“La storia fantastica”: il film

Dopo avervi parlato del romanzo La storia fantastica (o, meglio, La principessa sposa), peraltro citando inizialmente l’omonimo film, non potevo non spendere due parole su quest’ultimo.
Come premessa, va detto che le trasposizioni cinematografiche dei romanzi sono un’opera ardua e difatti non sempre danno buoni risultati: alcune possono considerarsi veri e propri miracoli, perché riescono a mantenere l’essenza di un libro, anche se complessa (L’insostenibile leggerezza dell’essere, tratto dall’omonimo romanzo di Milan Kundera; La leggenda del pianista sull’oceano, tratto da Novecento, monologo teatrale di Alessandro Baricco …); altre sono delle vere e proprie porcherie (un esempio fra tutti, La casa degli spiriti che con l’omonimo romanzo di Isabel Allende ha ben poco in comune).
Ora, leggendo la scheda di presentazione della pellicola, ci sarebbe motivo di attendersi non dico qualcosa di mitico – come sembrava a me ai tempi della preadoloscenza – ma sicuramente qualcosa di piuttosto buono: alla regia Rob Reiner (Stand by me – ricordo di un’estate, Harry ti presento Sally, Misery non deve morire, Codice d’onore …), la bella Robin Wright (non ancora diventata moglie di Sean Penn) nei panni di Bottondoro (Buttercup nel romanzo), un giovane e smilzo Mandy Patinkin (il Gideon delle prime serie di Criminal minds) ad interpretare lo spadaccino Inigo Montoya, Peter Falk ad interpretare il nonno del piccolo Jimmy a cui viene narrata “La storia fantastica”; il wrestler Andrè the Giant nelle vesti del gigante Fezzik, Mark Knopfler tra gli autori delle musiche …
Bastano, però, le prime scene per capire che il film non è all’altezza del romanzo, nonostante la sceneggiatura sia stata curata dallo stesso autore, William Goldman.
Innanzitutto, non si capisce la ragione per cui il bimbo nel film si chiama Jimmy mentre nel libro è Billy (sarebbe, infatti, l’autore da piccolo) e perché a leggergli il libro non è il padre, come nella versione cartacea, ma il nonno. Inspiegabile poi il fatto che il gigante Fezzik cambi nazionalità, diventando – da turco che era, in armonia con il suo nome – groenlandese. Altro cambiamento tanto inutile quanto immotivato è la sostituzione degli squali con delle anguille giganti.
Fin qui, tuttavia, le differenze non sono poi così dannose. L’aspetto più negativo è legato, invece, al necessario taglio della trama: l’operazione di snellimento ha, infatti, privato in buona parte la storia di quel carattere innovativo e ironico che dà valore al romanzo. Resta sì una spiccata vena umoristica che rende la visione piacevole e la storia d’amore tra i protagonisti non stucchevole, ma si perdono molti elementi di rottura con gli schemi classici del fantasy e della fiaba, così che il risultato finale è in buona parte un cliché: Bottondoro, ad esempio, rimane bella e di animo fiero, ma non c’è traccia del suo scarso acume tantomeno del suo disinteresse per l’igiene personale (che viene invece messo in risalto nella prima parte del libro).
Anche quel messaggio che nel romanzo viene ripetuto come una sorta di mantra (“la vita non è giusta”) ha pochissimo spazio tra le battute del film (viene forse pronunciato una sola volta da Westley).
Fortunatamente non perde smalto il duello tra Inigo e l’uomo in nero (che – come ho già avuto modo di dire – può considerarsi massimo esempio di sportività): nella scena sono, infatti, riproposti più o meno integralmente i dialoghi tanto surreali quanto esilaranti tra i due. Non solo: è particolarmente apprezzabile lo stratagemma adottato da Goldman sceneggiatore di mettere in bocca ad Inigo, in questo punto della storia, il racconto del suo passato (illustrato, invece, nel romanzo dal narratore con un ampio flashback che interrompe per diverse pagine la trama principale).
Tirando le somme e ricollegandomi alla premessa, direi che in questo caso siamo davanti ad una trasposizione cinematografica non pessima, ma sicuramente neppure ben riuscita.
Marcella Onnis – redattrice