Cinquant’anni fa lo Statuto dei lavoratori e non solo

di Diego Giachetti

Sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso e per tutto il decennio seguente, l’attività del Parlamento sul fronte delle riforme riguardò vari aspetti dell’organizzazione istituzionale, sociale e politica del paese. Per alcuni provvedimenti legislativi si trattò di un vero e proprio “disgelo” costituzionale, uno dei punti più alti dell’attuazione dei principi della Costituzione, non della sua modifica, come si eserciteranno a fare le varie compagini governative di centro destra e centro sinistra negli ultimi trent’anni. Certa immagine trasmessa dalla cronaca politica nel periodo che va dal 1968 al 1972 ci consegna un succedersi di governi a breve termine, minati da crisi, rimpasti e ricostituzione di maggioranze, tutte per lo più nell’ambito dell’allora area di centro sinistra costituita dal Partito socialista, repubblicano, socialdemocratico e dalla Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa. Tuttavia, dietro questa immagine “carnevalesca” della politica si concretizzò un dinamismo riformatore, spesso sottovalutato o dimenticato, dovuto alla necessità politica dei due principali partiti componenti le maggioranze governative, la Dc e il Psi, che non potevano restare insensibili di fronte alla protesta sociale e politica innescata dalle lotte studentesche e operaie del biennio 1968-’69. I dirigenti di entrambi i partiti non potevano ignorare le richieste di cambiamenti provenienti dalle loro stesse organizzazioni collaterali, come le Acli e la Cisl, la Cgil e la Uil. Il Psi appena uscito sconfitto dalle elezioni politiche del 1968 e incalzato dall’affermazione dello scissionista Partito socialproletario (Psiup), costituitosi nel 1964, aveva tutto l’interesse ad animare con proposte e progetti la sua partecipazione alla maggioranza governativa. Spingeva in questa direzione anche l’esito del voto alle elezioni politiche del 1968 che registrarono l’avanzata elettorale dell’opposizione di sinistra, comunisti e socialproletari, mentre s’indeboliva la forza dei socialisti e dei socialdemocratici, componenti determinanti dei governi di centro sinistra a guida democristiana. Il “disgelo” costituzionale Il giudizio degli storici su quella che è stata chiamata la stagione delle riforme non è univoco. Si va dal riconoscimento esplicito della realizzazione di un vasto programma di riforme tale da connotare il decennio Settanta come la fase più significativa e intensa della storia della prima repubblica, a un giudizio più cauto propenso a segnalare che si trattò di riforme improvvisate, senza un piano programmato, che conduce a definirle occasioni di “riforme mancate”[1]. Resta il fatto che l’attività del Parlamento sul fronte delle riforme fu intensa e riguardò vari aspetti dell’organizzazione istituzionale, sociale e politica del paese. Per alcuni provvedimenti legislativi si trattò di un vero e proprio “disgelo” costituzionale, uno dei punti più alti dell’attuazione dei principi della Costituzione, non della sua modifica, come si eserciteranno a fare le varie compagini governative di centro destra e centro sinistra negli ultimi trent’anni. L’elenco è notevole e val la pena ricordarlo. Abbandonato il progetto di riforma scolastica del ministro Gui, oggetto scatenante della protesta studentesca, furono emanati diversi provvedimenti quali il riconoscimento del diritto di assemblea nelle scuole medie superiori, l’abolizione dell’esame di maturità ginnasiale e la liberalizzazione degli accessi all’università. Furono istituite le regioni, 22 anni dopo la disposizione costituzionale e furono indette le elezioni per i consigli regionali nel giugno 1970. Fu introdotto il referendum, anch’esso previsto dalla Costituzione, ma definito nei suoi meccanismi operativi solamente nel maggio 1970. Fu approvata la legge sul divorzio il 1° dicembre 1970. Il 22 maggio 1970 fu emanato un provvedimento di amnistia nei confronti dei circa 14.000 cittadini denunciati nel corso delle agitazioni dell’autunno caldo. Entrò in vigore una nuova legge urbanistica e per la costruzione delle case popolari (1971) e dei fondi rustici, con provvedimenti che avvantaggiavano gli affittuari. S’introdusse una legge tributaria con un nuovo sistema di tassazione progressiva (1971). Fu varata la legge sull’obiezione di coscienza (1972), il voto ai diciottenni e i “decreti delegati” per la scuola (1974), riscritto il diritto di famiglia (1975), legalizzato l’aborto (1978), riformato