Alghero verso “Una scelta in Comune”
Venerdì scorso, 22 aprile 2016, si è svolta ad Alghero, presso l’Aula consiliare, un’assemblea pubblica organizzata dalla Prometeo AITF Onlus e dal Comune per promuovere la donazione degli organi. A fare gli onori di casa è stato il presidente del Consiglio comunale Matteo Tedde, che ha portato il saluto dell’intera Amministrazione, in particolare del vicesindaco Raimondo Caciotto, fondamentale per l’organizzazione dell’evento ma assente per motivi personali.
Il Comune di Alghero ha già avviato l’iter per aderire al progetto “Una scelta in Comune” del Centro nazionale trapianti (CNT), finalizzato a favorire l’applicazione delle norme che consentono ai comuni di raccogliere le dichiarazioni di volontà riguardo alla donazione degli organi. Promotore di quest’adesione è stato Alessandro Nasone, Vicepresidente del Consiglio comunale e infermiere presso la Rianimazione dell’ospedale “SS. Annunziata” di Sassari. Durante l’assemblea, Nasone ha spiegato che, dopo l’approvazione della sua mozione da parte del Consiglio comunale, stanno attendendo la delibera di approvazione della Giunta regionale. Il Vicepresidente del Consiglio comunale, anche alla luce della propria esperienza professionale, crede molto nell’importanza di questo progetto in quanto «fare una scelta consapevole durante la vita è la cosa migliore», anche perché «si evita di scaricare la scelta sui propri familiari». Pure per la Prometeo AITF Onlus “Una scelta in Comune” è «lo snodo per sbloccare la situazione, per aumentare il numero di potenziali donatori», ha dichiarato nel suo intervento iniziale il presidente dell’associazione Giuseppe Argiolas. In sintonia con tali opinioni il presidente Tedde, che si è detto grato alla Prometeo per aver ricordato all’Amministrazione comunale l’impegno preso: «Se qualcuno non si fa carico di questi temi, passano in sordina perché si pensa che alcune cose capitano sempre agli altri».
Compiere gesti altruisti, però, è possibile anche in vita, ad esempio donando il sangue, di cui in Sardegna c’è molto bisogno, per i trapianti e per altri interventi chirurgici ma anche per la cura di tanti malati, in particolare dei numerosi talassemici. Per questo all’assemblea è stata invitata anche l’Avis di Alghero, rappresentata dal suo presidente Giuliano Casula, il quale ha fatto presente che «ogni anno in Sardegna abbiamo bisogno di 110.000 sacche di sangue, ma ne raccogliamo solo 75.000 per cui occorre importare le altre». Un legame forte unisce le due associazioni, ma anche tutti quelli che hanno partecipato all’incontro: «Siamo accomunati da un medesimo sentimento di partecipazione alla vita collettiva» ha esordito la dott.ssa Fabrizia Salvago, psicologa dell’ospedale “G. Brotzu” di Cagliari e brillante moderatrice del dibattito. «Viviamo vite caratterizzate dalla fretta, […] ma il tempo ce l’abbiamo: bisogna saperlo gestire» ha affermato, per poi aggiungere che, se impariamo a fare questo, possiamo soddisfare quel «bisogno di dare, partecipare» che appartiene a ognuno di noi. Per gli operatori sanitari che, come lei, si occupano di donazioni e trapianti raccontare la propria esperienza è non solo una cosa piacevole – perché ciò che vivono è una ricompensa per i tanti sacrifici che devono affrontare – ma anche una scelta etica: «il trapianto serve a tutti» perché «chi sceglie di essere un donatore fa una scelta che lo accompagna per tutta la vita».
A impedire questa scelta, però, a volte è la scarsa informazione, in particolare la convinzione che il prelievo degli organi non avvenga su una persona realmente deceduta. Difficile, infatti, comprendere come possa considerarsi morta una persona il cui cuore batte ancora, anche perché non a tutti è noto il concetto di morte encefalica. Per questo la dott.ssa Salvago ha invitato a parlarne la dott.ssa Lidia Doddo, coordinatrice locale delle donazioni del “SS. Annunziata”: «Nella nostra vita nulla è certo. L’unica cosa certa è la morte, ma se ne parla poco, a partire dal concetto di morte» ha esordito, spiegando che «per la legge uno è morto quando sono cessate irreversibilmente tutte le funzioni dell’encefalo». Quando una persona muore per arresto cardiaco, la morte viene dichiarata dopo venti minuti dall’arresto perché – ha chiarito – c’è la certezza scientifica che, dopo tale termine, il cervello – cioè l’organo che comanda gli altri – non può più funzionare.
