Nell’Aula Magna del Molecular Biotechnology Center di Torino, si è parlato di Malattie Epatiche e Osteoporosi

La conferenza si è tenuta nell’ambito dei Lunedì della Prevenzione, dove si è ribadito l’importanza dell’attenzione alle terapie e allo stile di vita.

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)

Sempre molto frequentata l’Aula Magna del Molecular Biotechnology Center di Torino, dove ogni lunedì pomeriggio si tengono conferenze sulla prevenzione e sulla salute. Il 23 scorso due gli argomenti trattati: Il futuro dell’epatolgia e Osteoporosi: malattia sociale. Al primo è intervenuto il dott. Floriano Rosina (nella foto), specialista in Gastroenterologia e Endoscopia Digestiva, ricordando che sono diverse le patologie epatiche emergenti e il più delle volte sono asintomatiche e in taluni casi a lenta evoluzione, senza peraltro alterare la qualità di vita e le normali performance; ma ciò sino a quando la patologia epatica non arriva ad un certo stadio… Un tempo non si conoscevano i pregressi di una malattia epatica come ad esempio la cirrosi, ma in seguito è diventato sempre più possibile intervenire sulle complicanze tardive della malattia di fegato. «Relativamente a precedenti studi – ha spiegato – il virus dell’epatite B risultava minoritario rispetto al virus dell’epatite C, mentre alcol e malattia da fegato grasso erano molto rappresentati, ma nei soggetti con malattia di fegato il rapporto tra esposizione e malattia era molto elevato per il virus dell’epatite C e B, meno per quanto riguarda le forme alcoliche che, come è noto, sono associate al sovrappeso, al diabete, all’obesità, etc.». Quando nel 1991 è stata introdotta la vaccinazione per l’epatite B, in realtà il relativo virus stava già regredendo in quanto quello che influenzava prevalentemente l’incidenza delle malattie, risultava essere data dalla vaccinazione stessa e dalle terapie, ma anche dalle condizioni ambientali e, al momento in cui non si viveva più in promiscuità, la presenza del virus dell’epatite B è andata crollando ancora prima della vaccinazione, cui sono seguiti i controlli sulle trasfusioni di sangue, sulle procedure chirurgiche  (sterilizzazione), come pure la riduzione dell’uso di sostanze stupefacenti portando ad una sensibile riduzione del virus B e C. «Per quanto riguarda il virus dell’epatite C – ha spiegato il clinico – si è avuto un crollo delle nuove infezioni. Si pensa che quando una persona viene contagiata da uno di questi virus capaci di cronicizzarsi, rimane contagiata per sempre, ma ciò non corrisponde al vero perché da uno studio è emerso che il 45% dei soggetti sieropositivi per gli anticorpi dell’epatite C, in realtà non avevano virus circolante. In seguito, l’introduzione di farmaci sempre più efficaci contro il virus dell’epatite B, ha portato ad una inibizione della replicazione virale in circa il 95% dei pazienti. Ma va precisato che per il virus dell’epatite non ci sono dei farmaci in grado di eradicare permanentemente il virus, tuttavia ci sono dei farmaci efficaci che sono in grado di inibirlo, e questo per evitare che determini la fibrosi, la cirrosi e il carcinoma epatocellulare. Ma la svolta c’è stata nel 2014 in cui si è sviluppata una serie di farmaci in grado di eradicare il virus dell’epatite C.». Per questi lavori nel 2020 è stato riconosciuto il Premio Nobel per la Medicina a tre autori: gli statunitensi Harvey J. Alter (1935) e Charles M.Rice (1952), e il britannico Michael Houghton (1949). Con questo approccio dovremmo aspettarci una riduzione notevole della mortalità, ma una certa percentuale si va riducendo