa. Ora, secondo Piccione, la salute è un bene ed è un diritto soggettivo fondamentale, ma – ha precisato – è tale la salute, non la vita. E per una definizione di salute si è rifatto a quanto affermato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS): la salute non è privazione di malattia ma ricerca del benessere psico-fisico. A questo punto, ha proseguito, occorre dunque domandarsi come si possa conciliare questa ricerca con situazioni imposte nella parte finale della vita.
Il suo ragionamento si fa forte anche di altri elementi, quali l’art. 23 della Costituzione («che nessuno cita mai, ma offre risposte straordinarie sul tema»): «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». Ciò premesso, «esiste una legge che stabilisce la necessità di una terapia fino alla fine della nostra vita? La risposta è negativa».

L’intervento di Piccione ha trovato un’ideale prosecuzione in quello di Andrea Pubusa, docente di diritto amministrativo dell’Università di Cagliari. Questi è partito dal presupposto che «non è vero che sotto la Costituzione non c’è nulla» e per dimostrarlo ha esaminato il caso Englaro, sul quale si pronunciarono la Corte di Cassazione, una Corte d’Appello (a seguito di rinvio disposto dalla prima) e un giudice amministrativo. Tutte pronunce, ha spiegato, che dettano principi in grado di consentire la gestione di queste situazioni problematiche senza un intervento legislativo.
In particolare, la Corte di Cassazione (sentenza n. 21748/2007) si pronunciò sulla legittimità del cosiddetto atto di staccare la spina in presenza di due presupposti:
–          che lo stato vegetativo del paziente sia irreversibile in base a un rigoroso apprezzamento clinico e che non vi sia possibilità di recupero della coscienza (presupposto oggettivo);
–          che il paziente abbia espresso tale volontà o, nel caso non sia cosciente, che questa sia desumibile da precedenti dichiarazioni, da suoi convincimenti, dal suo stile di vita… (presupposto soggettivo).

A seguito di questa sentenza, la Corte d’Appello di Milano accolse la richiesta di Beppino Englaro di interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiali alla figlia Eluana. Tuttavia – ha ricordato Pubusa – la Regione Lombardia emanò un atto amministrativo con cui vietava alle strutture sanitarie lombarde di acconsentire a tale richiesta. Questo atto «eversivo e illecito sul piano penale, perché le sentenze devono essere applicate, tanto più dalle pubbliche amministrazioni» spiega l’intervento del Tribunale amministrativo regionale nella vicenda: Englaro dovette, infatti, impugnarlo in tale sede, ottenendo dal giudice amministrativo una pronuncia (TAR Lombardia-Milano, sez. III, sentenza n. 214/2009) in cui si afferma che nel nostro ordinamento è un diritto costituzionale rifiutare le cure. Non solo: si tratta di un diritto di libertà assoluta, incomprimibile, da cui derivano il dovere di sospendere i trattamenti terapeutici inutili e il divieto di imporli a chi li rifiuta. Dunque, «in base al diritto vigente, nelle strutture sanitarie si può rifiutare l’accanimento terapeutico, ma questa non è la cosiddetta eutanasia». O, meglio, non è l’eutanasia attiva. Come ha chiarito don Ettore Cannavera nel suo intervento, infatti, ne esistono due tipi: quella attiva, in cui si chiede di morite, e quella passiva, in cui si chiede di non accanirsi con terapie inutili.

Secondo Pubusa, in questi principi affermati dalla giurisprudenza «ci sono gli elementi per fare un passo in avanti, però esistono due problemi»:
– «la Corte costituzionale afferma principi innovativi quando la società è pronta per recepirli. Di solito non introduce principi di rottura». E «un salto per via giurisprudenziale è difficile perché nella società c’è ancora in atto una discussione sul tema»;
– «il fine vita non coinvolge solo profili di carattere etico, ma ha anche conseguenze pratiche molto rilevanti di cui occorre tenere conto» e ha fatto l’esempio delle diatribe per questioni di eredità, miserevole ipotesi con cui, purtroppo, bisognerebbe spesso fare i conti. Ciò premesso, ha proseguito, «se non si vuole attendere che sia matura la coscienza sociale e che i giudici la recepiscano, è necessario un intervento legislativo: serve una legge che possa offrire garanzie giuridiche».