Nella Rianimazione, però, accade che il paziente muoia a cuore battente, quindi prima di certificare la morte si esegue un encefalogramma, esame che – ha spiegato la dott.ssa Doddo – non è previsto in altri Stati in cui la legge è, in proposito, meno severa. Nel caso in cui l’encefalogramma risulti piatto, si entra nell’«unico campo in cui la legge ci dice come ci dobbiamo comportare»: sono, infatti, le norme a prevedere che si riunisca una commissione medica la quale tiene il paziente in osservazione per sei ore, sottoponendolo a ulteriori accertamenti. Solo se questi confermano la morte encefalica, il paziente viene dichiarato morto. A quel punto, si verifica sul Sistema informativo dei trapianti (SIT) se questa persona è registrata come potenziale donatore e se non risulta alcuna sua dichiarazione di volontà, si contatta la famiglia. Questo, ha spiegato la coordinatrice delle donazioni, «è un momento estremamente difficile. Innanzitutto, perché bisogna spiegare ai familiari il concetto di morte cerebrale e poi chiedere il consenso». Anche per lei è, dunque, importante che sia attivata in ogni Comune la cosiddetta anagrafe del donatore, ossia la possibilità di registrare presso l’Anagrafe comunale, al momento del rilascio o del rinnovo della carta di identità, la propria volontà riguardo alla donazione degli organi post mortem. Tale servizio, ha affermato, favorisce la riflessione sul tema, mettendo ognuno in condizioni di «dare un consenso informato e di non lasciare questo onere agli altri», ossia a familiari e operatori sanitari (i quali, comunque, assistono anche le famiglie di chi si era dichiarato donatore, ha precisato).
La gravosità del compito per l’operatore sanitario è stata raccontata più approfonditamente dal dott. Alessandro Nasone. Lavorare in Rianimazione, ha spiegato, significa «entrare a contatto con situazioni border line perché il paziente potrebbe morire o riprendere una vita normale». Quanto alla morte encefalica, per lui «è una situazione dura da descrivere perché a volte il paziente sta in rianimazione per lungo tempo e magari si era anche ripreso»; si crea, quindi, un legame empatico tra operatore sanitario e paziente che rende troppo personale raccontare cosa si provi in questi casi. Molto importante anche sentirgli dire che «fino alla fine facciamo tutto per far sì che il paziente possa sopravvivere». E quando, purtroppo, i tentativi risultano vani, occorre sostenere le famiglie: in questo – da poco più di un anno – il loro reparto è supportato da una psicologa delle emergenze che, in particolare, aiuta a far comprendere l’importanza della donazione. Peraltro, questa innovazione – ha fatto presente Nasone – ha permesso di aumentare il numero dei “sì” alla donazione raccolti nel loro ospedale. La dott.ssa Salvago in proposito ha ricordato che «la donazione è il rispetto di un diritto previsto dalla Legge n. 91/1999». Questa, infatti, introduce il silenzio assenso, ossia dispone che, in caso di mancata dichiarazione, la persona morta sia considerata un potenziale donatore: pur non essendo diventata mai esecutiva, tale norma «crea un diritto a donare». Occorre, quindi, assistere la famiglia anche per far capire questo, tenendo conto della situazione particolare che sta vivendo e del fatto che «spesso la morte encefalica riguarda persone che fino a poco prima stavano bene»: «esiste un dovere di dare ai familiari tutto il supporto di cui hanno bisogno per fare la loro scelta» ha affermato la psicologa. Anche perché, ha raccontato, alcuni familiari che hanno detto “no” poi si sono pentiti, mentre non è mai successo che si siano pentiti quelli che hanno acconsentito. Anzi, sia lei che la dott.ssa Doddo hanno rimarcato che per loro sapere che il proprio caro ha salvato altre persone è una consolazione.
