Quando Massimo Carlotto era un fuggiasco

il fuggiasco di Massimo Carlotto

di Marcella Onnis

Non sto a raccontarvi perché non aver ancora letto “Il fuggiasco” di Massimo Carlotto era per me un’inspiegabile e inaccettabile lacuna: vi dirò solo che sono lieta di averla finalmente colmata.

il fuggiasco di Massimo CarlottoCARCERE E LATITANZA “PER ME PARI SONO”? – Come molti di voi sanno, questo libro racconta l’esperienza di Carlotto come detenuto e “latitante per caso” a seguito della condanna per l’omicidio di Margherita Magello, avvenuto nel 1976 per opera di una mano che l’interessato afferma non essere la sua (e di cui, ad oggi, credo non sia venuto fuori altro colpevole possessore).

“Il fuggiasco” dà, quindi, modo di riflettere innanzitutto sul carcere, sugli aspetti ben noti – ma che a qualcuno fa comodo ignorare – come su quelli su cui chi sta fuori – e forse anche chi sta dentro – riflette meno, come il fatto che «[…] in Italia la responsabilità penale di un individuo, una volta inserita nel contesto del carcere, non si limita alla sola sfera personale ma si estende a tutta la popolazione detenuta». Per fare un esempio chiarificatore, la fuga di un condannato che sta scontando pene alternative al carcere o godendo di un qualche beneficio va a svantaggio di tutti coloro che a quelle misure aspirano e che rischiano di subire decisioni restrittive.

Ancora di più, però, “Il fuggiasco” racconta della latitanza, tema che – rimarca lo stesso Carlotto – è poco esplorato. Quando pensiamo a un latitante, ci vengono subito in mente mafiosi e altri criminali incalliti, persone, cioè, che possono contare sulla propria dimestichezza con l’illegalità e il suo mondo, su tanto denaro e reti di conoscenze utili in queste circostanze. Carlotto, però, ci parla di un altro tipo di latitante, quello che, come lui, tale lo diventa per caso o, meglio, per disperazione (badate bene, senza che l’autore chieda al lettore di giustificarlo). Il latitante per caso, ci racconta, non può contare su nulla o quasi di ciò che ho elencato prima: può solo avere la fortuna di fare gli incontri “giusti” (o evitare quelli “sbagliati”) e di poter contare su una famiglia e/o altri affetti che appoggino e finanzino la sua scelta. È un dato di fatto che la vita del criminale latitante non sia semplice: deve continuamente nascondersi, non può vivere liberamente i suoi rapporti affettivi… Figuriamoci, dunque, quanto possa  essere dura la vita del latitante per caso, ritrovatosi invischiato (insieme ai suoi cari) in quel mondo del sommerso cui non è mai appartenuto, che ha scelto come male minore rispetto al carcere … e che minore arriva magari a non sembrargli più: «Come un detenuto, ero una non-persona con la sua non-vita e nessun futuro in vista» racconta Carlotto, che durante la latitanza in Francia, entrando a contatto con tanti rifugiati politici, capisce che l’esilio politico è «un carcere a cielo aperto».

ERRORE E PERSECUZIONE GIUDIZIARI? – Quanto ho scritto finora credo già lasci intendere che propendo per l’innocenza di Carlotto. Proverò, dunque, a spiegarvi perché, partendo da una posizione di forte dubbio, assunta a seguito di una rapida ricostruzione della vicenda tramite Google, abbia maturato una “quasi convinzione” quasi opposta.

Partiamo da un dato aberrante comunque la si pensi sulla vicenda: quella di Carlotto fue non so se sia anche rimasta – la «più lunga vicenda della storia della giustizia italiana» (opportunamente ricostruita, fase dopo fase, nella nota in coda al libro). Durante i circa vent’anni di questa travagliata esperienza – dall’accusa di omicidio nel 1976 alla grazia concessa nel 1993 – gli capitò persino, per via del pensionamento del Presidente del collegio giudicante, di subire «due processi all’interno dello stesso grado di giudizio»: un «caso unico e irripetibile». Da “Il fuggiasco” apprendiamo che è stato «testimone, indiziato, detenuto, imputato, assolto, condannato, latitante, detenuto, condannato, scarcerato per malattia, imputato, assolto, condannato, detenuto, condannato, scarcerato per malattia» e, infine, graziato: se non ci fossero carte ad attestarlo, potremmo pensare che questa storia sia un’invenzione kafkiana, invece è vera e – fatta eccezione per la testimonianza e la latitanza – nessuna di queste svolte è dipesa da Carlotto. Anche nella concessione della grazia non ebbe un ruolo attivo: non fu lui a decidere di chiederla, pur consapevole che fosse l’«unico strumento correttivo ed equitativo dei rigori della legge in grado di chiudere il caso con giustizia e umanità». Non volle chiederla e non credeva neppure che gli sarebbe stata concessa perché lui non si dichiarò mai colpevole: fino ad allora, infatti, la grazia era stata concessa solo in presenza di un’ammissione di colpa. Per una volta almeno, però, l’unicità del caso giocò a suo favore. Carlotto racconta, inoltre, di aver rilevato nelle sentenze di condanna a suo carico un «impressionante numero di errori e inesattezze»: «Dov’era allora la prova certa della mia colpevolezza a fronte di giudizi tanto diversi? Senza contare le perizie sbagliate, le indagini a senso unico, i reperti scomparsi, la lunghezza della carcerazione preventiva, la gratuità del carcere speciale e la malattia prodotta dalla detenzione