Già prima di lui, infatti, Marco Cappato, dirigente dei Radicali italiani e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, aveva fatto presente che «sulla carta sarebbe già possibile per qualunque paziente interrompere terapie anche vitali», ma che «nella pratica è comune sentirsi dare una risposta negativa». Servono dunque delle norme perché, come ha ricordato, non tutti hanno le conoscenze necessarie o la possibilità di affidarsi a un avvocato per affrontare una causa, come ha dovuto fare Beppino Englaro.

LA RESPONSABILITÀ DEI POLITICI – Ma perché il nostro Paese ancora non si è dotato di una legge sul fine vita? Antonello Murgia del Comitato per il Mese dei Diritti umani ha parlato di una resistenza alle istanze provenienti dalla società civile figlia di un atteggiamento paternalista e iperprotettivo del legislatore, convinto di dover proteggere i cittadini e di dover decidere per loro. Un atteggiamento che, a suo parere, risente di una certa concezione religiosa o, meglio, di un «malinteso senso della religione», come di fatto ha dimostrato il successivo intervento di don Ettore Cannavera, fondatore della comunità La Collina.

Tale concezione è contestabile per vari motivi. Innanzitutto, perché non tutti sono credenti (e anche quelli che lo sono non condividono lo stesso credo). In secondo luogo perché, come ha giustamente affermato Cappato, «il compito dello Stato non è definire una scelta come migliore delle altre, ma consentire a ognuno di fare la sua scelta». E sul punto ha ribadito il massimo rispetto per tutti i punti di vista, in particolare per quello di chi vuole vivere fino alla fine il proprio calvario, aggiungendo poi che «qui non si tratta di essere estremisti, ma semplicemente di voler evitare ai malati che non se la sentono di affrontare ulteriori inutili sofferenze». In terzo luogo, perché questo orientamento secondo cui è possibile sacrificare inclinazioni individuali in nome di un interesse superiore e conforme alla morale dominante contrasta fortemente con l’art. 2 della Convenzione di Oviedo per cui «L’interesse e il bene dell’essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società o della scienza».

L’onere di motivare, suo malgrado, l’inerzia del Parlamento in materia è toccato a Nerina Dirindin, senatrice del PD, membro della Commissione Sanità del Senato ed ex Assessore regionale alla Sanità durante la Giunta Soru. L’onorevole ha confermato che al Senato la discussione sul tema non è stata ancora avviata, precisando però che questo non significa che alcun senatore abbia iniziato una propria riflessione. E sicuramente molto riflessiva e cauta si è rivelata la sua posizione: «Su temi così complessi non possiamo rischiare di avere una cattiva legge. Piuttosto che questa, meglio una riflessione, perché una legge inadeguata potrebbe fare del male». E il rischio di una cattiva legge è alto: «Su temi così “divisivi” c’è la possibilità che alla fine nasca una legge che risente della necessità di ottenere la maggioranza dei voti».

Dirindin ha poi proseguito chiarendo che, anche ammesso che si possa arrivare a una legge buona («non ottima, perché di ottimo non c’è quasi niente»), resterebbe il problema dell’applicazione. E che questo problema esista in Italia, purtroppo, non ci dovrebbe neppure essere bisogno di ricordarlo. Secondo la senatrice, affinché l’eventuale buona legge possa essere applicata serve un cambiamento culturale, non solo tra gli operatori sanitari (prima di lei don Ettore Cannavera ha ricordato che, tendenzialmente, «il medico ha questa visione per cui deve fare di tutto per tenere in vita il paziente») ma anche tra la popolazione. A suo parere, infatti, le difficoltà per l’approvazione di norme sul fine vita sono aumentate «per effetto del crescente mito della medicina che sfida la morte». Se, infatti, il desiderio di morire senza soffrire e lo sviluppo di relativi metodi è sempre esistito, «oggi siamo quasi prigionieri dell’idea che la medicina sia così specializzata da poter curare la malattia (la malattia, non la persona) per cui va lasciata fare».