Donazioni e trapianti sono umanamente impegnativi anche per i chirurghi trapiantatori, come la dott.ssa Romina Manunza del Centro trapianti di fegato dell’ospedale “G. Brotzu”, che spesso si occupa del prelievo degli organi. A loro si chiede di esser sempre pronti ad attivarsi quando arriva un organo, che sia giorno o notte, giornata feriale o festiva. «Abbiamo un’estrema responsabilità» ha esordito la dott.ssa Manunza, per questo «siamo sempre pronti, 24 ore su 24, a intervenire in qualsiasi parte della Sardegna e non solo» (può, infatti, capitare che l’organo sia prelevato da un paziente deceduto in altra regione). Normalmente, ha raccontato, prima di partire hanno modo di vedere il paziente che deve essere trapiantato, per cui partono «con bene impressa nella mente la sofferenza di quella persona», anche per questo sono «sempre disponibili a portare a casa quel dono». Esperienze simili le vive la dott.ssa Roberta Manca, che dal 2001 lavora «con grande passione ed entusiasmo» nella Cardiochirurgia del Brotzu, prima come infermiera in sala poi come coordinatrice della terapia intensiva (ora Cardioanestesia). Il suo lavoro le consente di seguire tutto il percorso del paziente, dall’arrivo in reparto alla degenza post-trapianto, e sa bene che per alcuni la Chiamata – ossia la telefonata che annuncia la disponibilità di un organo – può arrivare dopo mesi o anni dall’inserimento in lista di attesa. Come sa che le reazioni alla chiamata possono essere tante e che talvolta si prova un misto di gioia, tormento e paura. Per questo, ha spiegato, è importante il supporto degli psicologi come di tutti gli operatori sanitari, che devono saper «rispettare i momenti del paziente e capire quando desidera stare solo». Anche il risveglio non è uguale per tutti (per alcuni «è “burrascoso”, perché magari sono stati ricoverati per il trapianto in emergenza») né lo è la degenza post-intervento, che di norma dura circa una settimana, ma che può essere più lunga se si verificano complicazioni.
Tra i casi di degenza lunga rientra quello di Daniela Medda, trapiantata di cuore due anni fa e oggi attiva come volontaria della Prometeo proprio presso la Cardiochirurgia. «La chiamata per me non è stata molto gradita, ma ero malata da quando avevo 14 anni [ora ne ha 38, ndr] e non c’era alternativa». Oggi, comunque, è ben felice di aver accettato l’intervento e di aver cominciato una vita piena, che include allenamenti e partite di calcio con la Prometeo sport, in cui milita come portiere: «Ora faccio quello che prima non facevo. Sono scesa in campo per la prima volta l’anno scorso e faccio tanta attività, non solo sportiva. Chi deve fare il trapianto, che lo faccia: torna a vivere molto meglio!». Daniela è una delle pazienti che è stata seguita, prima di arrivare al trapianto, dal dott. Agostino Setzu, cardiologo del Brotzu. Questi ha spiegato che per i loro pazienti l’indicazione al trapianto segue il principio del “non troppo presto né troppo tardi”; in particolare, l’inserimento in lista avviene quando arrivano allo stadio terminale, ossia devono subire più ricoveri ospedalieri nell’arco di un anno e hanno una bassa probabilità di sopravvivenza. Affrontare questo momento non è semplice neppure per i medici: «È brutto e frustrante vedere pazienti che subiscono continui ricoveri» ha raccontato.
