Monserrato incontra “L’incontro” ma soprattutto Michela Murgia
di Marcella Onnis
Michela Murgia è come certe spugnette per lavare le stoviglie: ha una parte ruvida, fatta per fronteggiare le incrostature, ed una parte morbida, fatta per approcciare gli oggetti più delicati.
E delicata e preziosa, come i bicchieri del “servizio buono”, lo era eccome la prima Festa della solidarietà e della cultura, celebrata venerdì scorso a Monserrato (CA): una serata organizzata dalle associazioni “Prometeo Aitf Onlus” e “Linea M” – con la collaborazione della biblioteca comunale di Monserrato (“Monserratoteca”) e delle associazioni “Thalassa Azione”, “Avis”, “Aido”, “Avsm” e “Club Sardinya Radio C.B.” – per parlare di libri e per sensibilizzare il pubblico su temi importanti quali trapianti, talassemia, donazioni di sangue e organi.
Michela Murgia questo lo sapeva, così ha mostrato ai presenti il suo lato più morbido: spontanea, sensibile, accorta … e divertente (fate conto che questa sia la schiuma del detersivo, che per un buon lavaggio non può mancare). Spassosi, infatti, alcuni particolari del suo ultimo libro L’incontro – la cui presentazione è stata l’attrazione principale della festa – e altrettanto esilaranti alcuni aneddoti narrati dalla scrittrice. Né sono mancate sue battute estemporanee: “Ma il timpano si può trapiantare?” ha chiesto, a un certo punto, rivolta a Pino Argiolas, presidente della “Prometeo”, preoccupata che il fischio del microfono potesse assordare il pubblico delle prime file.
Ma non sono certo questi i momenti più preziosi da tenere a mente né probabilmente è per questi che vorrebbe fosse ricordato il suo intervento. Tanti gli spunti di riflessione, tante le frasi da appuntare sul taccuino per la “bellezza dell’immagine” ma soprattutto per la loro acutezza: l’estate identificata come “periodo dell’anno in cui si genera il tempo del possibile”; la divisione maschi/femmine, che è facile annullare nei giochi dei bambini (e, volendolo, non solo in quelli) perché è una divisione che creiamo noi …
Tra tutte, però, spicca l’immagine de su bixinau (il vicinato) riunito nelle sere d’estate – a Crabas come in qualunque paese della Sardegna – per godere del fresco e per chiacchierare o raccontare storie. Un’immagine che per alcuni centri urbani dell’Isola è ancora realtà, magari in via di estinzione, mentre per altri è ormai solo un bel ricordo. Quell’atmosfera, così viva nelle pagine de L’incontro, Michela Murgia ha saputo ricrearla anche in quest’occasione. “Monserrato è tornato per una sera ad essere paese” ha commentato, infatti, il giorno dopo il presidente della “Prometeo”.
Inevitabile per l’autrice fare un confronto tra il tempo presente e i bei tempi passati, quando la strada era il campo da gioco per eccellenza e certi rischi ancora erano sconosciuti. Prima eravamo più “sicuri” – ha commentato – e le mamme mettevano serenamente in conto che nei passatempi avventurosi dei loro bimbi fosse incluso un piccolo margine di pericolo.
Ma non sono solo i tipi di passatempo ad essere cambiati, ha fatto notare al pubblico presente: è anche la “logica” dell’intrattenimento ad essere mutata. Un tempo – ha spiegato – non c’erano i compartimenti stagni che esistono oggi, in base ai quali esistono divertimenti o spettacoli “per adulti” e divertimenti o spettacoli “per bambini”: i racconti orali, narrati davanti alla porta di casa, erano uno “spazio trasversale”, aperto a tutti, grandi e piccoli.
Tuttavia, per la scrittrice di Cabras quello del tempo che fu non è un mondo perfetto, da rimpiangere denigrando il presente. In Accabadora ha spiegato di aver voluto descrivere una comunità chiusa al cambiamento, “cristallizzata”, simile alla Crabas degli anni ’80 descritta nella prima parte de L’incontro: questo mondo presso una parte del pubblico sardo è stato accolto con favore, come la descrizione di un mito che poi è andato distrutto. Con questo nuovo romanzo, invece, ha deciso di descrivere ciò che accade quando il cambiamento rompe gli schemi consolidati, quando si mette in discussione quello che noi sardi chiamiamo su connottu, termine con cui indichiamo quello che abbiamo sempre conosciuto, quello che è sempre stato così … e che difficilmente accettiamo che possa o debba cambiare.
Il punto di partenza del romanzo è, infatti, una comunità statica in cui tutto viene vissuto in una dimensione collettiva, in cui il pronome di riferimento è sempre “noi” e mai “io” perché – per dirla con le efficaci parole dell’autrice – «tutto il tempo condiviso si declinava così, al presente plurale». Più che “romanzo di formazione” – come lo ha definito Pietro Picciau, che l’ha affiancata nella presentazione del libro – per Michela Murgia questo è un “romanzo di deformazione”: l’azione – proprio come accadeva ai tempi in cui si svolge la storia – viene, infatti, declinata al plurale, l’individuo si “dissolve” nella comunità (famiglia/vicinato/parrocchia) e anche i bambini avvertono netta la sensazione che le conseguenze delle loro azioni si riverseranno sui parenti e su tutti coloro che fanno parte del loro “noi”.
