Storie fantastiche dal cratere aquilano: “La casa dei nonni”

la fontana luminosa a L'Aquila

Riceviamo e pubblichiamo:

 

– Stanza 326, prego… al terzo piano.
– E buona serata.

Aprì la porta della sua camera d’albergo, e accese la luce, subito, nella penombra della sera di settembre, ancora calda, di un giorno pieno di sole.
Poggiò la valigia ai piedi del letto. E si guardò intorno.
Uno specchio orizzontale era posizionato su una parete laterale, rispetto al letto, e rifletteva l’umore rossastro del cielo. Andò ad aprire la finestra.

la fontana luminosa a L'AquilaNella piazza, sotto di lui, la fontana era circondata da una leggera impalcatura di plastica, come un muro sottile, che riproduceva i disegni originali delle due statue, nude, che reggevano una grossa conca. Non c’era acqua, nella fontana. Era tutto spento. Il gesto delle due donne, dal corpo lievemente arcuato, sembrava quasi l’accenno di una caduta; la perdita di un equilibrio, l’istante prima di un crollo. Alla sua destra, due palazzi gemelli, facevano da ingresso ad una strada di acciottolato, che s’ingrigiva, col buio dell’orario. Quello più vicino, era abbandonato. Vistose crepe ne percorrevano l’intonaco sudicio, e i marmi delle finestre, anneriti di smog. Il colore era sbiadito come un lenzuolo abbandonato per anni al sole.
L’altro invece, sormontato da una potente gru, che occupava in parte la piazza, era, a sua volta, cinto da una recinzione che, dall’alto, appariva fatto di legno pressato; usata per affiggervi sopra manifesti di eventi, di spettacoli. Appariva quasi del tutto ristrutturato, anche nei colori, carichi e rugginosi, dell’intonaco nuovo. Sembravano, il Buon Ladrone, e il Ladrone Cattivo, lacero e sconvolto, ai fianchi di un Crocefisso invisibile e colmo di dolore.

Di fronte al suo sguardo, si stendeva un Parco, attraversato da sentieri di ghiaia sottile, da una scalinata, ampia e bassa, di pesante e stonato cemento, sormontato dall’ombra degli alberi e dal profilo delle mura del Castello cinquecentesco.

Sorrise, Paolo.
Se anche avesse lasciato aperte le finestre della sua stanza, da laggiù, nessuno, avrebbe potuto guardarci dentro. E, se anche qualcuno lo avesse fatto, nessuno avrebbe potuto riconoscere, in quell’uomo di oltre cinquant’anni, il ragazzo che trent’anni prima era andato via da L’Aquila, dopo la morte dei suoi genitori in un incidente stradale, per cercare un lavoro in Piemonte.

La stanza dell’albergo, aveva un’aria di confortevole estraneità.
L’armadio, cigolante, aveva un altro specchio, al suo interno, inchiodato ad una delle ante, e quattro o cinque stampelle appese. Una diversa dall’altra, dove poggiò un paio di giacche e il pantalone di ricambio che si era portato, insieme alle tre camicie, piegate, che ripose dentro uno dei cassetti del mobiletto al fianco dell’armadio, sul cui fondo, era poggiato una sorta di piumone per il letto, a disegni fiorati, color nero, giallo e bronzo, che faceva male agli occhi solo a guardarlo.
Tirò fuori il cuscino dal copriletto, e lo appoggiò sulla spalliera di legno del letto. Si stese, tenendo ancora le scarpe ai piedi, e mise le mani sotto la testa; guardò il soffitto.
Una plafoniera polverosa, di un rosa vecchio, mandava una luce giallastra.

Paolo raccolse, per un attimo, i pensieri, respirando, e si sentì leggero.
Essere a L’Aquila non lo impegnava in alcun modo.
L’indomani mattina avrebbe visitato la vecchia casa dei suoi nonni.
Il nonno, Massimo, era deceduto circa un mese prima, quasi centenario. E Paolo era stato contattato da un geometra, che s’era qualificato come “amministratore dell’aggregato”, di cui la casa dei suoi nonni faceva parte, in Centro Storico.
Poi, a tempo debito, avrebbe proceduto alle azioni necessarie a metterlo in vendita. Quella casa era l’unico legame che ancora gli restava con la città dove era nato. Forse, solo qualche volto giovane, sfocato dal tempo trascorso, gli restava nella memoria.

