Ai Lunedì pomeriggio torinesi della Prevenzione e della Salute più attenzione per le malattie del fegato e sempre utile screening prevenzione tumori

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)

Dott.ssa A. Ciaccio

Altre due importanti relazioni hanno coinvolto il pubblico torinese, dedicate ai temi Conosci il tuo fegato: le epatiti virali, malattie silenti, a cura della prof.ssa Alessia Ciancio, clinico e docente di Gastroenterologia all’ospedale Molinette; e La prevenzione dei tumori della mammella e del collo dell’utero attraverso lo screening e gli stili di vita: una sfida da accogliere, a cura della dott.ssa Livia Giordano, responsabile di Epidemiologia/Screening all’ospedale Molinette. È noto che il fegato è come una fabbrica biochimica: tutto avviene a livello molecolare attraverso una serie di reazioni per trasformazioni molto sofisticate. È la ghiandola più voluminosa del nostro organismo ed esplica complesse funzioni organiche; ha un’attività sia di tipo metabolico (produce energia trasformando ciò che viene assunto dall’alimentazione), sia perché serve alla disintossicazione e all’eliminazione  delle sostanze tossiche  tanto alimentari quanto farmacologiche. Ma cosa succede quando si verifica un mal funzionamento del fegato, e quali sono i segnali? È su questi due quesiti che la prima relatrice è intervenuta in modo chiaro ed esaustivo. «Le malattie del fegato – ha spiegato – sono silenti in quanto asintomatiche, quindi si pone il problema di come intuire determinati segnali. Quando il fegato si ammala si va incontro ad una epatite, ossia un’infiammazione cui può conseguire una necrosi (morte di alcune cellule), ma il fegato è anche l’unico organo che è in grado di riprodursi totalmente, quindi a maggior ragione è bene fare prevenzione… Se la morte delle cellule continua subentra la fibrosi (cicatrice) che, se consistente, riduce la funzione del fegato ». La malattia epatica è evolutiva quando non si rimuove la causa e quindi progredisce con la formazione di più fibrosi sino a determinare la cirrosi epatica, malattia oggi non più mortale ma piuttosto rilevante per le complicanze che ne derivano come la cronicità, ossia che perdura nel tempo: il 15% delle epatiti croniche possono diventare cirrosi con, appunto, eventuali complicanze. Ma si può intervenire con la prevenzione? «Prima di infettarsi a causa di un virus – ha precisato la cattedratica – sono disponibili i vaccini, ad esempio dell’epatite A e B, ma non si contrae una malattia virale se ci si adegua ad un corretto stile di vita, con una dieta regolare e una costante attività fisica. Ma quando si viene a contatto con il virus è importante  fare una diagnosi, e se la malattia è già in corso si prescrive la opportuna terapia che, in gran parte, è risolutiva delle malattie del fegato in genere, e questo vale anche in caso di cirrosi, intervenendo sui sintomi o comunque sui segnali, e in estrema ratio si ricorre al trapianto della ghiandola. Ciò che è importante è intervenire tempestivamente». Sono molte le cause che possono colpire il fegato, come quelle legate ai virus, all’abuso di alcool, ma paradossalmente anche a taluni farmaci specie se assunti in quantità e per lungo tempo. I virus noti dell’epatite sono A, B, C ed E, che sono molti diversi tra loro per via di trasmissione. I virus A ed E si possono contrarre da acqua e cibi contaminati, i virus dell’epatite B e C si trasmettono per via parenterale, ossia attraverso il contatto di sangue e causare un’infezione