Sulla poesia di Eros Alesi, ormai dimenticato…

Alesi

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Eros Alesi morì suicida nel 1971, non ancora ventenne, gettandosi dal muro Torto a Roma. Alcuni quotidiani scrissero solo dei trafiletti, etichettandolo come sbandato, drogato, capellone. Ma era un buon segno, il segno inequivocabile della genialità artistica: al funerale di Mozart c’erano solo 14 persone, al funerale di Rimbaud c’erano solo sua madre e sua sorella. Aveva con sé un borsello, contenente 30 lire e una foto del padre. All’amico Remo Morcone aveva lasciato i suoi scritti, le sue poesie, che vennero pubblicate nell‘Almanacco, nelle antologie di Cordelli e Berardinelli, di Porta, di Manacorda. Vennero raccolte in un volume di Stampa alternativa. Oggi Alesi è stato tradotto ed è conosciuto all’estero, ma in Italia su di lui è caduto l’oblio. Innanzitutto lui si drogava e negli anni ottanta e novanta vennero rimosse le grandi piaghe giovanili degli anni settanta: la lotta armata e la droga. In secondo luogo la stroncatura di Pasolini, che considerava Alesi un “giovane debole e ignorante” che scriveva “miseri versi”, ebbe la meglio. In terzo luogo la poesia, intesa come pura espressione e pura nudità dell’essere di Alesi, non poteva che essere dimenticata tra “poeti laureati”, tra poeti-critici. Tra tutto questo florilegio di poesia intellettuale, dove tutti esplicitavano con la critica militante o accademica, con articoli, saggi, interviste, prose le loro poetiche e le loro visioni del mondo, Alesi era solo un poeta-ragazzo, ma più poeta di tanti altri per il suo sguardo obliquo e allucinato, per la sua disarmante semplicità, per le sue felici intuizioni, per il suo dar voce come nessun altro al disagio esistenziale giovanile. Insomma Alesi era morto, sepolto, dimenticato, per altri era come se non fosse mai esistito. Manacorda scrisse che Alesi ci parlava da un oltre. Il lato edipico contrassegnò tutta la sua giovane vita: il padre alcolizzato e amato non lo amava e lo picchiava, la madre impotente non poteva o non voleva fare niente per difenderlo. La psicanalisi ci insegna che i rapporti con le figure parentali segnano per sempre la vita psichica e sociale di tutti, che ogni nostro rapporto futuro è deciso, almeno qui in Occidente, da quella relazione triangolare (bambino o bambina, madre e padre). L’amore di Alesi non fu mai ricambiato perché era un bambino che amava e che non aveva amore. La poesia di Alesi non può che essere analizzata in modo psicodinamico. La psicanalisi ci insegna che l’infanzia è determinante: chi ha un’infanzia infelice per mancanza di amore genitoriale o per assenza di un genitore ricercherà ossessivamente il padre e/o la madre nella vita adulta, al contrario un individuo con un’infanzia felice potrà ancorarsi e aggrapparsi saldamente all’infanzia felice, pur vivendo tutte le sciagure di Giobbe; questo è il paradosso della psicanalisi, questo è il paradosso di Alesi, che cercò amori (anche omosessuali) nella sua giovane vita, senza trovare mai l’amore primordiale che non aveva mai avuto. Non solo ma l’amore adulto è un gioco a incastro tra i corpi, è appagamento materiale, è materialismo e/o mercificazione, è darsi l’orgasmo. L’unico grande amore disinteressato e totalizzante è quello genitoriale. Valgono più gli abbracci dei genitori a un bambino di tutto il kamasutra sperimentato da adulti. E il giovane poeta quell’amore disinteressato e totalizzante non lo ebbe mai. In Alesi prevale sempre il corpo e lo spirito si esprime solo con la poesia perché il poeta aveva imparato a sue spese che Dio, incarnato nel padre, non era amore. Non solo ma suo padre morì prima ancora che lo avesse ucciso simbolicamente. Da qui scaturisce oltre al dolore di non essere amato il dolore per la scomparsa e la rabbia si tramutò in senso di colpa associato a un lutto, mai veramente rielaborato: l’assenza di amore primigenio divenne morte dell’amore. Amore e morte coincisero, divennero un’unica cosa. Un padre ingiusto e violento si può odiare fin che è in vita, fino a quando c’è speranza di riconciliazione, ma la morte nullifica ogni poter essere, nullifica ogni possibilità: si può solo ricordare, perdonare, pregare. All’ingiustizia di avere avuto un cattivo padre si somma l’ingiustizia ancora più atroce della morte del padre. E la poesia di Alesi è sia preghiera laica, come intuisce Manacorda, che memoria. La poesia di Alesi non scaturisce dal narcisismo o dalla nevrosi, ma dal ricercare e trovare nella poesia un’esperienza costitutiva della coscienza e della realtà, associata a uno smarrimento, a un’angoscia di separazione atavica, ancestrale. Inoltre non si può intuire il grande talento del poeta se non si tiene presente la sua tossicodipendenza e se non si considera che la droga non aiutò Alesi artisticamente ma solo gli tolse forza espressiva e lucidità: il poeta scrisse nonostante la morfina e non grazie alla morfina; senza la droga sarebbe addirittura stato un poeta molto più longevo, più bravo, più importante. La droga gli dava uno stato alterato e non uno stato espanso di coscienza. Alesi ci parla da un oltre, la sua poesia proviene dall’oltre perché il poeta conosce il Nulla, pur non essendo nichilista, si suicida, pur amando la vita. La morfina divenne il surrogato della madre. Il suo paradiso artificiale gli diede la forza di sopravvivere, di rimandare il suicidio, così come il suo vitalismo disperato, la sua ricerca di amori e amicizie, i suoi viaggi nel mondo, il manicomio, le fughe da casa, il dormire in una baracca. Il poeta cercò di fuggire da tutto, ma non poteva certo fuggire da sé stesso, dal suo io che riproponeva le figure del padre, della madre, di lui bambino. Alesi da un lato era già morto prima di suicidarsi, dall’altro aveva una grande voglia di conoscere, di viaggiare, di amare, di essere amato e di dare il suo apporto alla trasformazione radicale di una società ingiusta, paludata. Il poeta scriveva da un oltre, un oltre non solo esperenziale-mentale ma ideologico e filosofico perché aveva oltrepassato e superato istituzioni, famiglia, cultura, società della sua epoca. Ma al di là di ogni interpretazione psicologica o sociologica la sua poesia ci dà lo shock di cui scriveva W.Benjamin, lo Stoss di cui scriveva Heidegger, insomma più semplicemente è sorprendente perché straniante. Alesi per tutte queste cose fu il poeta per antonomasia del Beat italiano. Ma oggi anche il Beat italiano è dimenticato. Così Alesi è morto due volte. Il tempo non ha ancora fatto giustizia e i critici letterari, gli addetti ai lavori guardano altrove, mentre dovrebbero considerare quell’oltre, quella zona morta della percezione, quei meandri dell’inconscio, quell’impasto di vita e morte che espresse compiutamente Alesi.

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