Vedere la gioia di vivere di Daniela e di altri trapiantati, ha affermato la dott.sa Salvago, è gratificante per gli operatori sanitari, incoraggiante per chi attende di essere trapiantato e consolante per i familiari dei donatori. A questi ultimi, soprattutto a chi desidera incontrare la persona che ha ricevuto gli organi del proprio caro, ha ricordato che «chi dona, dona alla società» e che questo è «un dono che si fa indiscriminatamente». Pur comprendendo bene questo desiderio, la psicologa ha chiarito che il trapiantato e i familiari del donatore compiono «due percorsi diversi» e che «spesso incontrarsi può creare disagio ai familiari dei donatori», i quali talvolta immaginano il ricevente simile al loro caro. Non solo, «la ricerca di chi ha ricevuto l’organo spesso rappresenta un problema di elaborazione del lutto» e costituisce «un modo per rimandare l’accettazione di ciò che è accaduto». Incontrare il ricevente, dunque, può creare una delusione e far tornare indietro nel percorso di elaborazione del lutto: un rischio di cui devono tenere conto anche i trapiantati che desiderano o accettano questo incontro, ha precisato. Dopo aver ricordato che la legge prevede il rispetto dell’anonimato del donatore per tutelare la privacy della sua famiglia, la dottoressa ha citato una famiglia che ha ben compreso il valore universale della donazione: Paola e Alberto Deiana, genitori di Elisa e fondatori dell’associazione Elisa Deiana Onlus che, senza alcun contributo pubblico, sta costruendo una casa per ospitare trapiantati, trapiantandi e familiari. Alberto e Paola, pur conoscendo la persona che ha ricevuto il fegato di Elisa, considerano ogni trapiantato un fratello, una persona viva grazie alla loro figlia.
Tra gli interventi del pubblico è da segnalare uno dai toni polemici sui disservizi del nostro welfare e sulla necessità di destinargli più risorse. In tanti vi hanno a vario modo replicato, a partire dalla dott.ssa Salvago che ha fatto presente come quanto raccontato fino a quel momento dagli operatori sanitari dimostri che, nonostante i problemi, è possibile cercare il lato positivo della situazione. Anche la storia di Tonino Piras, trapiantato di fegato, testimonia che la sanità italiana, pur certamente migliorabile, funziona: Piras è, infatti, il primo trapiantato curato in Sardegna per l’epatite C con il Sovaldi (primo farmaco di nuova generazione introdotto in Italia) e il primo malato guarito nell’Isola (oltre che tra i primi in Italia). «Ero condannato a un secondo trapianto perché ho avuto una recidiva dopo il primo intervento, ma sono guarito dopo 6 mesi di cura» ha raccontato, complimentandosi con la sanità sarda, in particolare con il Centro trapianti di fegato del Brotzu. Altra risposta alla polemica l’ha data Mario Parisi (fondamentale per l’organizzazione di questa trasferta algherese della Prometeo e per questo pubblicamente ringraziato da Daniela Medda): come genitore di un bimbo con gravissimi problemi cardiaci prima e come amico di un ragazzo trapiantato di cuore dopo, Parisi ha avuto modo di verificare che nella sanità italiana esistono anche delle eccellenze. «Malgrado i problemi, queste sono le cose più importanti, che ci permettono anche di risolvere le cose che non vanno. Dobbiamo fare in modo di trascurare i fatti negativi, perché queste cose positive sono le uniche che possono portarci a credere in un futuro migliore» ha affermato, seguito da un applauso di approvazione generale.
A fine assemblea, il presidente della Prometeo Argiolas ha consegnato un piccolo riconoscimento alla Rianimazione del “SS. Annunziata” di Sassari per il «grande contributo dato alla donazione» lo scorso anno, con 20 segnalazioni di potenziali donatori sulle 57 complessivamente effettuate nell’Isola. Un altro riconoscimento è stato da lui consegnato al primario della Rianimazione del “SS. Annunziata”, Demetrio Mario Vidili, per l’Anatomia patologica di Sassari, che verifica l’idoneità degli organi ai trapianti e che ha, quindi, contribuito a realizzare le donazioni dell’ospedale sassarese. Un terzo riconoscimento è stato assegnato alla Società di tiro a volo Sassari che – sotto la guida del presidente Pietro Riu e con la collaborazione di Vito Mangialetti, trapiantato di fegato e socio della Prometeo – da tre anni organizza una gara di tiro a piattello cui partecipano centinaia di persone e che contribuisce a promuovere la donazione degli organi, anche destinando alla Prometeo il ricavato della manifestazione.
Congedando i presenti, il vicepresidente del Consiglio comunale Alessandro Nasone ha auspicato che a breve la Giunta comunale adotti la delibera di adesione al progetto “Una scelta in Comune” così da favorire le donazioni, perché «quando si arriva a una donazione, arriva una vita».
Foto Prometeo AITF Onlus