Pictura ut poesis? Interrogativi sull’intellettualità degli artisti…
di Davide Morelli
Pictura ut poesis, dicevano gli antichi: così come in poesia, così in pittura; la pittura veniva considerata poesia muta e la poesia pittura parlata. Ma è davvero così oggi? Poesia e pittura sono ancora arti sorelle? E se pictura ut poesis, allora i pittori sono come i poeti? Oppure sono due mondi paralleli? Oppure regna l’indifferenza reciproca? La prima cosa che salta subito all’occhio è che un buon pittore può vivere della sua arte, mentre un buon poeta (salvo rarissime eccezioni) no. La pittura ha un suo mercato, un suo pubblico, mentre la poesia ormai, realisticamente parlando, no. Pictura ut poesis quindi? Prima arrivano le immagini e la musica, poi le parole scritte. Così forse in una frase si potrebbe riassumere quello che sta accadendo alla poesia contemporanea italiana. La parola è svalutata oltremodo, a discapito dell’immagine. Ma è solo questo? Il celebre Vittorio Sgarbi nella sua prima apparizione al Maurizio Costanzo Show dichiarò che la stragrande maggioranza dei pittori non erano intellettuali. Disse che lui di solito spiegava a loro il significato dei quadri. Era come se la pittura trascendesse gli artisti. Era solo una provocazione? Voleva solo stupire? Per Sgarbi era come se fossero ignari di quello che stavano facendo. Tutto ciò ricorda la scena de “La grande bellezza” di Sorrentino, in cui un’artista concettuale dice di essere ispirata dalle vibrazioni, ma quando Jep Gambardella gli chiede come può definirle queste vibrazioni, lei fa scena muta. È solo un film? Oppure corrisponde in alcuni casi alla realtà? Non so se sia vero. Lo prendo per buono, vista e considerata la grandissima competenza in materia di Sgarbi. Erano gli anni ottanta. Forse oggi le cose sono cambiate, dato che ci sono nell’arte contemporanea molti artisti concettuali e molti registi che fanno installazioni. Ma ancora oggi possono esistere pittori naif, pittori per dirla alla buona tutti inconscio e/o talento? La stessa cosa invece non può avvenire nella poesia contemporanea, dove ci deve essere una sintesi tra conscio e inconscio e dove talvolta si cerca di rimuovere l’inconscio? Pictura ut poesis? Oppure sono due cose separate e distinte? Nell’arte contemporanea l’intellettualità è lasciata in modo preponderante ai critici d’arte? Un pittore o uno scultore possono conoscere e metabolizzare tutta l’arte passata, tutta la tradizione in modo inconscio, mentre i poeti devono apprendere e rielaborare soprattutto consciamente? Oppure più semplicemente i pittori sono artisti visivi e hanno più difficoltà a esprimere verbalmente la loro intellettualità, che comunque hanno? La pittura non richiede forse anch’essa intellettualità? Personalmente tutte le volte che ho letto interviste a grandi pittori mi sono accorto che erano anche ottimi intellettuali. E allora forse l’opinione del celebre Sgarbi era un pregiudizio e non un giudizio? In fondo non sono proprio semiologi, linguisti e critici che definiscono il simbolo, tanto caro ai poeti, un segno-immagine? Inoltre va ricordato anche che nell’antologia “Il pubblico della poesia” Berardinelli e Cordelli scrivevano che i giovani poeti avevano meno consapevolezza (e perciò meno intellettualità) dei loro predecessori. E allora pictura ut poesis in chiave negativa? Il gruppo 63 e il gruppo 70 facevano anche poesia visiva e la loro ricerca sperimentale era anche verbo-visuale: le contaminazioni, gli interscambi erano ricorrenti. Per lo studio dell’ecfrasi nella Neoavanguardia vi consiglio di leggere i documenti della ricercatrice normalista Chiara Portesine su academia.edu. La grande poesia del Novecento, comunque, ad iniziare da Eliot e Pound per finire con il gruppo 63, è stata tutta intellettuale. E allora dovremmo concludere frettolosamente che la poesia è