La medicina narrativa

Uno “strumento” per una medicina del nostro tempo


Ogni qualvolta si intraprendono argomenti focalizzati su temi quali la cronicità e l’assistenza, solitamente ci si riferisce non solo al paziente in quanto tale ma alla Persona con una disabilità o una malattia, sia acuta o cronica, e all’importanza dei concetti etici, deontologici e politico-culturali. Certo, il rischio è di rasentare la retorica, ma quando c’è di mezzo la malattia e quindi la sofferenza dell’essere umano che ha bisogno di essere curato assistito, lasciatemi dire, la retorica può anche essere… tollerata; ancorché il rispetto per la vita, della persona e della sua dignità non ha mai termine…

Ed è ormai consolidato il concetto che una buona diagnosi e delle corrette prescrizioni terapeutiche rappresentano la condizione necessaria, ma non sufficiente per una cura efficace. Questa esige che il rapporto medico-malato (prima intervento terapeutico), come sottolinea Michael Balint (psicoanalista ungherese, 1896-1970), sia soddisfacente. Tale rapporto, in quanto umano, ha un carattere etico. Ecco che si “impone” una buona Medicina Narrativa la quale implica un coscienzioso impegno per evitare la spersonalizzazione e l’abolizione del vissuto del malato, in quanto tali atteggiamenti rappresentano un approccio riduttivo dal punto di vista della razionalità.

Già Platone (428-349 a.C.) osservava che il medico, preoccupato sia del corpo che dell’anima è co-autore della vita umana; convive umanamente con il malato, e la corretta cooperazione tecnica tra la propria libertà e quella del malato è giustamente ciò che permette l’azione terapeutica. Il medico (e per estensione ogni operatore sanitario) e il malato sono co-autori del rapporto terapeutico… È quindi facilmente intuibile che la loro relazione comporta aspetti conoscitivi, storico-sociali ed etico-affettivi se non anche comportamentali, i quali sono presenti contemporaneamente in ogni atto medico che, se intende essere veramente umano, non può non essere morale, giacché implica nel paziente, le virtù della fiducia, lealtà ed altri comportamenti relazionali…

La narrazione è una forma in cui l’esperienza viene rappresentata e raccontata, le attività e gli eventi sono descritti insieme alle esperienze che li accompagnano e al significato che dà alle persone coinvolte il senso di queste esperienze. L’esperienza è però sempre molto più ricca di quanto lo sia la sua descrizione o narrazione: nuove domande daranno vita sempre a nuove riflessioni sulle esperienze soggettive, e ognuno potrà sempre descrivere un evento con un’ottica un po’ diversa, collocando il racconto in un nuovo contesto e rivelando nuove dimensioni dell’esperienza. Una cosa dovremmo aver sempre ben chiara in mente: la storia del paziente e le sue relazioni personali, familiari o professionali in quanto possono essere una parte costitutiva essenziale di una malattia organica, o di un disagio psicologico… Va da sé che una attenta analisi dei racconti e degli episodi che vi sono inclusi, come pure il “racconto” globale della malattia nella vita del paziente e della sua famiglia, consente al medico di capire più a fondo la situazione narrativa dell’esperienza della malattia.

Relativamente al problema integrazione Ospedale-Territorio (e Università), intervenendo come relatore al convegno regionale dell’Associazione Italiana Neurologi Ambulatoriali Territoriali (AINAT) del 6 novembre 2010, dedicato alle esperienze a confronto sul trattamento della Malattia di Parkinson, in particolare precisavo: «… una Medicina Generale che si definisce centrata sulla persona, sulla famiglia e sulla comunità di appartenenza, implica il rispetto della cultura familiare, delle credenze e soprattutto delle scelte, che solo al paziente appartengono. Attraverso un approccio relazionale orientato nel senso dell’empowerment (inteso come potenziamento globale fisico e psichico e con esso il rispetto della sua dignità), sarà il medico che permetterà l’aprirsi di almeno una nuova possibilità di cura, di speranza, etc., ampliando la comprensione di sé del paziente e favorendo un maggiore controllo-potere sul percorso e sull’esperienza personale della malattia»

Alla luce di quanto sinora è emerso appare evidente che c’è ancora molto da fare. E questo incontro formativo (sia con le precedenti che con le successive relazioni) vuole essere un contributo al sostegno e alla valorizzazione non solo di chi soffre e dei loro famigliari, ma anche di tutti gli operatori sanitari e sociali (volontari compresi) che si prodigano quotidianamente affinché il declino non sia mai sinonimo di abbandono e desolazione.

 

Ernesto Bodini

(giornalista scientifico)

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