Chi di noi non è rimasto sorpreso ed interrogato dalla pagina biblica nella quale un gioioso leitmotiv scandisce e suggella ogni giorno della creazione e che recita: “ E Dio vide che era cosa buona… E Dio vide che era cosa buona.. Gen 1,10,  e che diventa, poi, al termine del capolavoro, una sobria ed efficace perizia conclusiva: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” Gen 1,31.

È eccessivo parlare di stupore, di soddisfazione di Dio di fronte alla bellezza riuscita ed uscita dal soffio della sua parola?

Dalla materia informe e dalle tenebre, la vita e la bellezza.

Dallo Spirito di Dio che aleggia sulle acque primordiali, la molteplicità feconda delle creature e l’armonia del cosmo.

La bellezza e la perfezione e la significatività dell’infinitamente grande si  ritrascrive e si entusiasma nell’infinitamente piccolo. E nell’infinitamente vario.

Il mondo è una creatura viva e sin dalla sua origini porta impresso l’amore che lo ha chiamato ad esistere e la vivacità, il dinamismo ed il fascino di esperimentarsi e crescere in un’avventura tragica ed esaltante. Fatta di luci ed ombre. E di morte che apre alla vita.

E nel cuore della sua sostanza abita e vive una presenza provvidenziale e consapevole di quanto accade. Presenza dotata di spirito e di parola deputata a condividere la stessa avventura della terra come pelle della sua pelle, radice delle sue radici e l’amerà e se ne prenderà cura: l’uomo!

Dio prese l’uomo e lo pose in un giardino perché lo coltivasse e lo custodisse” Gen 2,15.

Non solo. La responsabilità fiduciaria depositata in lui, diventa alleanza di Dio con la terra ed ogni essere vivente.

L’uomo e la terra incamminati  verso lo stesso traguardo, i piedi calzati dal tempo e dallo spazio attraverso i quali e nei quali è tenuta viva la lucida inquietudine per un tempo che va oltre il tempo ed uno spazio che sfocia oltre i limiti sensoriali.

Infinito ed immensità.

Infinito ed immensità: pallidi richiami ad una suprema alterità che è solo di Dio e che pure, da sempre, ardono e premono nel cuore delle creature come anelito al compimento  promesso di estasi e di grazia cui sono vocati.

Vita in cammino verso la cosmica bellezza disvelata, la verità che scalda, l’infinito che sazia, l’immensità che placa.

Il pegno custodito che attende il suo rigoglio.

L’oltre come fioritura piena dell’alleanza d’amore tra la terra ed il suo Creatore.

Per  intanto, e nel travaglio dell’avventura storica che li coinvolge, le leggi nascoste  della biologia e della fisica si offrono all’intelligenza ed al vaglio degli uomini per l’efficacia comprensione e tutela dell’universo vivente loro affidato.

Evoluzione dello spirito e dell’intelligenza umana. Dinamismo rivelativo della materia. Insieme.

Si direbbe quasi lo svelamento progressivo di quell’attiva consapevolezza cosmica racchiusa nell’iniziale “molto buono” di  Dio.

Il molto buono che ha un sigillo, una direzione, una certezza:  l’epifania e la comunione di vita e di destino con il mondo dell’Uomo-Dio, Gesù di Nazareth.

Paolo, l’affascinato ed innamorato di Cristo, intuisce la ricapitolazione cosmologica come evento cristologico: “… la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità-non per suo volere  ma per volere di colui che l’ha sottomessa- e nutre la speranza di essere liberata lei pure dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” Romani 8,18-25, perché alla fine, e nonostante, “Dio sia tutto in tutti” 1 Cor 15,28.

Cristo nel mondo. Cristo per il mondo. Cristo primizia di quello che sarà.

Le esperienze religiose di tutti i tempi, sedimentazioni e luoghi di incontro di terre e di culture nella storia, hanno da sempre intuito la comunanza di destino dell’uomo e della terra. Dell’uomo e di tutte le forme viventi. Nessuna esclusa. In virtù di una comune origine che è solo divina. O presentita come tale.

Esperienze che portano, ognuna, una specificità rivelativa sorprendente e che, insieme, costituiscono la ricchezza diversa e preziosa di uno stesso diamante che cattura i segreti dell’unica luce.

