IL SISTEMA SANITARIO OGGI E DOMANI TRA MOLTEPLICI DIFFICOLTÀ E ASSURDE DIFFERENZE SENZA FINE…
Ma non si era detto che siamo tutti cittadini della stessa nazione? A quanto sembra non è così, sia per disomogeneità politico-gestionali che per la cronica carenza di personale e strutture, oltre alla “deficienza” del rapporto ospedale-territorio
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico e opinionista)
Lo scontento generale che si trascina ormai da un bel po’ di tempo per la gestione del nostro sistema sanitario, risale almeno al 2001, ossia quando è stata fatta la Riforma del Titolo V della Costituzione con la quale si riconosceva l’autonomia alle Regioni (Federalismo). A mio avviso (come più volte ho scritto) un vero e proprio flop perché se a livello centrale mal si gestiva, da allora le realtà si sono diversificate in 21 Regioni, ognuna delle quali ha avuto modo di condurre il “proprio” sistema sanitario a seconda dei politici e della politica del momento. Alcune di esse sono risultate essere più virtuose (soprattutto al nord), altre meno, creando notevoli differenze nell’erogare le prestazioni sanitarie ed assistenziali; quindi un’Italia disunita vanificando, almeno in parte, quello che è stato il risultato del 1861… a prezzo di molti sacrifici e quindi di molti caduti sul campo, oltre a venir meno all’art. 32 della Costituzione (leggasi). Questa constatazione non è né dietrologia e nemmeno retorica, ma un dato di fatto che si perpetua, a meno che si voglia negare l’evidenza perché anche in Sanità esistono i negazionisti, come ad esempio delle vaccinazioni obbligatorie, i cosiddetti no-vax, e del Covid-19, i cosiddetti no-mask. È pur vero che gestire una nazione con i suoi numerosi apparati implica un certo impegno politico (incluse molteplici competenze) dovendo far fronte a doveri istituzionali interni ed esteri, ma quello in merito alla Sanità (parimenti all’Economia) credo che abbia la prevalenza poiché la salute e la vita sono i beni più preziosi che vanno difesi ad oltranza. Prima della Riforma sanitaria del 1978 (che in parte ho vissuto), il sistema sanitario italiano era basato su una forma di protezione assicurativo-previdenziale in cui il diritto alla tutela della salute, era strettamente collegato alla condizione lavorativa e quindi non era considerato un diritto di cittadinanza nel senso pieno del termine. Così impostata la sanità prevedeva non solo una copertura parziale della popolazione (lavoratori e familiari a carico), ma anche forti sperequazioni tra i beneficiari in quanto le quote contributive versate alle assicurazioni, variavano in base al tipo di lavoro svolto ed in questo modo si aveva accesso a diversi livelli qualitativi di assistenza; e uno dei paradossi che si veniva a creare era, per esempio, che i soggetti più vulnerabili e maggiormente esposti a malattie e rischi sociali, come disoccupati e lavoratori a basso reddito (ed i loro familiari), avevano possibilità ridotte di accedere a cure ed assistenza adeguate. Il salto di qualità è avvenuto appunto nel 1978 garantendo una sanità per tutti, in quanto veniva istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) basato sulla visione solidaristica nell’erogazione delle prestazioni, in cui la copertura sanitaria veniva estesa a tutti e non più limitata a talune categorie (lavoratori, pensionati, loro familiari e soggetti particolarmente bisognosi privi di tutela assicurativa obbligatoria). Ma il sistema dei partiti e importanti lobby economiche erano già in agguato, pronti a mettere le mani sul nuovo SSN, e fu così che nel 1992 venne emanato il D.L. 502/92; provvedimento (in seguito leggermente modificato dal D.L. 517/93) che avrebbe prodotto lo sfaldamento dell’omogeneità delle prestazioni sul territorio nazionale inserendo un cuneo nell’universalità del servizio: pur identificando dei “livelli uniformi di assistenza” su base nazionale, e venivano devoluti grandi poteri alle Regioni diventando economicamente e, in parte anche politicamente, responsabili dei propri sistemi sanitari. Inoltre, le USL sono diventate ASL, vere e proprie aziende pubbliche dotate di autonomia imprenditoriale e gestite da potenti “manager della salute” principalmente secondo criteri di efficienza economica e “produttività”. Già, perché se non si produce, anche in sanità si rischia di perdere il posto… con una buona remunerazione. Poi, come ripeto, con la Riforma del Titolo V della Costituzione (Legge n. 3 del 18/10/2001), si riconosce la piena attuazione dell’art. 5 della Costituzione: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». Articolo, questo, che sottolinea l’importanza del decentramento amministrativo e dell’autonomia, e ciò equivale a dire che l’Italia è uno Stato unitario, ma non accentrato dal punto di vista amministrativo, e nel quale i cosiddetti enti locali, cioè le Regioni, le Province (oggi Città Metropolitane) e i Comuni, svolgono un ruolo fondamentale.