cronica. In merito al virus dell’epatite A in Italia, soprattutto in alcune zone della Campania, il 90% delle persone sono positive al virus, ossia hanno marcatori della pregressa malattia in quanto si sono alimentate con cibi contaminati dalle acque. «Ai fini della prevenzione – ha precisato la relatrice – per le epatiti A e B esistono i rispettivi vaccini, che possono essere inoculati contemporaneamente. L’Italia è stato il primo Paese al mondo a rendere obbligatoria la vaccinazione a tutti i nuovi nati nel 1991, oltre a sottoporre a vaccinazione anche i 12enni. Un notevole vantaggio in quanto tale provvedimento ha interrotto la trasmissione dei virus, proteggendo quindi non solo se stessi ma anche gli altri. Non esiste, invece, il vaccino per l’epatite C in quanto trattasi di un virus diverso e soggetto a molte varianti. Una volta guariti dalle epatiti A e B, invece, non ci si può più ammalare per l’avvenuta formazione di anticorpi, ma ciò non succede per l’epatite C». Nel nostro Paese, per quanto riguarda le malattie di fegato la situazione è piuttosto confortante, in quanto dal 1990 sono crollati i casi di epatite B ed A, come pure sono diminuiti sensibilmente i casi di epatite C, sia per la disponibilità delle vaccinazioni (nelle prime due) e perché negli ospedali gli strumenti sanitari sono monouso. Se alcune infezioni sono in aumento ciò è dovuto ai flussi migratori: in Cina il 90% è venuto a contatto con il virus dell’epatite B, in Egitto il 70% della popolazione è affetto da epatite C; in Italia le malattie virali in genere sono ancora un problema (900 mila sono i portatori del virus dell’epatite B, e quasi 2 milioni di persone (italiani e stranieri) sono affette da malattia contratta dal virus dell’epatite C. «Tuttavia – ha aggiunto – la docente – non vi è più rischio di contrarre i virus  (per le epatiti B e C) attraverso le trasfusioni di sangue; in Piemonte, ad esempio, dal 1991 è obbligatorio lo screening per le malattie del fegato sul donatore e sulle sacche di sangue. Ma sono i tossicodipendenti la categoria più a rischio se vivono in “ambienti chiusi”, come ad esempio nelle carceri, anche per via della promiscuità sessuale specie se con più partner; oltre ai casi che si possono infettare nei luoghi dediti ai “trattamenti di bellezza”  e dove si fanno i tatuaggi». Insistendo sul concetto di prevenzione la relatrice ha sottolineato che si tratta di sapere se si è ammalati di fegato e in cosa consiste  la malattia contratta, ma ciò non è sempre possibile in quanto nel 90% dei casi la patologia è silente perché non dà sintomi apparenti, sia per l’epatite allo stadio iniziale che per la manifestata cirrosi epatica. Tuttavia, indicativi  e molto utili sono alcuni esami tipici  del fegato come le AST, le ALT e il Gamma GT test che se sono alterati si può ipotizzare la presenza di una malattia epatica. Anche se dagli esami si evidenzia una riduzione delle funzioni del fegato, il medico di famiglia deve suggerire eventuali ed ulteriori accertamenti, come ad esempio una ecografia dell’addome superiore, e anche l’esame ecografico con il fibroscan. «Per quanto riguarda le terapie – ha concluso la prof.ssa Ciancio – generalmente da queste patologie si guarisce nella maggior parte dei casi, soprattutto se in merito alle epatiti B e C. Sinora sono state trattate 250 mila persone, cifra però sottostimata perché molte di esse non sanno di avere una malattia epatica. Secondo l’Oms entro il 2030 si conta di sottoporre a screening l’intera popolazione».