il sistema sanitario nazionale (1979) che garantiva a tutti i cittadini cure e assistenza medica e ospedaliera gratuite. Parallelamente altre riforme riguardarono il mondo del lavoro con provvedimenti legislativi e contrattuali che costituirono un “impressionante insieme di conquiste da parte del movimento operaio italiano, qualcosa per il quale è difficile trovare dei precedenti storici”[2]. Una situazione particolare, una bolla nella storia del capitalismo italiano che sarà progressivamente sgonfiata e stravolta a favore, nuovamente, della borghesia, mediante le varie controriforme che hanno azzittito quelle condizioni troppo vantaggiose per i lavoratori e le lavoratrici, i pensionati, i giovani in cerca d’occupazione. In generale quei provvedimenti e quelle riforme si basavano sul principio egualitario e contribuirono ad attenuare le differenze di classe e di ceto. La Costituzione entra nei luoghi di lavoro Nell’ambito del mondo del lavoro, riforme e provvedimenti riprendevano per attuarli indicazioni dettate da organismi internazionali e recepiti dalla carta costituzionale. Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, approvata all’assemblea delle Nazioni Unite nel 1948, l’articolo 23 affermava il diritto al lavoro, alla libertà di scelta dell’occupazione, a giuste condizioni di lavoro, alla protezione dalla disoccupazione; ribadiva il principio di remunerazione eguale a parità di lavoro che deve essere adeguata a garantire per sé e per la famiglia un’esistenza dignitosa, integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. Non a caso la Costituzione si apre con l’affermazione che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” e prosegue nell’articolo 4 col riconoscimento a tutti i cittadini del diritto al lavoro, promuovendo le condizioni che lo rendono effettivo. Di seguito le osservazioni costituzionali circa il lavoro diventano più dettagliate e riguardano la sua tutela in tutte le sue forme ed applicazioni, la cura, la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori (art. 35), il diritto ad una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36). E ancora, all’articolo 37: “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”; “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria” (art. 38). Infine, si puntualizza che “l’organizzazione sindacale è libera” (art. 39). Riforme per i lavoratori Un attimo prima dell’autunno caldo si ebbe l’abolizione delle gabbie salariali, quel meccanismo che, a parità di lavoro svolto, differenziava il salario in base alle aree geografiche nelle quali si svolgeva l’attività lavorativa. La Legge 1.115 del 1968 istituì la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria che integrava quella ordinaria e prevedeva la possibilità, anche per i lavoratori di aziende costrette a sospendere per processi di ristrutturazione, di usufruire erogazioni dell’INPS a copertura di una parte del reddito venuto a mancare. Poi venne la riforma delle pensioni e lo Statuto dei lavoratori, provvedimenti dovuti all’impulso del socialista Giacomo Brodolini (1920-1969), già militante nel Partito d’Azione, poi dal 1948 nel Partito socialista, vicesegretario nazionale della Cgil (1955-1960). Eletto deputato nel 1953 e senatore nel 1968, nel dicembre di quell’anno divenne Ministro del lavoro e della previdenza sociale nel primo governo di Mariano Rumor (1968-1969) e, in tale ruolo, promosse un’attività legislativa in materia previdenziale e sindacale e fu uno dei principali sostenitori dello Statuto dei lavoratori, divenuto poi legge nel maggio 1970. Nel 1969, con la legge del 30 aprile, n. 53, fu riformato il sistema pensionistico che, per l’epoca, divenne uno dei più avanzati d’Europa. La riforma stabiliva l’adozione generalizzata della formula retributiva per il calcolo della pensione. L’ammontare della pensione non dipendeva più solo dai contributi effettivamente versati – come avveniva fino allora col sistema detto contributivo (oggi osannato come il giusto del giusto dal liberismo sfrenato) – ma si legava alla retribuzione percepita negli ultimi anni di lavoro al fine di garantire lo status acquisito durante l’attività lavorativa. Inoltre, istituiva la pensione sociale per i cittadini ultra sessantacinquenni sprovvisti di assicurazione e privi di un minimo di reddito e quella di anzianità, con trentacinque anni di contribuzione. Introduceva la perequazione automatica delle pensioni, consistente nella loro rivalutazione in base all’indice dei prezzi al consumo.