anche in proporzione con l’aumento dell’età. Per quanto riguarda il trapianto di fegato questo non è indicato per l’epatite C e per l’epatite B alcolica, ma per l’insufficienza epatica terminale. « Tuttavia – ha precisato –, mentre vanno scomparendo le epatiti B e C, in compenso si riscontrano molti casi di fegato grasso la cui prevalenza  (nel mondo) è del 30%, ed una malattia caratterizzata da una evoluzione successiva sino a sviluppare una fibrosi epatica, elemento importante della malattia di fegato andando verso forme di malattia epatica più avanzate verso la cirrosi e verso il tumore del fegato; e si stima che il 5-10% nei soggetti affetti da fegato grasso può evolvere in cirrosi epatica, e ciò richiede una certa attenzione… In questi casi, soprattutto nelle forme evolutive, se si vuole fare una diagnosi si interviene con una biopsia del fegato; ma per una diagnosi meno invasiva e per una possibile prevenzione si effettua un esame con il fibroscan (del tutto indolore in quanto è simile a una ecografia) che consente di valutare quanto grasso c’è nel fegato e quindi l’entità della fibrosi. È una malattia di tipo evolutivo per la quale è bene intervenire quanto prima. Mentre in taluni casi, come per una fibrosi consistente, è necessaria la biopsia epatica (esame invasivo), ossia il prelievo di una piccola parte del fegato». A livello mondiale circa il 30% della popolazione risulta avere problemi epatici. La malattia di fegato grasso, ad esempio, si associa ad altre patologie come la sindrome metabolica: sovrappeso, diabete, obesità, etc. I soggetti obesi, sino al 95% dei casi presentano un fegato grasso, nell’85% si manifesta nei soggetti diabetici; ma la tendenza alle forme evolutive risulta essere nei soggetti obesi e nell’80% nei diabetici con conseguente rischio elevato di sviluppare una cirrosi ed a volte con esito letale… «In merito alle terapie – ha precisato il relatore – non esiste alcun trattamento codificato per la malattia di fegato grasso. Il gold standard (l’esame diagnostico più accurato per confermare un dubbio) è rappresentato dalla riduzione dell’introito calorico, e questo secondo le attuali Linee Guida il cui obiettivo è quello di ottenere un calo ponderale del 7-10% tanto da ridurre notevolmente l’infiammazione epatica, e quindi la regressione della fibrosi. Contemporaneamente è utile mantenere una certa attività fisica (almeno 30 minuti al giorno), ma l’unico farmaco per il trattamento della fibrosi conclamata è il Poioglitazone e la Vitamina E; quest’ultima è più efficace del precedente. Per il futuro, ulteriori risultati sono dati da farmaci ma che non sono ancora disponibili». Ma quali le complicanze delle malattie di fegato? Tutte queste patologie sono subdole (asintomatiche), ma secondo il clinico è bene rilevare una qualsivoglia “anomalia” improvvisa. Comunque, una delle complicanze possibili è il carcinoma epatocellulare  la cui progressione è molto lenta e tende ad “albergare” in una cirrosi che è una concomitanza  della complicanza. «Sull’epatocarcinoma – ha spiegato e concluso il dott. Rosina – si interviene chirurgicamente, trapianto di fegato e terapie mediche, un tempo molto limitate, ma oggi sono molto indicate le immunoterapie. A differenza dell’epatocarcinoma la cirrosi epatica è “meno preoccupante”, ma tenendo sotto controllo le forme tumorali, le aspettative di vita sono migliori. Oggi, è inoltre possibile intervenire con la nota biopsia liquida, un esame che consente di valutare in forma precoce la comparsa del tumore, e valutare anche in modo non invasivo la risposta del tumore alle terapie».