Una simile concezione della comunità, però, racchiude inevitabilmente un atteggiamento di chiusura verso tutto ciò che non rientra nei parametri che determinano l’appartenenza a quel “noi”. Quando, dunque, quella comunità entra a contatto con un nuovo elemento “estraneo”, gli equilibri si rompono e sorge la necessità di definire ciò che è “noi” e ciò che è “loro”. Quest’ultima, però, non è un’entità semplice da delimitare, soprattutto per un ragazzino. Ed è così che, dalla bocca di uno dei giovani protagonisti del romanzo, nasce spontanea la domanda «Chi sono “loro”?». A questa domanda un adulto saprà sicuramente rispondere, avrà pensato il ragazzino. «Loro sono quello che noi non siamo.» sentenzia suo nonno. Questa frase – ha spiegato l’autrice – è stata ripresa da un aneddoto narrato da Benedetto Caltagirone nel saggio Identità sarde. Un’inchiesta etnografica ed è stata la vera spinta propulsiva per lo sviluppo di questa storia. È un’affermazione che a primo acchito fa sorridere ma che, a ben guardare, è pregna di significato in quanto sintetizza efficacemente una concezione della realtà intrisa di pregiudizi, di attaccamento quasi morboso alla propria identità e di rigida separazione con tutto ciò che è “altro da sé”.
Il cambiamento, la novità, la diversità non sono facili da gestire, non lo sono per la comunità descritta nel romanzo e non lo sono neppure per le comunità in cui viviamo oggigiorno. Come gestire, allora, questo inevitabile confronto? All’inizio è normale essere diffidenti e in qualche misura questo atteggiamento è anche sano: “La resistenza [al cambiamento, ndr] fa parte della dialettica: indica la strada nuova per riuscire a ricostruire” sostiene Michela Murgia. Poi, però, sta a noi scegliere la strada da percorrere: “L’istinto con l’alterità è lo scontro, ma sei tu che puoi definire la relazione: contro o con”. Perché “sei tu che decidi cos’è su bixinau” e in quest’affermazione c’è il legame più forte con la manifestazione monserratina: solidarietà significa, infatti, allargare su bixinau, decidere di condividere le gioie ma anche – e soprattutto – farsi carico del dolore di altri “io”. Fare, cioè, ciò che anche Francesco Abate (trapiantato e socio della “Prometeo”) invita a fare con il suo spettacolo È colpa tua , che andrà nuovamente in scena giovedì prossimo a San Sperate, alle 22 in piazza San Giovanni.
Ma volendo individuare l’elemento centrale dell’intervento di Michela Murgia a Monserrato, sicuramente lo si trova in quella frase con cui, da bambina, si rivolgeva a sua nonna per esortarla a raccontare una delle tante storie della tradizione orale: “Allui su contu!”, che significa “Comincia il racconto!”. Il verbo allui letteralmente significa “accendere” e – come ha fatto notare la scrittrice – si usa con riferimento al fuoco. In questa frase, dunque, “la narrazione è vista come un cerchio intorno al quale raccogliersi”. Allora ecco che il racconto orale appare subito come un bene prezioso, capace di unire e rafforzare i legami. E si sa che le cose preziose vanno salvaguardate, proteggendole dalle insidie: occorre, cioè, fare in modo che non si perda il gusto del narrare e dell’ascoltare, presi dai nuovi passatempi e interessi, quali la tv e internet. Tuttavia, ha ragione Michela Murgia a sostenere che “siamo noi adulti e non i bambini che oggi tendiamo a perdere il senso del racconto, convinti che sia una perdita di tempo”. Quindi sta a noi “grandi” condividere – per non lasciarla morire – questa tradizione con i più piccini.
Una missione, questa, che la scrittrice ha veramente a cuore, tanto da farne parte essenziale del suo modo di essere. Per questo, dopo aver affermato di essere convinta che gli esseri umani abbiano la tendenza a scegliere un anno in cui si sentono veramente se stessi e lì si fermino, replicandolo poi ad oltranza, senza esitare ha così risposto alla domanda di Picciau su quale sia “il suo anno”: “Io non mi voglio fermare. Fino a quando il tempo del racconto non si spegnerà, quello sarà il mio tempo.”
Michela Murgia dice di non voler essere ricordata come “una che scrive storie da ombrellone”: beh, dopo averla sentita pronunciare queste parole, con tono dolce e deciso ad un tempo, sarebbe davvero difficile pensarlo.
bellissimo racconta il senso della bellissima presentazione e il clima della manifestazione.Brava Marcella Onnis un ottimo articolo.