Dott.ssa L. Giordano

Non meno attuale il tema sulla prevenzione dei tumori in particolare della mammella, cervice uterina e colon-retto. Va detto che i tumori hanno diverse caratteristiche e da anni si studiano le cause, come pure quale prevenzione è possibile, sia primaria che secondaria. «Nel primo caso – ha spiegato la dott.ssa Giordano – permette di attuare tutti quegli accorgimenti atti al manifestarsi di questo o quel tumore, nel secondo caso si tratta di anticipare la diagnosi identificando i tumori di “minore” entità e più favorevoli dal punto di vista della prognosi. Quindi lo screening è indicato soprattutto nella popolazione asintomatica, e distinguere (per quanto possibile) chi ha un tumore e chi non ce l’ha”. Nella nostra realtà da anni è in atto il programma noto come “Prevenzione Serena», ossia l’applicazione di un test soprattutto in persone che per età hanno maggiori probabilità di ammalarsi identificando, appunto, quelle forme di tumore più sospette. Ma prima di attuare uno screening il medico deve essere sicuro di fare del bene alla popolazione, quindi offrire un test senza imporlo ossia con il consenso informato, nel rispetto della privacy e raggiungendo il maggior numero di persone a cui è indicato. «Con un programma di screening – ha ricordato  la relatrice – si vuole ridurre la mortalità a causa delle neoplasie della mammella e dell’utero, ad esempio, e anche l’insorgenza di nuove forme. Per il tumore della mammella non si riesce a prevenire ma solo ad anticipare la diagnosi, mentre per il tumore dell’utero è possibile la prevenzione con il cosiddetto pap-test per identificare una o più lesioni, anticipando una forma invasiva e quindi potenzialmente letale. Ogni “approccio” medico può avere vantaggi e svantaggi: nel primo caso si tratta proprio nella disponibilità dello screening, quindi riduzione del tasso di mortalità, prognosi migliore, trattamenti più conservativi grazie anche ad innovative tecniche chirurgiche e di conseguenza migliore qualità di vita; nel secondo caso si possono verificare i cosiddetti falsi positivi». Tra gli screening c’è quello “organizzato” come l’aiuto del medico o dell’Asl ad aderire a tale programma di prevenzione, e il controllo di qualità su tutto il percorso dello screening stesso, come la costante formazione degli operatori sanitari e l’approfondimento diagnostico in caso di sospetta lesione (test di secondo livello), in cui intervengono vari specialisti (approccio multidisciplinare). Attualmente in Piemonte sono possibili screening per la mammella, la cervice uterina e il colon-retto, per i quali è stata dimostrata l’efficacia, ma non per il tumore dell’ovaio che non garantisce benefici. Prossimamente si provvederà ad uno screening per il tumore del polmone, e magari anche per la prostata. In ambito europeo l’Italia per lo screening di questi tre organi è all’avanguardia, in quanto dotata di un apposito Osservatorio che controlla l’attività di questi programmi. Tali screening sono nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). «Questi tre tumori – ha precisato – sono assai frequenti. Quello della mammella è il primo tumore per frequenza e incidenza nelle donne, ma anche per mortalità, come pure frequente è anche il tumore del colon-retto; mentre quello relativo alla cervice uterina lo è meno rispetto ai primi due in quanto le donne sono molti anni che si sottopongono al pap-test, tanto che si è ridotta l’incidenza delle forme invasive. La sopravvivenza per questi tumori, grazie proprio agli screening e al miglioramento delle terapie, è più che soddisfacente: relativamente  alla mammella è di oltre l’80%, per la cervice uterina del 68%, un po’ meno per il colon-retto». Va detto che l’80% delle donne italiane è inserito in un programma di screening, ma al Sud la situazione è meno “confortante” rispetto al Centro e al Nord. Tale attività per certi versi si è ridotta un po’ ovunque a causa della pandemia, con circa 980 mila inviti in meno in un anno per lo screening della mammella, e un milione e 200 mila per quello della cervice uterina. Ben più di 4 mila sono i tumori della mammella riscontrati per mancato screening e relativa diagnosi, più di 3 mila per quanto riguarda la cervice uterina. Ma quali gli esami? Secondo le linee guida standard per la mammella è consigliabile la mammografia in donne tra i 50 e i 69 anni di età ogni due anni, tra i 45 e 49 anni ogni anno, tra i 70 e i 74 anni ogni due anni. In queste fasce di età l’incidenza è molto più elevata ma bisogna tener conto delle difficoltà della Sanità pubblica (risorse limitate, carenza di personale, etc.). «Oggi – ha concluso la dott.ssa Giordano – è sempre più attuabile il test HPV per la cervice uterina il cui tumore è legato alla presenza di un virus (HPV). Relativamente al colon-retto per i soggetti ultra 58enni è consigliabile la sigmoidoscopia una sola volta, o la ricerca del sangue occulto nelle feci ogni 2 anni per 10 anni. Un contributo utile sono state le campagne di informazione, come pure il coordinamento e il monitoraggio regionale al fine di valutare l’andamento e la qualità delle relative prestazioni sanitarie. Le lesioni del papilloma virus sono molto frequenti specie se in attività sessuale (non controllata); molti casi guariscono ma in misura minore persistono sino a formare neoplasie della cervice uterina. A tale riguardo è disponibile il test HPV, ossia il vaccino che viene proposto alle 12enni per proteggersi e per evitarne la diffusione ».

Foto di Giovanni Bresciani

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