L’angolo di Full: “Macò”

Chi conosce bene Fulvio Musso sa che, ogni tanto, ama offrire  ai suoi lettori gustosi piatti piccanti. Per oggi dal ricettario “fullesco” abbiamo scelto una pietanza insaporita con paprika dolce o, per usare le parole dell’autore, un brano “spruzzato di innocente erotismo”.

Prima di lasciarvi alla lettura di Macò vi ricordiamo che anche voi potete diventare protagonisti della nostra rubrica dedicata ai racconti. Come? Leggete il regolamento di Raccontonweb!


Macò

Da giovane, il matrimonio m’affascinava. Quello degli altri, beninteso. In particolare m’attraevano i banchetti di nozze grazie ai quali riuscivo a infilare qualche pausa nel mio appetito. A volte, mi capitava persino di cuccare nell’opposto parentado.
Per quanto siano passati pochi anni, il mio interesse nuziale è crollato al punto di scansare ogni invito. Quando il dribbling non mi riesce e i partecipanti mi sono pressoché estranei, come nel matrimonio di oggi, risolvo rifugiandomi nella mia campana di vetro che è un modo di presenziare senza partecipare o, addirittura, un modo per barattare le nozze in corso pensando a quelle dei bei tempi andati.

Rapidità, colpo d’occhio, senso dello spazio: doti acquisite come skipper, mi diedero quel minimo di vantaggio sulla concorrenza per accaparrarmi il posto a sedere accanto a una tipa niente male della quale avevo già intercettato un paio di occhiate. Fu lei a partire:
«Tu sei parente dello sposo?»
«No, collega.»
«Allora devo darti del lei: non sei mio parente!»
Rise esageratamente come si ride ai banchetti.
Le risposi presentandomi.
«Oh! Scusa, non mi sono presentata, ho un nome stralungo e stravecchio: Maria Antonietta, in compenso il cognome è stracorto: Co’.»
«Ē più che corto: è Co’» convenni.
E giù un’altra risata da banchetto di nozze.
Aveva un tono di voce manierato come quello delle bambine che giocano a fare le signore. Era chiaro che non fosse soddisfatta del proprio nome: una fisima molto comune che ha ribattezzato più gente che i missionari in Amazzonia.
«Sai come ti chiamerei se tu fossi la mia ragazza?», aspettai che il suo punto interrogativo diventasse bello grande: «Macò, ti chiamerei Macò.»
Le ci volle qualche secondo per realizzare che avevo premesso le iniziali dei due nomi al suo cognome: «Macò!» urlò facendo volgere molte teste, «mi piace Macò!»
Dal suo entusiasmo presagivo buone probabilità di successo e quando la sentii sussurrare, all’opposta vicina di sedia, “mi ha chiamato Macò”, ne fui praticamente certo.

Macò era una di quelle splendide creature femminili che preferiscono le gonne ai pantaloni, i capelli lunghi ai corti, gli slip alle culottes, le calze ai collant. Ma la sua passione per la biancheria intima andava oltre: la considerava un’arma di seduzione, uno strumento di piacere, una raffinatezza, una leccornia erotica.
«Come vuoi che mi metta la prossima volta? In calze e reggicalze bianche tipo ‘pronto soccorso sesso’? O preferisci il body di pizzo rosso?»
«Ti preferisco così, in nero: risalta di più la carnagione.»
La lingerie di Macò era varia, superba e certamente costosa. Un articolo che lei stessa vendeva, come commessa, in un negozio di Milano, mansione che definiva “vendeuse de boutique”. Un’attività che la metteva a contatto con molta gente, compresi i giovanotti interessati alle esclusive collezioni di cravatte che lei, arrotando la erre, assicurava “de Paris”.
L’esibizionismo erotico di Macò, i suoi contatti pubblici, la sua avvenenza sensuale, mi alimentavano il dubbio che frequentasse me per simpatia, o forse per amore e, chissà chi, per scopi meno nobili de l’amour.
Probabilmente, con qualche saggezza in più e qualche pregiudizio in meno, avrei fatto tesoro di una relazione tanto simpatica, piacente e ricca di prezioso erotismo.
«Un giorno mi metto della lingerie strasexy e ti faccio vedere come si mangia una banana in un certo modo.»
«Ti piacciono queste cose Macò? Dimmelo che ti piacciono da morire.»
«Mi piace farle con te, per farti piacere, perché tu non mi metti soggezione… tu, poi, sorridi e tutto torna come prima…»
Dopo l’amore, Macò prendeva un’aria sognante: «Quanto mi piacerebbe viaggiare con te! Ieri ho visto un filmato su Bangkok e Singapore… chissà! Mi ci porterai un giorno?» chiedeva con quella sua voce modulata, di bambina.
«A Bangkok e Singapore? Chi lo sa? Può essere…»

Macò aveva la fresca, inconscia ricchezza dei vent’anni. Io, la ricchezza dei venticinque: un’età di vigorose certezze, ma che ancora non sa distinguere l’amore, sia che vesta i collant o la lingerie sexy. Lo cercavo continuamente, l’amore, ma senza gli occhi per trovarlo. Una miopia che offuscava anche ciò che m’era accanto.

Nel frastuono del banchetto, una signora bussa alla mia campana di vetro:
«Signore! Non sta bene? Non ha mangiato quasi nulla…»
«Per l’appunto sto bene. Grazie».
La signora insiste: «Mi scusi, ma lei… lei non è il marito di Maria Antonietta? C’eravamo conosciuti anni fa, in una festa di matrimonio.»
«No signora, mi sta scambiando per un altro: io non sono sposato.»
«Eppure… a parte l’età, gli somiglia molto. Maria Antonietta mi raccontava spesso di voi due, dei vostri viaggi intorno al mondo: a Bangkok, a Singapore… o, più sovente, a Tahiti, dove vi eravate sposati segretamente.»
«Mi spiace deluderla, ma non sono mai stato a Tahiti, e nemmeno a Bangkok e Singapore».
La signora sembra convincersi e mi molla.
Del resto, l’unica Tahiti che conosco, è l’insegna di un vecchio motel dove, un po’ per gioco, facevo l’amore con Macò. O ascoltavo i suoi sogni dentro quella voce manierata di bambina, che finge il tono da signora.

Fulvio Musso

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *