Ciao Kelledda Murgia

Michela Murgia in quasi Grazia. Foto by Alessandro Cani

di Marcella Onnis

Sono passati giorni dalla morte di Michela Murgia, eppure siamo in tanti a non riuscire ancora a credere che davvero sia accaduto. Al contempo, però, resiste anche la sensazione che lei sia più viva che mai. In forma di parole e pensieri, di entità osservante, di spirito guida, di quel che volete, ma è comunque una presenza percepibile.

Salutando l’amica, Giulio Cavalli ha scritto che Michela Murgia non amava l’ipocrisia, quindi sarò sincera: me ne sono “innamorata” dopo aver letto “Accabadora” poi, a un certo punto, ho iniziato a trovare irritanti alcuni suoi modi e ad avere l’impressione che delle volte cercasse la polemica fine a sé stessa. Senza dubbio non era e non è un personaggio pubblico che lascia indifferenti. Né ha mai usato quel fare democristiano che consente di andare a genio a quasi tutti. Non so se a muoverla siano state sempre e solo un’indole impetuosa e la profonda convinzione di ciò che pensava e diceva. Certo è che ha lasciato un segno indelebile nella nostra cultura (mancherà anche ai suoi detrattori come sicuramente Silvio manca a Travaglio) e nella nostra società.

Personalmente, pur con giudizi altalenanti su singole affermazioni, ho mantenuto costanti alcune idee su di lei: che fosse, anzi, no, sia una bravissima scrittrice e un’abilissima oratrice (più volte l’ho ascoltata dal vivo restandone incantata); che era e resta una donna colta e dotata di grande capacità dialettica (sicuramente superiore alla media, tant’è che per controbattere alle sue affermazioni raramente venivano sfoderati argomenti più validi, articolati e pertinenti delle critiche al suo aspetto fisico). Era poi una persona indubbiamente carismatica e anche una notevole attrice: a teatro fu – almeno per me – una intensa e credibilissima Grazia Deledda. Più di tutto, però, Michela Kelledda Murgia era una intellettuale vera. È caratteristica distintiva di questa figura, infatti, sapere cogliere in anticipo i mutamenti, soprattutto sociali e politici. Lei lo ha fatto, per esempio, quando – ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina – ha decifrato la svolta bellicista che il nostro Paese stava avviando.

Avendo premesso di voler essere sincera, ci tengo a precisare che la sua morte non mi ha resa acritica nei suoi confronti: continuo – tanto per dirne una, anzi, un paio alla sarda –  a pensare che la scrittura in “Chirù” fosse spocchiosa e che il concetto di “matria” o il test per verificare se si è fascisti fossero delle sciocchezze.

L’eredità che ci lascia (con la libertà di farne quel che ci pare, soprattutto se non ci si riconosce nel suo pensiero), però, non è solo culturale, politica e sociale. È anche individuale, intima. Penso non solo alla sua idea di amore e di famiglia, ma anche e soprattutto al modo in cui Murgia ha reagito alla sua ultima e mortale malattia. Ha spiegato lei stessa di non esserci arrivata da sola, ma finora nessuno con una tale visibilità ci aveva mostrato una prospettiva così inusuale – direi, rivoluzionaria – dalla quale guardare a un cancro, che per tantissimi di noi è il male più odiato perché ci ha portato via persone care. Un simile modo di affrontare la malattia, tuttavia, non è possibile solo con un approccio medico o comunque razionale: occorre anche una grande spiritualità ed è noto che Michela Murgia fosse – ed è – una donna di fede, di fede profondamente cattolica. Da lì, da questa sua spiritualità, io credo venisse quella luce nuova che negli ultimi mesi faceva brillare il suo sguardo e ammorbidiva non solo i suoi toni ma anche i suoi pensieri. Gli hater indefessi l’hanno descritta incattivita fino alla fine. Troppo difficile, in questo mondo polarizzato, riconoscere in chi ha idee opposte ciò che si è pronti a vedere e lodare nei propri “eroi”: l’attaccamento ai propri valori, il bisogno di difenderli fino all’ultimo e di assicurarsi che altri prendano il testimone. Chi ha provato a osservarla con onestà intellettuale, invece, ha capito che Michela Murgia si trovava in una sorta di stato mistico (mi è venuto da pensare “Era piena di grazia”) e che il suo fosse un fervore costruttivo e non distruttivo, proiettato in una dimensione futura e collettiva, ispirato a un pro che solo per forza di cose diventa anche un contro. Credo che Murgia desiderasse – tra le altre cose – sfruttare fino all’ultimo il tempo utile per provare a costruire la società che desiderava e per esortare tutti noi che condividiamo (pur con sfumature diverse) quell’idea più inclusiva e libera di mondo a proseguire il cammino che lei non si è mai stancata di percorrere. Da qui la sensazione forte che ho da giorni e che so essere comune a migliaia di altre persone di avere un impegno morale con lei. Sono certissima che Kelledda è da qualche parte e che ci vede. E siccome continua a parlarci insistentemente, non possiamo fare finta di non sentire il suo incitamento, anche perché troverebbe sicuramente il modo di comunicarci il suo disappunto.

Noialtri dobbiamo, dunque, onorarlo, questo debito morale. Consapevoli – come lo è stata lei fino all’ultimo respiro – che oggi schierarsi nettamente su determinate posizioni costa più di prima e – almeno per un bel pezzo – costerà sempre più. Sarà, però, sempre Michela Murgia a ricaricare il nostro coraggio. Mi viene in mente, in particolare, un passaggio di “God save the Queer”, che ho letto in tempi recenti e che ho amato quanto “Accabadora”, seppure in modo e per motivi molto diversi, perché è un libro per anime irrequiete. Il passaggio che ho in mente è riferito specificamente alla religione cattolica, ma calza bene per ogni credo, anche politico: «[…] la speranza vissuta nella fede non è la semplice fiducia nel fatto che le cose che facciamo andranno a buon fine: è piuttosto la certezza che fare determinate cose abbia un senso a prescindere dal modo in cui andranno a finire». Quindi, Kelledda, proveremo a perseguirlo anche noi ogni giorno, quel senso.

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