Lo Statuto dei lavoratori

Sempre per merito di Giacomo Brodolini fu istituita una commissione nazionale per la redazione di una bozza di statuto dei lavoratori alla cui presidenza fu chiamato Gino Giugni, anch’egli socialista che approntò un disegno di legge col quale si dichiarava di voler “contribuire a creare un clima di rispetto della libertà e della dignità umana nei luoghi di lavoro, riducendo l’arbitrio nell’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare dell’imprenditore”. Il disegno di legge accoglieva suggerimenti e spunti derivanti dal progetto, presentato al Congresso di Napoli della CGIL del novembre 1952, durante il quale Giuseppe Di Vittorio sollecitò l’approvazione di uno “Statuto dei diritti dei lavoratori”. Brodolini che tanto si era speso per promuovere questa legge, non la vide venire alla luce, morì prematuramente l’11 luglio 1969, poco dopo l’approvazione strappata al Consiglio dei ministri. S’impegnò fortemente per l’approvazione della legge da parte del Parlamento il successore, il democristiano Carlo Donat Cattin, ex-sindacalista della Cisl torinese. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, votato prima al Senato, fu poi approvato definitivamente il 20 maggio 1970 (legge 300) anche dalla Camera con 217 voti a favore da parte dei partiti del centro sinistra e del Partito liberale; si astennero i comunisti e i socialproletari, votarono contro gli esponenti del Movimento sociale. Il «Corriere della sera» del 15 maggio raccontava del ruolo di protagonista del ministro del lavoro Carlo Donat Cattin nel promuovere la legge. Egli non ha fatto la parte del pompiere, si leggeva, la sua azione è «permeata di asprezze polemiche. Gli imprenditori e le forze politiche moderate – non escluse quelle che militano nella Dc – sono state i bersagli delle ripetute tirate del ministro». Sul quotidiano «L’Unità» del 15 maggio 1970, i comunisti spiegarono la loro astensione motivandola con le lacune che la legge conteneva, che lasciavano “ancora molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato” ed escludeva dalle garanzie previste i lavoratori delle aziende fino a 15 dipendenti; riconoscevano però che la legge garantiva una serie importante di diritti ai lavoratori. “Lo statuto dei lavoratori è legge”, titolò a tutta pagina il quotidiano socialista «L’Avanti!» del 15 maggio e l’articolo di fondo, significativamente intitolato “La Costituzione entra in fabbrica”, elogiava “il riconoscimento esplicito di una nuova realtà, dopo le grandi lotte d’autunno”, affermava che lo Statuto poneva fine a situazioni di fabbrica dove le garanzie costituzionali riguardanti i diritti civili e politici dei lavoratori erano ampiamente ignorate. In effetti, nell’ambito della giurisprudenza del lavoro esso divenne la fonte normativa più importante nel nostro ordinamento, dopo la Costituzione. La legge n. 300/1970 si articolava in 41 articoli che ponevano una serie di diritti: di associazione e di attività sindacale, col divieto per il l’imprenditore costituire o sostenere associazioni sindacali; delle rappresentanze sindacali a controllare che fossero applicate le norme atte a tutelare la salute dei lavoratori; di riunirsi in assemblea, di indire referendum su materie inerenti all’attività sindacale; alla libertà di pubblicazioni di testi e comunicati inerenti materie di interesse sindacale e del lavoro; di utilizzo di locali all’interno dell’azienda, di raccogliere contributi e svolgere opera di proselitismo. Inoltre, al fine di promuovere l’attività sindacale, potevano essere concessi permessi per i dirigenti provinciali e nazionali dei sindacati, e i lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali, nonché a svolgere funzioni pubbliche elettive, avevano diritto all’aspettativa non retribuita e al mantenimento del posto di lavoro; l’azienda doveva concedere permessi di lavoro agli studenti lavoratori. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori Infine, il famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, riguardante la tutela e la conservazione della posizione di lavoro acquisita, applicato solo alle aziende con almeno 15 dipendenti, stabiliva la validità del licenziamento solo per giusta causa o giustificato motivo. In assenza di questi presupposti, il lavoratore poteva fare ricorso alla magistratura e il giudice, se riconosciuta l’illegittimità dell’atto di licenziamento, era obbligato ad ordinare la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e il risarcimento degli stipendi non percepiti, oltre che il mantenimento del medesimo posto che occupava prima del licenziamento. Si trattava di un passaggio che poneva forti limiti alla libertà di licenziare da parte delle aziende e, oltre a elencare tutti i casi nei quali la dismissione dei dipendenti non era permessa, proibiva l’utilizzo di guardie giurate con fini diversi dalla tutela del patrimonio e degli strumenti audiovisivi per il controllo delle maestranze. Una prima modifica di tale articolo avvenne con la legge n. 92 del 2012, conosciuta come legge Fornero durante il governo Monti, con l’introduzione del licenziamento motivato da ragioni inerenti “l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa”; si poteva cioè licenziare il personale quando calava la produzione, oppure si ristrutturava l’impostazione dell’organigramma produttivo. L’articolo 18, già modificato, è stato abrogato il 29 agosto del 2014, in seguito alla promulgazione e attuazione del Jobs Act da parte del governo Renzi, rimanendo in vigore per i soli rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015. Da tale data per i nuovi contratti a tempo indeterminato si applica la disciplina del cosiddetto contratto a tutele crescenti, in pratica si può essere licenziati in qualsiasi momento e senza particolari motivazioni. Il reintegro è un evento eccezionale e la procedura per ottenerlo un labirinto quasi impercorribile.

[1]Questi tre giudizi sono espressi rispettivamente in Giuseppe Mammarella, L’Italia contemporanea 1943-2011, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 428, Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989, p. 442, Guido Crainz, Il paese mancato, Roma, Donzelli editore, 2003, p. 419 [2] Giuseppe Maione, L’autunno caldo, Roma Manifestolibri, 2019, p. 218

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