Si alzò tardi, dal letto, il mattino dopo.
Non aveva dormito quasi per nulla. Tenuto sveglio dall’aria nuova. Dall’attesa del mattino.
La notte era trascorsa buia, senza luci, come una tenda che si chiudesse ermetica sulla coscienza di sé. Ma non gli pesava, addosso.
Lasciò il letto disfatto, con le sue lenzuola secche, quasi come l’accappatoio che trovò al lato della cabina di plastica opaca della doccia. L’odore era disinfettato, leggermente dolce. Restava sulla pelle.
Prese un caffè nel bar dell’albergo. Senza mangiare nulla, e uscì, nel mattino, fresco di tramontana e luminoso. Nel cielo, ogni angolo, sembrava denso di sole; era un azzurro che piegava gli occhi.
Cui era disabituato.

Percorse via Castello, tenendosi sul marciapiede al fianco del Parco.
Guardava in terra, attento a non inciampare, nell’asfalto spezzettato, nelle buche di terra inattesa, negli scheletri di plastica aperta, di vecchie trappole anti-topo.
Ogni volta che alzava lo sguardo, mentre si dirigeva verso Porta Castello, osservava, dall’altro lato della strada, i palazzi in parte ristrutturati. Di qualcuno s’intravedeva uno splendido soffitto a cassettoni in legno, dalle finestre leggermente aperte.
C’erano negozi, al piano terra. Aperti, come occhi stropicciati d’incredulità al mattino.
Un fruttivendolo, un bar, una libreria, una copisteria, un negozio di abbigliamento per bambini. E portoni alti di legno chiuso. Dalle nervature nude senza più vernice. Sembravano non potersi aprire mai più. Attraversati da pesanti rotaie in ferro, come una gabbia che sostenesse sassi senza più forma, smottati, come dopo una alluvione feroce.

Arrivato alla Porta, girò a destra, senza riconoscere più gli angoli di strada che aveva lasciato tanti anni prima. Palazzi rinnovati, o in ricostruzione, perché abbattuti. Impalcature e gru. Marmi da cimitero sulle facciate.
Ma, ricordava, la strada quasi parallela a via Castello.
Aveva il nome di una città della Prima Guerra Mondiale. Via Vittorio Veneto.

Alla sua sinistra, una palazzina con una scalinata alta, in pietra, che conduceva all’ingresso. Serrata da una grata di ferro completamente arrugginito. L’ocra dell’intonaco esterno, dilavato, colava sulle pareti come un sangue ferito. Interrotto dalle grandi finestre, con le persiane in legno, aperte sul silenzio.
Alla sua destra, palazzi nuovi, ricostruiti. Qualche cartello che avvisava di appartamenti in vendita, e finestre chiuse. Altre, aperte. Uno stenditoio, con i panni stesi ad asciugare.
Ancora, a sinistra, la colonnina grigia, di un parcometro ormai del tutto inservibile. La strada era colma di auto, parcheggiate su entrambe i lati della strada.
In fondo alla strada, sulla sinistra, s’apriva un largo, e collocata sulla parete del Convento, alle spalle della Basilica di San Bernardino, c’era ancora la fontana, dove aveva bevuto tante volte, da ragazzo, mentre giocava a pallone con gli amici, o a nascondino in piazza del Teatro.

Tornò a bere un sorso di quell’acqua. Ad occhi chiusi, immaginando la stessa sete di allora. Sentendosi addosso la stessa polvere e lo stesso sudore di tanto tempo prima.
Quando aprì gli occhi, vide subito la tela incerata grigia, che copriva le impalcature di ferro, alzate per la ristrutturazione del Teatro. Sembrava non ci fosse nessuno, a lavorare nel cantiere. Brani di tela strappata penzolavano nel vento.

