Quando Francesco Cossiga era ministro dell’interno avevo 21 anni, due anni in più di Giorgiana Masi, la studentessa radicale uccisa a Roma, durante un sit-in, il 12 maggio 1977. In quell’occasione fu Cossiga a far schierare circa 5000 poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, affiancati da agenti in borghese, alcuni dei quali in versione autonomi. Anche se, in seguito, il presidente emerito modificherà la sua versione dei fatti, negando le sue responsabilità sino a che, costretto dall’evidenza, ammetterà la presenza di squadre speciali, nelle quali si riconosceranno: l’agente della squadra mobile Giovanni Santone e il commissario Gianni Carnevale. Ma l’allora ministro dell’interno continuerà sempre a negare che la polizia abbia sparato, anche se testimoni, immagini di filmati e foto lo smentiranno in pieno. (Le indagini dell’inchiesta sull’omicidio di Giorgiana, terminarono con l’archiviazione, perché “i “responsabili del reato erano rimasti ignoti”, così scrisse nella sentenza il giudice istruttore Claudio D’Angelo, ci furono poi ulteriori indagini ma senza risultati rilevanti). Mi sembrava doveroso ricordare questo fatto, uno tra i tanti, ma non certo l’unico, che fa parte dell’operato, spesso controverso, di questo statista “picconatore“, con molti “sassolini nella scarpa” ancora da togliere; uno statista che non ho mai apprezzato, anche se per l’uomo che se n’è andato, ovviamente, la pietas è d’obbligo. Nel ’77 Cossiga non era amato, non certo dalla sinistra extraparlamentare e dai radicali che ancora non facevano parte dell’arco costituzionale. Ricordo i vari Cossiga scritti con la K sui muri di Roma o con la doppia S come svastiche naziste, ma il presidente sassarese era un tipo che apprezzava l’ironia, per questo probabilmente titolò la sua autobiografia “La versione di K”. Nemmeno Aldo Moro lo amava troppo, anzi fu proprio lui ad accusarlo nella sua prima lettera dalla prigione brigatista, di sacrificarlo per chissà quale concetto di legalità. Non è mai stato in una posizione facile, Cossiga, nemmeno quando sembra abbia consigliato al compagno di partito, Carlo Donat Cattin, di far scappare il figlio Marco, militante di Prima Linea, indagato per qualche omicidio di troppo. E non è stata facile la sua posizione di ottavo presidente della Repubblica, con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, che come scriverà nella sua autobiografia, riguardava anche chi il comunismo l’aveva combattuto. Proprio come aveva fatto lui. Da lì il desiderio di voler riformare le istituzioni, ahi, ahi qui non era il solo a volerlo fare, prospettando un governo di tipo presidenziale. Desiderio comunicato alle camere, bocciato da Andreotti, ma controfirmato da Martelli, allora ministro di Grazia e Giustizia. Desiderio rischioso secondo Achille Occhetto, segretario del PDS, ex PCI, che intravide nel desiderio del presidente, un regime molto diverso da quello costituzionale, insomma gli sembrò quasi un tentativo di eversione che lo spaventò, tanto che fece una richiesta di impeachment contro di lui. Strano uomo Cossiga, un enigmatico che ogni tanto tirava fuori qualcosa di nuovo, facendo tremare i vari politici di turno con le sue esternazioni, le sue dichiarazioni che a volte parevano non sense. Ma siamo sicuri che Francesco Cossiga, più o meno popolare, più o meno simpatico, non abbia giocato a fare un po’ il matto per raccontare le sue verità scomode a molti? Forse sarebbe interessante scoprirlo, basti pensare alle 4 lettere che il defunto presidente ha fatto recapitare alle principali cariche dello Stato. Un nuovo enigma da risolvere e gli ultimi quattro sassi lanciati poi non tanto lontano…Francesca Lippi
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