Anche la biologia a “sostegno” della ricerca

primo piano del dottor Giuseppe Fuda con indosso un camice

A Torino dal 1997 un Dipartimento di eccellenza per il trattamento delle malattie neurodegenerative come la SLA. Unica “pecca” gli spazi ridotti per ospitare l’attività di laboratorio, la ricca documentazione prodotta da uno staff affiatato, e pochi metri quadrati per visitare i pazienti.

 

di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

È forse insolito entrare “dal vivo” nel mondo della ricerca scientifica, non tanto per curiosare strumenti, reagenti, provette ed altro ancora che avremmo difficoltà ad interpretare, quanto invece per conoscere e capire le potenzialità di una struttura come il Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi-Montalcini” dell’Università di Torino (diretto dal prof. Giancarlo Panzica), presso l’ospedale Città della Salute e della Scienza di Torino, dove si fa ricerca clinica e di base. Un Centro di eccellenza per lo studio e la cura delle malattie neurodegenerative come la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).

Per approfondire questa conoscenza ho incontrato Federico Casale e Giuseppe Fuda, due giovani biologi ma di provata esperienza, guidati dal prof. Adriano Chiò, che mi hanno rilasciato questa intervista. Mi ricevono in una stanza non grande ma dotata del necessario: un bancone, scaffali, tre sgabelli e due grossi frigoriferi (un altro è situato nel corridoio antistante) contenenti campioni in provette e reagenti: elementi di un notevole impegno di indagine e di “grande speranza”…

 

primo piano del dottor Federico Casale con indosso un camiceDottor Casale, nell’ambito della ricerca in neurologia, qual è il ruolo del biologo?
“Il biologo è un ricercatore che ha un ruolo in tutti gli ambiti della ricerca biomedica. Si affianca ai medici (in particolare ai neurologi nel nostro caso), quindi un professionista  di laboratorio che esamina campioni e reperti in vivo e in vitro (dal paziente e in provetta) e definisce i protocolli per il relativo trattamento. Il medico tratta il paziente e parallelamente intervengono i biologi, i chimici farmaceutici, i genetisti, etc., con l’obiettivo di ottenere il dato della ricerca”

Qual è la differenza tra ricerca clinica e ricerca di base?
“Sono due aspetti che all’atto pratico sono strettamente correlati e in parte sovrapposti. La ricerca di base è indicata per individuare un qualche cosa, solitamente con esperimenti di laboratorio che possono essere condotti “in vitro” su tessuti ottenuti dai pazienti (in altri ambiti la ricerca è sull’animale), o attraverso l’uso di calcolatori: modelli, simulatori, data base, etc. La ricerca clinica è sull’uomo (ossia il paziente) per individuare un dato indirizzato dalla ricerca di base”

Nella vostra attività quali sono i prodotti che abitualmente utilizzate?
“Come ricerca sia di base che clinica lavoriamo su campioni biologici che provengono da pazienti, o da volontari “sani” che fungono da controlli. Per noi il “mezzo” principale è comunque il sangue e in parte anche l’urina; inoltre, il liquor cefalorachidiano (liquido che si trova all’interno del sistema nervoso centrale, SNC) in quanto elemento più diretto con il SNC che non il sangue periferico. Un altro aspetto riguarda la comprensione dell’influenza dell’ambiente (esposomica), un approccio potente per valutare le esposizioni ambientali e il loro ruolo sulle malattie umane, come quelle cronico-degenerative età-correlate”

Quindi, una ricerca che richiede una completa sinergia tra professionisti?
“Collaboriamo con altri laboratori, sia a livello locale che internazionale, proprio perché una ricerca di “buon livello” è fattibile se in stretta sinergia e questo permette, tra l’altro, di ampliare le rispettive competenze e ottenere finanziamenti europei. Per il nostro lavoro ci appoggiamo al Centro di riferimento regionale di Genetica Medica “Angelo Carbonara” (coordinato dalla dott.ssa Gabriella Restagno) e ai biologi molecolari per lo screening su tutti i soggetti che abbiamo in carico”

La ricerca punta molto sulla familiarità delle malattie?
“Effettivamente punta molto su questo aspetto in quanto si conoscono alcuni geni che sono correlati, ad esempio, alla SLA, che predispongono lo sviluppo alla malattia. Ogni anno mediamente ne viene scoperto uno. La familiarità, tuttavia, non necessariamente si sovrappone all’aspetto genetico al fine di avere una mutazione e/o espansione genica, oggi nota; si tratta comunque di capire la familiarità su nuclei familiari numerosi, e nello stesso tempo di comprendere i casi “non familiari”, i cosiddetti casi sporadici”