Qualcuno ovviamente azzarderà che, essendo direttamente interessato, la sua ricostruzione non sia oggettiva e, pertanto, attendibile. Beh, forse farà più fatica a ribattere sul fatto che «Nel 1990, nel corso del processo, per la prima volta nella storia della giustizia italiana, la Fédération Internationale des Droits de l’Homme invia in qualità di osservatori alcuni esperti […] al fine di accertare la correttezza delle indagini peritali. Ma il loro rapporto, totalmente a favore dell’imputato, non viene acquisito dalla Corte per limiti procedurali». E ai giustizialisti faccio anche presente che, rimpatriato in Italia dal Messico, dove era latitante, Carlotto si consegnò spontaneamente alle autorità giudiziarie che neppure lo stavano più cercando.

Massimo Carlotto durante il processoMASSIMO CARLOTTO, PERSONA NON “CASO” – Tuttavia, riesco a capire chi, anche alla luce di questi particolari, non crede comunque alla sua innocenza. Un sorriso amaro, invece, mi suscita chi ha trovato “vittimista” il taglio de “Il fuggiasco”: quanto siamo schiavi dei pregiudizi! Convinti di saper già cosa sentiremo o vedremo, non siamo quasi mai capaci di ammettere o, addirittura, in buona fede riconoscere lo scarto tra la realtà e le nostre aspettative.

Un’idea di quanto “vittimista” sia un aggettivo poco calzante per Carlotto (nella foto all’epoca del processo) la dà già questa descrizione che fece di lui una componente dei tanti comitati nati per chiederne la grazia: «Massimo è un condannato particolare: non piange, non urla, non si lagna. È pacato, ma soprattutto è intelligente e tenace e questo dà fastidio. […] Massimo Carlotto innocente, se sarà graziato, sarà comunque per lo stato un colpevole graziato, con tutti i limiti del caso».

C’è di più, però: nel suo racconto è palese la profonda riconoscenza che prova per chi lo ha aiutato, così come la consapevolezza (tutt’altro che scontata) di essere stato, nella sfortuna, più fortunato di altri. E poi, dai, quando mai s’è visto un vittimista capace di fare della vera autoironia? Straordinario è, infatti, che abbia saputo raccontare ferite allora ancora così fresche (scrisse il libro nel 1994, un anno dopo aver ottenuto la grazia) con una tale lucidità e con sorprendente capacità di sorridere di sé.

In queste pagine, inoltre, la sua vicenda è centrale ma non ha l’esclusiva: frequenti sono le incursioni nella storia, soprattutto di rivolte e sogni di libertà, di altri paesi come il Messico: passaggi quasi a cavallo tra saggistica e narrativa in cui l’attenzione di Carlotto per la Storia si mescola a quelle per le “piccole” storie degli uomini che ha incontrato. Un intreccio che stimola nel lettore il desiderio di essere anche lui aperto al mondo e agli altri, anche quando l’istinto lo spingerebbe a chiudersi in un angolo. Peraltro, è proprio questa capacità di narrare gli eventi fondendo dramma e ironia, storia personale con storie altrui e con la Storia, che rende sopportabile la conoscenza di questa terribile vicenda e godibile, davvero godibile, la lettura.

Perché, dunque, leggere “Il fuggiasco”? Perché è vera la convinzione di Massimo Carlotto «che un abisso incolmabile divida la realtà dei fatti dall’applicazione del diritto». E perché non possiamo avere pace fintanto che esisteranno errori giudiziari e non saranno previste sanzioni per chi ne è oggettivamente responsabile. Nessuno si illuda, infatti, che l’errore giudiziario non può toccarti se non hai fatto proprio nulla di male o di almeno discutibile.

1 thought on “Quando Massimo Carlotto era un fuggiasco

  1. Frequentavamo la stessa osteria dall’Elena, in Ponte San Leonardo, erano i primissimi anni ’90, noi ventenni a cantare con una chitarra, lui guardava fuori la neve cadere. Avremmo sempre voluto dedicargli una canzone, una dei tanti cantautori, che parlasse di giustizia. Ma la sua dignità nel portarsi e il mio pudore facevano si di lasciare tutto a quel che veniva…

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