Un primo passo da compiere, a suo parere, dovrebbe essere «lavorare perché le cure palliative siano riconosciute pienamente in questo Paese e considerate un diritto. Serve un movimento culturale della società civile per rivendicare quel diritto», il che significa anche chiedere che siano destinate a tali cure le necessarie risorse economiche e umane. Inoltre, «occorre ribadire il diritto a rifiutare l’accanimento terapeutico, che peraltro viola l’art. 23 della Costituzione», come già ricordato da Daniele Piccione. «È questo il primo diritto che deve essere riconosciuto non da una legge ma tra i professionisti della salute» ha ribadito, perché «spesso le persone chiedono di non soffrire inutilmente» ed è ciò che «dobbiamo garantire ad ogni persona».

Per quanto riguarda poi il contenuto di un’eventuale legge sul fine vita, la senatrice la immagina molto flessibile, priva di imposizioni, in particolare sulle procedure, e volta a riconoscere  il diritto delle persone di essere accompagnate a morire in maniera dignitosa. Un diritto che questa legge dovrebbe «essere capace di garantire con delicatezza e senza essere intrusiva», in modo da adattarsi alla molteplicità di situazioni che possono presentarsi. Ed esclude, pertanto, una legge che debba essere applicata in modo rigido.

pubblico presente a un convegnoCome aveva preventivato, il suo intervento non è stato gradito da gran parte del pubblico, in particolare per la conclusione («Forse non sono maturi i tempi per una legge»). La contestazione di alcuni, però, è stata più che vivace, oltrepassando il limite dell’educazione e forse del buon senso. Infatti, come ha ricordato in particolare Gisella Trincas, presidente dell’Asarp, l’incontro è stato pensato nel segno del rispetto dei diversi punti di vista. In secondo luogo, sarebbe stato opportuno tenere ben presente che, come specificato dall’interessata, nel suo intervento ha parlato a titolo personale e non del proprio partito, peraltro premettendo di non sentirsi «in grado di intervenire con gli approfondimenti necessari» (anche se, come membro della Commissione Sanità, forse avrebbe già potuto/dovuto interessarsi della questione…). In terzo luogo, se è giusto e sacrosanto ricordare ai politici l’urgenza di provvedere per superare situazioni insostenibili e drammatiche, è anche giusto rendersi conto che governare, ossia prendere scelte che medino tra interessi molteplici e spesso contrapposti, è molto più facile a dirsi che a farsi. Come ha chiarito la senatrice nelle repliche finali, infatti, «i parlamentari devono comprender il volere della gente e tradurlo in fatti, che non è solo fare le leggi, ma anche far sì che quelle esistenti siano applicate». Pure per questo ritiene che «il tema vada affrontato in tutta la sua complessità e che non vi siano strade semplificatrici».

Preoccupato per le sue parole, in particolare per il fatto di non aver prospettato una soluzione, si è dichiarato anche Andrea Pubusa, che ha preso la parola dopo di lei: «Il problema è ormai maturo nella società italiana perché venga affrontato. Mi preoccupa che in un gruppo così importante non ci sia una linea di intervento. Chi si assume incarichi pubblici dovrebbe essere in grado di dare risposte».

A difesa dei politici e, in particolare del suo partito, è intervenuto, nella parte del dibattito aperta al pubblico, Renato Soru, ex governatore della Sardegna, ora segretario del PD regionale ed europarlamentare. Le sue parole ci portano a domandarci se a questi politici – almeno qualche volta – davvero non si possa concedere il beneficio del dubbio: «Io e il PD consideriamo questo un problema importante, ma viviamo un tempo dove non abbiamo una risposta per tutto. Invidio chi ha le risposte in tasca: io sto studiando per averle». Poi ha annunciato che il suo partito intende organizzare un dibattito sul tema, ma ha anche ammesso che i fatti non arriveranno a breve: «Siamo dentro quel percorso di una società che deve avanzare, ma per la politica che vuole rappresentare tutti è complicato». A suo parere, inoltre, «a legislazione vigente c’è moltissimo che possiamo fare», «il che non significa che non abbiamo intenzione di fare niente per il futuro» si è affrettato ad aggiungere. Che sia davvero la volta buona almeno/anche per questo? Certo è che fin quando il Parlamento non comincerà a discutere della proposta di legge già presentata o di altre iniziative in materia, dubitare della buona volontà dei nostri politici sarà legittimo.

(continua con l’articolo Fine vita: niente buona legge senza crescita culturale)

 

La foto del pubblico presente al convegno è dello Studio editoriale Typos

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