più mediata dalla ragione, dalla lucidità, dalla coscienza? Oserei affermare che oggi conti di più la poetica della poesia. Forse è solo questione di Kunstwollen, ma è difficile fare il processo alle intenzioni, alla volontà, dato che esiste sempre l’eterogeneità dei fini anche nell’arte. Ma anche questo non è forse vero nell’arte contemporanea dove conta di più l’ideazione, l’intuizione intellettuale che la tecnica e quindi la realizzazione? Ho scritto all’inizio che le immagini arrivano prima, forse perché siamo nella cosiddetta civiltà delle immagini e quindi queste acquistano priorità assoluta, forse invece perché la cosiddetta “emozione retinica” di un quadro o di una scultura “arrivano” prima, colpiscono di più il fruitore. Forse la fruizione di un quadro o di una scultura è più diretta, più immediata, più accessibile a tutti, anche se un fruitore di un quadro non può spiegare esattamente quello che prova a vederlo, comunque quell’opera gli suscita un’emozione, gli smuove qualcosa dentro, anche se non ha ricevuto un’alfabetizzazione pittorica. La poesia contemporanea invece non provoca più shock, non disturba i lettori, né li incanta o li suggestiona più? Questo probabilmente perché il pubblico non è educato al gusto, non riesce a cogliere più la poesia autentica, ma solo i suoi surrogati? Oppure forse questo può accadere anche nell’arte contemporanea, dove un geniale pubblicitario come Oliviero Toscani e un artista come Cattelan spesso sembrano scambiarsi i ruoli? Chissà?!? Ai poeti è chiesto di essere prima, durante e dopo l’atto della creazione degli intellettuali lucidi e sorvegliati. Finisce così che non si lasciano più andare alle emozioni e così i più non emozionano gli altri? Sembra perciò che ci sia una regola scritta nella poesia contemporanea per cui non bisogna emozionarsi né emozionare? E poi un’altra regola non scritta è quella di complicare le cose, scrivere in modo difficile e colmo di paroloni per apparire più intelligenti? Disse Picasso che tutti i bambini sono degli artisti nati, il problema è restarlo da grandi. I grandi pittori si sono saputi riscoprire bambini. Ciò non succede a buona parte dei poeti, troppo impostati, troppo assennati? I poeti nel corso del Novecento, parlo di quelli passati alla storia, sono forse troppo cerebrali? Nella lirica contemporanea la maggioranza degli stessi poeti a loro volta vestono i panni anche dei critici o dei saggisti: pontificano, spiegano, giudicano ma non emozionano più il pubblico. Sono allora troppo cerebrali, come un tempo si definivano quei mariti, oggi etichettati come cuckold, che amavano guardare la moglie fare sesso con amanti occasionali? È come se la poesia avesse perso il senso delle cose, la vera dimensione dell’essere? La situazione in cui si vengono a trovare i poeti oggi è innaturale. Hanno perso il contatto con il pubblico o meglio l’unico pubblico che esiste è quello della comunità poetica, in cui tutti scrivono versi, indipendentemente dal fatto che siano aspiranti, sedicenti o poeti riconosciuti. Un altro problema più basilare è che spesso tra contemporanei e connazionali neanche ci si legge. Molti scrivono e pochi leggono. Ancor meno sono quelli che leggono, hanno gli strumenti per valutare e poi giudicano obiettivamente. Tutto ciò è asfittico, mancano spiragli, l’orizzonte è angusto. La poesia non ha pubblico né mercato. Questo significa che c’è assoluta libertà interiore e di azione (i più però non agiscono in libertà perché hanno paura di rovinarsi la reputazione), ma che allo stesso tempo non essendo mercificabile in questa società non ha alcun valore o quasi. Eppure oggi molte poetesse italiane e molti poeti italiani varrebbe la pena di leggerli e anche di rileggerli. Sicuramente c’è anche del buono, anzi dell’eccellente, anche se gli italiani sembrano non accorgersene minimamente.