Gli indiani d’America hanno intuito e maturato il carattere sacro e spirituale della terra e lo hanno custodito in una visione olistica all’interno della quale l’uomo è parte integrante, mai contrapposta.

La religione induista ha compreso e donato alle altre culture religiose l’istanza dell’equilibrio dell’uomo con il cosmo ed il suo connaturale ed intimo legame alla terra.

La mistica tibetana ha sottolineato la valenza terapeutica dell’amore e della compassione universali, intesi come condivisione del dolore e cammino solidale  verso la luce, e lo

scintoismo la trascrizione pragmatica della sacralità della natura e la forza della socialità etica.

Ovunque ed in ogni parte del mondo, attraverso una ricerca incessante e spesso tragica ed incompresa, la mistica contemplativa e poetica ha intuito e custodito quello che i trattati di teologia  e le catechesi non saprebbero mai dire: la bellezza e la dignità di essere coinquilini nell’universo accanto e a pro di tutte le creature che ci affiancano. L’uomo creatura fra le creature. Parte della vita.

È così!  È affascinante!

Ce ne stiamo dimenticando? Ci stiamo allontanando da questa verità di senso delle cose e del mondo? Che ne è del giardino che ci è stato affidato? “Dio prese l’uomo e lo pose in un giardino perché lo coltivasse e lo custodisse” Gen 2,15.

In occidente, come è ancora rintracciabile, ci accompagna una visione religiosa che fa dell’uomo il dominatore del cosmo, più che il responsabile amministratore di una ricchezza confidata.

E più ancora, oggi, paghiamo lo scotto ad una pretesa cultura tecnologica che promette l’esaustiva soddisfazione dei bisogni degli uomini e delle donne della terra, ma ignora le eterne ed ineludibili domande esistenziali.

Ed è urgente cambiare.

Una consapevolezza nuova percorre il pianeta. L’istanza di recuperare il solidale rapporto con la terra diventa ogni giorno più forte ed inderogabile. Ed avanza, spesso faticosamente, a contrastare il moltiplicarsi di disastri ambientali da far tremare i polsi e, sovente, tacitamente prosperanti. Ad aprire gli occhi su veleni gettati ed occultati, soprattutto in alcune nostre regioni, ad inquinamento delle risorse primarie nei mari, fiumi, terra, aria; su predazioni che dilatano i deserti e condannano alla fame uomini ed animali. Ad additare la protervia di assalti all’ambiente da parte di una delirante logica speculativa e cementificatrice ed i veleni del vandalismo e dell’immoralità politica, diventati moda, che ignorano i diritti del bene comune della comunità civile e dispensano impunito degrado umano e materiale.

Interi ecosistemi sono già distrutti sul pianeta e  molte foreste e fiumi sono in agonia. Allevamenti intensivi indegni dell’uomo mortificano ed offendono la vita e le sperimentazioni su animali perpetuano i lager per il solo satollamento del mercato dell’effimero, in palese violazione dei diritti conclamati. E animali  sono sacrificati  per squallidi combattimenti o per soddisfare i nuovi pruriti di sagre paesane.

Abbiamo allargato e spremuto all’estremo le nostre pretese sull’ambiente. Abbiamo centuplicato i nostri bisogni ma abbiamo anche ridotto l’ossigeno ai nostri sogni, collassato i nostri orizzonti, rese insipide la nostre relazioni, oscurato il futuro delle venienti generazioni, ingranato l’inarrestabile dileggio alla vita della terra.

Perché?

Possiamo invertire la rotta. Dobbiamo. Dobbiamo ristabilire l’alleanza con la terra.

Riscopriamo. Riconosciamo. Rispettiamo i diritti della terra in ogni sua creatura, in ogni suo dono.

Riaffermiamo il diritto alla sacralità ed inviolabilità delle sue risorse primarie destinate ad ogni creatura.