Non meno attuale anche il tema relativo alla osteoporosi, una malattia dello scheletro, caratterizzata dalla compromissione della resistenza dell’osso, che predispone il paziente ad un aumento del rischio di fratture. «Il problema – ha spiegato il prof. Giancarlo Isaia (nella foto), specialista in Endocrinologia e Medicina Interna – è che se si riduce la densità dell’osso si ha una maggiore incidenza di fratture, e l’obiettivo è quello di evitare per quanto possibile le fratture». È noto che con il tempo anche lo scheletro “invecchia”, e nell’anziano la situazione in questo senso è fisiologica. L’osteoporosi in Italia è molto diffusa: circa 4 milioni sono i pazienti a rischio e solo un milione è trattato. Ogni anno in Italia si verificano 250 mila casi di fratture per l’osteoporosi, l’80% non riesce più a salire le scale e il 50% non è più autonomo. Ma quali le più concrete conseguenze cliniche dell’osteoporosi? «L’incurvamento della colonna vertebrale – ha spiegato il relatore –, riduzione della statura, addome globoso, dolore acuto e cronico, difficoltà respiratorie e problemi gastro-intestinali, depressione. Tutti effetti che contribuiscono ad una ridotta qualità di vita. Inoltre, le conseguenze della frattura di femore nell’anziano, ad esempio, sono un incremento della mortalità del 20% nei sei mesi successivi l’evento della frattura, la perdita definitiva dell’autonomia nel  20-30% dei casi, comparsa della paura di nuove cadute, e nelle donne la frattura di un femore raddoppia il rischio della stessa controlaterale». La gestione di questa patologia si esplica in alcuni livelli. Intervenire  sui fattori di rischio la cui rimozione o correzione si dimostri vantaggiosa per la riduzione o la prevenzione di tale evento, e nelle persone anziane con osteoporosi che hanno subito una frattura gli elementi da considerare sono diversi, tra questi è ottimale l’apporto di calcio il cui dosaggio deve essere personalizzato. Importante è la diagnosi precoce attraverso la densitometria ossea (MOC: Mineralometria Ossea Computerizzata), una tecnica in grado di definire la quantità del contenuto minerale osseo della parte esaminata; ma tale esame non può essere considerato un test di screening per la popolazione in generale e per le donne in post-menopausa in particolare. Ma esattamente, quali le indicazioni? «In caso di menopausa precoce, al di sotto dei 45 anni di età – ha spiegato il cattedratico – in previsione di prolungati trattamenti con corticosteroidi, in donne in post-menopausa con anamnesi familiare positiva e con ridotto peso corporeo, se il riscontro radiologico evidenzia sospetta osteoporosi, precedenti fratture non dovute a traumi efficienti, in donne con oltre 65 anni di età e in menopausa da almeno dieci anni. Relativamente al trattamento è indicata la somministrazione di farmaci efficaci al fine di ridurre l’incidenza delle fratture, per la gran parte delle quali è indicata la prevenzione e/o la terapia ma in associazione alla somministrazione di calcio e vitamina D». Per quanto riguarda la prevenzione diversi sono i fattori che possono provocare le cadute e conseguenti fratture. Relativamente ai fattori ambientali il camminare su superfici scivolose, in presenza di ostacoli diversi, scarsa o eccessiva illuminazione, bagno senza appigli, calzature troppo larghe; relativamente ai fattori individuali possono essere causa di deterioramento delle capacità funzionali, uso di bastoni e altro, deambulazione claudicante, deterioramento cognitivo, deficit visivo, malattie croniche neurologiche, articolari, cardiovascolari, uso di farmaci per il SNC, etc. Allora cosa fare? «Mantenere il peso corporeo – ha concluso il prof. Isaia –, compensare l’eventuale ridotta secrezione estrogenica, consumare adeguate quantità di latticini, praticare regolarmente attività fisica, non fumare, esporsi regolarmente al sole, non assumere farmaci ad effetto negativo sull’osso, prevenire le cadute e i traumi, trattare le patologie con effetti negativi sull’osso, assumere, se necessario, farmaci aspecifici, etc.». Il 20 ottobre si è celebrata la Giornata mondiale dell’osteoporosi, con l’input “Build better bones” (“Costruirsi ossa migliori”), per sensibilizzare la popolazione sull’importanza di adottare, fin dall’infanzia, assumere adeguati stili di vita per migliorare lo stato di salute delle ossa, in particolare attraverso una corretta alimentazione, un’adeguata e regolare attività fisica, il mantenimento del peso corporeo ottimale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha più volte richiamato l’attenzione sull’osteoporosi e sulle correlate fratture da fragilità che hanno rilevanti conseguenze sia in termini di mortalità sia di disabilità motoria, con elevati costi sanitari e sociali. Attualmente il prof. Isaia è presidente della Fondazione per l’Osteoporosi.

Foto di Giovanni Bresciani

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