Ma ben si sa che la struttura dello Stato italiano, unitario con autonomie locali, è stata al centro di un vasto dibattito soprattutto nell’ultimo ventennio, e anche se più volte è stata proposta la trasformazione dell’Italia in una Repubblica federale (come lo sono gli Stati Uniti, la Svizzera e la Germania), il nostro Paese non ha dimostrato coerenza con i principi ispiratori dell’unitarietà perché, a mio avviso, ritengo che in una Repubblica federale i singoli Stati (o Cantoni, come in Svizzera) che compongono la federazione detengono maggiori poteri di governo e di spesa, ma in Italia decentrare ha significato creare 21 scranni di potere decisionale e, inevitabilmente, notevoli differenze e discrepanze mettendo alcune Regioni contro le altre (inseguimento spasmodico della competitività), di conseguenza anche i cittadini-pazienti gli uni contro gli altri. E, oggi, in questo periodo di pandemia la gestione sanitaria è un ulteriore bailamme in cui si sommano incompetenze, presunzioni, rivalità, protagonismi, carenze e quindi inefficienze d’ogni sorta (non me ne vogliano quegli operatori sanitari particolarmente impegnati sul fronte, che tanto fanno e di più… guai a negarlo). Tuttavia, l’inefficienza riguarda anche la cronica carenza dei servizi territoriali che, unitamente agli ospedali (numericamente decurtati), non sono in grado di smaltire le liste di attesa; per non parlare poi dello scarso interesse per le malattie rare e per la ricerca. Ma è proprio tutta colpa della pandemia questo protrarsi di lungaggini e disservizi? A ben guardare ci sarebbero da verificare alcuni aspetti a cominciare dai ruoli dei manager, non tutti dotati di quelle lungimiranza ed efficienza che sarebbero richieste loro. E che dire del rapporto pubblico-privato? Ad esempio, nella sola Lombardia al 31 dicembre 2019, fra ambulatori, ospedali, cliniche e laboratori tali strutture in convenzione con il SSN erano ben 1.047. A questo riguardo, come riportano gli autori dell’opera Riprendiamoci lo Stato – Come l’Italia può ripartire (Ed. Feltrinelli, 2020; pagg. 327, € 18,00) Tito Boeri e Sergio Rizzo, «Ai confini tra pubblico e privato ci sono spesso occasioni di commistione fra decisioni pubbliche e interessi privati in un contesto di rapporto già non limpidissimi fra la politica locale e logiche affaristiche. Come hanno purtroppo dimostrato gli scandali a ripetizione che da decenni affliggono la sanità in tutta Italia». Ma chi sono io per lanciare il dardo (pur senza curaro) contro questo o quello? Sono un comune cittadino-paziente come tanti altri che, suo malgrado, calpesta il suolo di questo territorio e che come tutti, finché vi risiede, oltre ad assolvere i propri doveri (e da molto tempo dedito al prossimo in difficoltà quasi sempre per cause burocratiche) vanta diritti in sanità e assistenza ribellandosi al “capestro” della sanità privata… e con un passo in più. Da oltre sei lustri divulgo notizie e problematiche di Sanità, seguo moltissimi congressi, convegni, giornate di studio e conferenze rilevando le infinite metamorfosi dei processi sanitari di questa o quella Regione. Un excursus in lungo e in largo per essere anche “testimone” dei cambi di poltrone, come pure di progressi lodevoli, e regressi disdicevoli al centro dei quali spesso il penalizzato era ed è il cittadino-paziente. Per quanto riguarda i meriti degli operatori-manager, gli stessi non sarebbero da rilevare in quanto rientranti nei loro doveri quali gestori della Sanità, peraltro ben remunerati; e per quanto riguarda i demeriti, invece, le responsabilità il più delle volte si sono disperse e si disperdono un anno dopo l’altro, un po’ a destra e un po’ a manca. Ma ben sappiamo che è rarissimo che un dirigente pubblico (manager a parte) perda il lavoro o che subisca una forte riduzione dello stipendio, in virtù del fatto che la struttura salariale è molto compressa. In buona sostanza cosa dedurre? Credo che non si debba abbassare il capo ad ogni negatività e ai cosiddetti “politici cambi di stagione”, ma alzare la cresta (sempre nel rispetto delle leggi, con diritto di interpretarle e contestarle quando a ragion veduta), ed ergersi a templari puntando il dito verso chi non è in grado di rispettare i diritti del cittadino, specie se bisognoso di cure indipendentemente dall’urgenza delle stesse.