Il diritto alla bellezza ed alla sua insopprimibile potenzialità poetica per cui la terra è a noi mentore e grembo nel mentre ci conduce alla scoperta del nostro territorio interiore e spirituale. E nel groviglio di vita che ci attornia, ci consente di guardare con i suoi occhi, viandanti interrogati da ogni cosa, osservati da ogni cosa, accolti da ogni fremito, salutati da ogni fruscio di vento, afferrati da ogni odore, provocati da ogni umana passione, avvolti da ogni parte da sola e pura gioia di esistere che si fa canto e ci sorprende e muove, alfine, alla traccia antica ritrovata che accende memoria e domanda: “qual è il tuo nome? Quale?”.

Come agli inizi.

Il  lavoro primordiale mai concluso.

Il disvelarsi nel nome di ogni vita.

Bellezza riscoperta. Bellezza che si comunica.

Bellezza e potenzialità poetica fatta di terra e di cielo. Di abissi ed altezze. E che  non rinuncia in noi ad inseguire una memoria antica che ci sveli.

Terra che ci esalta e solleva ed allevia nella magia di cieli popolati di battiti d’ali attorno e nel grigiore delle nostre convulse città.

E nella maestosa  e solitaria eleganza del volo d’aquila che tutto domina ed osserva con ali di cielo e tocca la terra quanto basta.

E nel canto di sorgenti ed acque, impagabili custodi della vita, che afferrano l’anima e la ritemprano.

E nel fulgore intrigante della luce del sole che spia ed accompagna il nostro sguardo nel mondo sommerso lasciandoci  insaziata curiosità circa la sapienza dispensata negli abissi.

E nel vento signore dell’etere conciliatore di distanze.

Poesia di terra che ci accompagna e nutre la tensione a salire, passo dopo passo, versante dopo versante fino alla vetta solitaria dove ti avvolge il respiro del cielo e dove, insieme ad un assaggio di bellezza serena delle altezze, ci è regalata l’ebbrezza  mistica di toccare la nostra infima ed armoniosa piccolezza in una immensità abitata e sbalordita.

Parole di terra che ritmano la corsa verso il ritrovato colle dell’infanzia. Colle a lungo custodito come unico e solo, ma che si rivela, dopo, come la soglia di un altro colle, e di un altro, e un altro ancora sì che il cuore muove incalzato da una domanda: “e oltre … cosa c’è oltre … cosa?!” Oltre i colli e il fiumi della natia terra, cosa? Forse solo la rivelazione e la familiarità di radici amate che non ti hanno mai abbandonato.

Non distruggiamo in noi l’istinto allo stupore.

Torniamo a stupirci della terra.

La terra che ci accoglie  è dono. Dono e grazia. Grazia multiforme, inesauribile e benedetta.

E tutti noi, ospiti e pellegrini, siamo  dentro una liturgia di lode che il pianeta celebra per il suo Creatore. Un canto d’amore che si leva incessante da ogni vita ed è sinfonia di voci di terra, di cieli, di stelle, uomini, alberi, acque, orso, formica, libellula, amicizia, amore, misericordia, perdono, morte..

Una complice dialogia di forme e di suoni e di fremiti di puro esistere che conserva indelebile nella sua sostanza la memoria viva della sua origine. E la testimonia.

E la diffonde. E la canta.

Il canto della vita benedetta in noi.

Non spegniamo in noi il canto della vita.

E non consentiamo ai distruttori  liceità di farlo né l’impunità ai compiacenti. Ovunque essi siano. Comunque si nascondano.

La vita irrimediabilmente distrutta impoverisce e dissecca le nostre stesse radici umane  e contraddice la finalità del mondo che è “il fiorire stesso della vita in tutte le sue forme” (G.Vannucci).

L’imperativo etico urgente si chiama sostenibilità ecologica dei nostri stili di vita. Essa si declina necessariamente con una rinnovata e  rispettosa relazione con la terra e le sue risorse.

Ora. A cominciare da noi. Da noi e da tutti.

Riscopriamo che la terra non dona solo pane ma fa memoria di un inizio di gratuità e di senso.

Non è solo abitazione ma è anche rivelazione dell’immensità di un amore nel quale siamo immersi e per il quale tutte e ciascuna creatura esiste come dono all’altro.  Unicamente  dono.

Emanuela Verderosa

 

Latina, ottobre 2012

 

 

Foto di Michele Porcu

 

 

 

 

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