Si inerpicò per via Sinizzo.
Il muro in cemento, che conteneva il portone di una casa, non era più saldato ad altre mura, e, partendo da terra, incorniciava il cielo, restando nudo e indifeso da un lato, crollato, e coperto ora dai tubi di ferro delle impalcature. Scollato dal resto dei palazzi.
E, di fronte a Paolo, una sorta di galleria, che passava sotto alle case, attraversate dal tunnel, con i pavimenti, di una stanza che traversava longitudinalmente la strada e si congiungeva con l’altro isolato, che erano il soffitto delle automobili che passavano lungo quella strada.
La ricordava, perché, correndo, nei primi pomeriggi d’estate, la oltrepassava, arrivando subito su via Castello e nel Parco. Fresco di alberi alti.
E ora era totalmente oscurata, dai tubi d’acciaio delle impalcature, e da una sorta di flebo, conica, gialla, cava, destinata a scivolo per le macerie e il materiale di risulta, che correva, come un gigantesco apostrofo, dal tetto delle case abbracciate, fino a terra. Rimbombando di mattoni buttati.

Poco prima d’arrivare al Largo, c’era il portone della casa dei suoi nonni.
Lo ricordava di un bel marrone forte. Che restava appiccicato alle dita, a poggiarci le mani sopra, spingendo per entrare.
E ora era grigiastro. E fragile al tocco, come una pelle antica. Il legno tutto percosso da piccoli tagli.
Dentro la buca delle lettere, correva una grossa catena d’acciaio, aggrappata ad una delle maniglie di ottone brunito del portone. Tra i due battenti, c’era uno spazio aperto, che, insieme alla buca delle lettere, aperta come una bocca tirata dal morso da cavallo, lasciava intravedere l’erba cresciuta, ovunque.

Paolo guardò lungo il vicolo, a destra e a sinistra, fino allo squarcio di cielo, lontano, che conteneva parte della cupola, illuminata dal sole, di San Bernardino, e non vide nessuno.
Si abbassò allora, sotto la catena, mettendosi di profilo tra i due spigoli di legno del portone d’ingresso. Ne forzò leggermente l’apertura, e fu dentro il cortile.

L’odore di umido chiuso, era penetrante, come una spugna inzuppata, nonostante il cortile, incastonato tra le pareti della casa, fosse ampio e aperto al cielo.
Una parte del cortile era adibita ad orto. Piante di pomodoro si allungavano a terra, mischiate col fango, e alcuni frutti, rossi, stavano marcendo senza essere stati raccolti, altri, rinsecchiti sotto le foglie verdi. Le canne cui avrebbero dovuto aggrapparsi, piegate, dalla pioggia e dal vento, sbilenche.
In un angolo, sotto un piccolo pesco, tre o quattro frutti, caduti in terra. Gonfi, come funghi che abbiano preso troppa pioggia, dal profumo dolciastro, smarrito, quasi come una muffa livida.

Un raggio di sole, che disegnava un leggero angolo di luce sul vetro di una finestra chiusa, e arrivava, polveroso, fino a terra, catturò l’attenzione di Paolo, che alzò lo sguardo.
E, d’improvviso, un rigurgito di ricordi gli riempì gli occhi di lacrime.