E per quanto riguarda la ricerca sull’ambiente?
“Per indagare i casi sporadici lavoriamo, tra gli altri, all’interno di un Progetto (Euromotor) finanziato dalla Comunità Europea, si tratta di un progetto di ricerca molto ampio che raccoglie tutte le informazioni possibili da pazienti e volontari sani, sia di “tipo laboratoristico” su campioni biologici, sia di esposomica, finalizzato alla raccolta dati per individuare fattori utili ad identificare l’esistenza di fattori di rischio tali da predisporre alla malattia”

Ci sono Paesi che “prediligono” la ricerca su un versante piuttosto che su un altro?
“Le linee guida e i protocolli di sperimentazione sono comuni e si cerca sostanzialmente di seguirli in maniera scrupolosa, sia nell’ambito della ricerca di base che in quello della ricerca clinica”

Oltre a quelle economiche, quali altre risorse servono per la ricerca?
“È evidente che quelle economiche sono una priorità; fare ricerca è sempre costoso. Inoltre come Centro SLA cerchiamo di offrire ulteriormente dei servizi assistenziali ai nostri pazienti, ed è quindi indispensabile la nostra esperienza e la capacità di ottenere determinati risultati. Sarebbe oltremodo necessario poter disporre di maggiori spazi sia per la ricerca che per l’assistenza, la cui esiguità costituisce per certi versi  un impatto negativo per il paziente che accede alla nostra struttura; impatto che cerchiamo di “attenuare” dimostrando la fattività del nostro operato”. Un’altra necessità per i nostri studi di tipo “epidemiologico” è quella di poterli condurre, oltre che sui nostri pazienti, anche su un gruppo di “volontari sani”, cioè persone prive della malattia (in generale di malattie neurologiche) che ci servono come confronto o controllo. Quello di proporsi come volontario sano è quindi un ulteriore modo di aiutare la ricerca”

L’informazione sulla SLA e sulle malattie neurologiche non è sempre corretta, con quali conseguenze?
“Gli effetti sono quelli di fornire delle certezze o speranze “vane” ai malati, in quanto la divulgazione di massa in particolare tende a “enfatizzare”, talvolta, soprattutto i risultati di una ricerca”

 

L’IMPORTANZA DEI TRIAL CLINICI

primo piano del dottor Giuseppe Fuda con indosso un camiceDottor Fuda, cosa si intende per trial clinico?
“È da intendersi come un “tentativo” terapeutico che spesso viene proposto dai Centri di cura o dalle Aziende farmaceutiche: la proposta, ad esempio, di una nuova molecola per una terapia di una malattia che non ha ancora un percorso terapeutico definitivo… Dal momento della proposta inizia un iter burocratico come l’organizzazione del protocollo, dei vari documenti autorizzativi da parte delle Direzioni Sanitarie, Comitati Etici, etc.”

Quanto dura un vostro trial clinico per ogni paziente?
“In genere da un anno a 18 mesi, che deve avere sempre il consenso del paziente. Solitamente sono tempi sufficienti per raccogliere il materiale necessario per la sperimentazione a livello clinico, cui seguirà l’elaborazione a livello statistico verificando a fine analisi gli eventuali risultati”

La vostra attività è supportata dalla ricerca di base?
“Si. La ricerca di base permette di indirizzare quella applicata, i cui tempi possono essere molto lunghi. Ad esempio, dalla sperimentazione alla effettiva disponibilità commerciale di un nuovo farmaco possono passare anche 10 anni”

Un biologo preposto ad attivare un trial clinico da chi è coadiuvato?
“La coordinazione di uno studio clinico è un lavoro di équipe sia per l’aspetto amministrativo che per quello della clinica”

Cosa avviene al termine di un trial clinico?
“Quando si conclude un trial clinico, in genere, chi ha proposto lo studio raccoglie tutti i dati per l’analisi statistica, e si verifica quindi se c’è stata una risposta di sicurezza ed efficacia per il paziente”

Di tutti i trial clinici condotti sino ad oggi, quali risultati siete in grado di anticipare?
“Attualmente si è appena concluso nel nostro centro un protocollo promosso dalla Glaxo, il quale è giunto globalmente quasi al termine, ed entro la metà del prossimo anno prevediamo di  poter rendere noti i risultati di questo studio. A breve, invece, inizierà uno studio sul fattore di crescita per le cellule staminali, che durerà circa un anno”

Che tipo di collaborazione può dare il paziente, oltre al consenso di effettuare il trial clinico?
“La collaborazione è totale, ma talvolta non viene accettata volentieri la “proposta terapeutica” del placebo, che peraltro rientra nella metodologia del trial clinico come sostanza  di controllo (priva di effetto terapeutico), ma se ben spiegato, il paziente accetta e collabora totalmente”

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