Quando la “certezza” della pena non trova riscontri in chi non vuol più vivere…

Diritti negati o violati?

  

di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico e operatore volontario nell’ambito del sociale)

Tra i molteplici argomenti in discussione tra le forze politiche (Radicali in particolare) e i “nostri” governanti, quello che fa discutere (ma forse non troppo, o comunque non come si deve) è il problema del sovraffollamento delle carceri (66 mila detenuti per una capienza massima di 45 mila), per il quale sembra ipotizzabile “liberare” circa 10 mila detenuti entro il 2015, per una restante presenza di circa 56 mila reclusi. Premesso che, a mio modesto parere, qualunque modalità venga attuata per tale provvedimento non risolverà il pluri-annoso problema (soprattutto per quanto riguarda il recupero sociale del detenuto, i provvedimenti da prendere sarebbero di ben altra natura), mi sembra venga quasi sempre trascurata un’altra realtà: la detenzione degli innocenti e, a questo proposito, ritengo utile rammentare agli addetti ai lavori e non che dal dopoguerra ad oggi le statistiche riportano che i detenuti risultati totalmente innocenti sono stati oltre 4,5 milioni. A fronte di questa cifra non riesco minimamente ad immaginare lo stato d’animo di questi Esseri umani durante il periodo di detenzione che, in alcuni casi, l’innocente non ha “resistito” oltre… Credo si tratti non soltanto di questioni giurisprudenziali, iter processuali con valenti difensori e giudici “confortati” o meno da prove di colpevolezza e quant’altro, ma anche di poca attenzione per la voce del più debole, quasi sempre afona per mancanza di mezzi (soprattutto economici: talvolta gli esiti sono  diversi per chi se lo può permettere), carisma e forte determinazione, oltre naturalmente alla sua dignità che dovrebbe far da guida ad ogni arringa e ad ogni giudizio finale.

Tra queste innocenze “conclamate” mi pare di intravedere quella del signor Roverto Corbetera, detenuto nel carcere di Padova dove dal 4 luglio scorso ha messo in atto lo sciopero della fame e della sete, con il conseguente calo ponderale (dimagramento) ma fortemente determinato a proseguire sino a compromettere seriamente la sua esistenza… Leggendo la sua storia sulle pagine di questo giornaleho avvertito un certo senso di “coinvolgimento” (a volte le sensazioni corrispondono alla realtà, basterebbe appurarle) e, pur non avendo alcun titolo per entrare nel merito, ritengo “doveroso” come connazionale nel pieno diritto di esprimere pensiero e convinzioni, di rammentare a tutti gli addetti ai lavori e non che un errore giudiziario dovrebbe rappresentare l’angoscia del magistrato, soprattutto quando investe la libertà della persona… L’errore giudiziario è (o dovrebbe essere) il “vero” tarlo nella coscienza dei giudici per bene (non politicizzati) e, per estensione, dei difensori e consulenti. Tale condizione non solo coinvolge l’etica di ognuno ma anche quel senso di “immedesimazione” che consiste nel mettersi idealmente al posto del “condannato” sapendo di essere realmente innocente. Inoltre, sarebbe utile che tutti riaprano le pagine “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (1738-1794), rispolverando nel contempo qualche pagina di Voltaire (1694-1778) e Motesquieu (1689-1755); le cui saggezza e obiettività ne affermavano la parità di tutti i cittadini di fronte alla legge, incluso il fondamento sui concetti di dignità umana e certezza del diritto.

Or bene, se al signor Roverto Corbetera sono stati lesi i suoi diritti, quali la libertà e la dignità, sino a preannunciarne la propria morte attraverso lo sciopero della fame e della sete, è bene che chi di dovere rammenti il seguente aneddoto, che peraltro ben pochi conoscono. Socrate fu giudicato da una giuria di 501 cittadini e condannato a morte con soli 60 voti di maggioranza; e non volle mai mettersi in salvo pur avendone avuta l’occasione durante l’anno di prigionia. Quando Santippe, la moglie di Socrate, comunicò al marito che i giudici lo avevano condannato a morte, il filosofo commentò semplicemente: «Pensa che essi sono condannati dalla Natura!» – «Ma ti hanno condannato ingiustamente» – singhiozzò la donna. «Avresti preferito che la condanna fosse stata giusta?», replicò Socrate. Infine suggerirei la lettura di tre volumi del noto penalista Agostino Viviani (1911-2009), che mi sono letto più volte e recensito. 1) “La degenerazione del processo penale in Italia”, 1988, testimonianza della sua esperienza di penalista; il libro raccoglie e commenta una serie di casi di “ordinaria ingiustizia”. 2) “Il Nuovo Codice di Procedura Penale: una riforma tradita”, 1989, con cui dimostrava che la riforma, nonostante l’affermazione di alcuni validi principi, non riusciva ad abolire il sistema inquisitorio a favore di quello accusatorio. 3) “La chiamata di correo in giurisprudenza”, 1991, con l’intento di seguire l’evoluzione (o l’involuzione?) del concetto di chiamata di correo fino all’entrata in vigore del nuovo Codice, per poi raffrontarla con la nuova regolamentazione e trarne le conseguenze della necessaria prudenza nella valutazione della parola del socius criminis (compagno del delitto).

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