I suoi compagni di classe, che gli avevano rubato i soldi, barando sui conti dei libri usati rivenduti, in comune, sulla soglia del Commerciale, ai ragazzi delle classi inferiori.
Francesca, che aveva fatto leggere alla compagna di banco il bigliettino che lui le aveva scritto, chiedendole, se volesse essere la sua fidanzata, e le loro risate, e il pezzo di carta che passava di mano in mano.
E la luce del mattino, il giorno in cui aveva finito l’interrogazione orale agli esami di maturità, e aveva pensato di aver fame, semplicemente, una fame libera e pronta a correre verso un’età più adulta. Senza sgambetti.
E il padre, e la madre, lontani, dentro una nebbia gialla di scirocco.
E sua moglie, ora.
Che gli aveva detto di avere un altro uomo. Per telefono, glielo aveva detto. Mentre Paolo era a lavoro.
Mentre il suo capo lo stava cercando per un altro lavoro inutile e umiliante da fare.
Ed era rimasto muto. Annegando dentro il proprio senso di colpa. Sentendosi sbagliato. Fuori luogo. Sentendosi minore di chiunque altro.
Con la gola arsa e chiusa.
Il cortile sembrava scomparire, dentro un burrone di rocce colme di muschio, scivolose. Visto dall’alto, e che correva, veloce, verso il fondo.
Paolo s’accorse che una delle porte che davano sul cortile era semiaperta, e la spinse, davanti a sé, entrando dentro l’ampio ingresso della casa dei nonni.
Sentiva le gambe molli, e la testa farsi pesante.

Correva, per un lato, direttamente attaccata alla parete, una lunga seduta di pietra porosa, che arrivava fino ad una porta, che Paolo ricordava essere la stanza da letto dei nonni. E, alla sua sinistra, un’altra porta, di legno verniciato di bianco, che appariva spezzato, ora, come le squame d’un pesce di lago, e poi un corridoio, da lì, interno e senza finestre, come un’attesa che sbucava nella grande cucina.
Le sedie sul pavimento, ferite, dimenticate dalla furia della terra, e i vetri scheggiati. E i piatti rotti, incrostati di polvere e buio. Ancora a sinistra, s’apriva un’altra porta, che dava in una stanza chiusa da pesanti tende in fondo, e, a destra, da una porta che dava nel bagno.
Ci entrò, Paolo.
Il bagno era una stanza molto lunga, e ampia, con il pavimento scuro, di mattonelle lucide, un tempo; in un angolo, un avvallamento del pavimento e uno scolo, a terra, per l’acqua di una doccia che non aveva vetri o tende a protezione. Ma era libera e aperta: un tubo di ferro arrugginito correva lungo il muro e, in alto, si piegava per aprirsi al soffione della doccia, incrostato di calcare biancastro.

Ebbe un trasalimento di paura, Paolo, nel bagno, come se stesse per comparire il nonno, a sorprenderlo mentre si masturbava. Chiuso, nel bagno, senza chiave, nei pomeriggi d’estate.
Alla sua destra, in fondo alla stanza da bagno, del tutto incongruamente, c’era un letto. Il materasso era coperto da un copriletto verde, perfettamente steso senza pieghe sulla superficie, stanco e scolorito. Che s’arcuava sul cuscino.
Ci si stese sopra.
Ponendosi sul fianco. Le gambe rannicchiate, incurante della polvere che respirava. Gli occhi chiusi.

Si sentiva bene, lì.
Come se potesse risvegliarsi ragazzo. Quasi ad una sera d’estate, di vacanza dopo la fine della scuola. Prima di un nuovo anno denso di promesse da realizzare, di amore da cogliere, di storie da scoprire. Prima dell’inizio di un nuovo campionato di calcio, da poter vincere. Prima di imparare ad andare in moto. Prima di scoprire che in edicola avrebbe potuto comprare Playboy, senza farsi vedere da nessuno, e nasconderlo nello zaino dei libri scolastici.
Prima.

S’addormentò. Come se potesse dormire interi giorni, lasciando tutto indietro. Lontano.
Per svegliarsi, di colpo.
Sentiva rumori provenire dal locale oltre la porta del bagno. Le pareti sembravano tremare.
Uscì dalla porta del bagno, nella penombra della stanza accanto.

Un uomo, con un grosso martello stava spaccando il muro vicino al termosifone. E, ad ogni colpo, un altro uomo cercava di estirpare il vecchio termosifone di ghisa dal muro.

– E chi cazzo è questo? –

Luigi FiammataAvvertì una voce, che urlava.

E poi un dolore acuto, dietro il collo. E cadde. Dentro un buio amaro, denso di lampi e paura.
A terra, un leggero filo di sangue si mischiava con la sporcizia del pavimento dimenticato.

Luigi Fiammata

 

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