Perché leggere “La mia maledizione” di Alessandro De Roma

di Marcella Onnis

Con La mia maledizione, Alessandro De Roma debutta con la Einaudi e si può dire che il “colpaccio” l’abbia fatto più la casa editrice che lui perché un autore così bisogna accaparrarselo subito e tenerselo stretto.

Il suo quinto romanzo è stato presentato a Cagliari martedì scorso, 25 febbraio 2014, dall’autore stesso in compagnia del giornalista e scrittore Anthony Muroni, con il supporto di Lìberos e di un pubblico numeroso e molto partecipe.

De Roma, che quando scrive trasmette disillusione e apparentemente cinismo, di persona comunica, invece, calore e positività, oltre che una timida ma concreta fiducia nell’Uomo e nel Futuro. Un vero piacere, dunque, ascoltare i suoi interventi, alla ricerca di conferme o smentite delle proprie impressioni, alla scoperta dell’uomo dietro lo scrittore.

«Perché raccontare proprio dell’adolescenza?» gli ha chiesto Muroni. «Perché per uno scrittore prima o poi quel polo di attrazione che è l’adolescenza diventa irresistibile.» ha risposto. E lo è forse per quello che lui stesso afferma nel romanzo: «L’onnipotenza quando si è adolescenti è il regalo più grande che si possa ricevere, perché equivale a permanere con un piede almeno nella tanto rimpianta infanzia e nel groviglio inestricabile di tutte le possibilità inespresse […]» Ma quando Muroni ha evidenziato il contrasto tra i sentimenti di felicità e speranza tipici dell’adolescenza e il clima privo di spensieratezza, rassegnato, se non anche conflittuale, che aleggia nella società, De Roma ha dato di questa fase della vita un’interpretazione differente: «Credo che l’adolescenza come periodo felice sia più un mito: gli altri ti caricano di aspettative; si viene valutati ogni giorno nella capacità di socializzare, di realizzarsi… Un adolescente è esposto a tutto. È il protagonista perfetto per un romanzo di avventura.» E successivamente, riprendendo l’argomento, ha concluso che «in fondo tutti i libri sono libri sull’adolescenza perché è il momento in cui si fanno delle scelte determinanti

Questo in ogni tempo, per chi è stato adolescente dieci, venti o trenta anni fa come per chi lo è oggi. Rispondendo a una lettrice diciottenne, però, De Roma ha chiarito che nota una differenza: «I ragazzi adesso hanno un incredibile bisogno di toccarsi, di stare assieme. Ai miei tempi non succedeva. E questa cosa qui mi sembra un segno di fragilità, del bisogno di sentirsi amati. C’è un continuo esame della propria socievolezza. C’è un bisogno continuo di essere amati, accettati, popolari, all’altezza delle aspettative. C’è tutto un mondo che da un lato ti consola e dall’altro ti dice “Ma non sarà un po’ colpa tua se ti manca qualcosa?”. Perché nell’adolescenza ti manca sempre qualcosa

Questa storia di adolescenti, ha raccontato l’autore, è nata di getto (anche se alla rifinitura ha dedicato molto tempo) e «i personaggi sono nati come qualcosa di autonomo. A un certo punto si sono imposti.»

Il primo personaggio è Emilio Corona, protagonista e io narrante. Visto da fuori, si può definire un ragazzo baciato dalla Fortuna: ricco, intelligente, buono, con una vita, per così dire, in discesa… Ma visto “da dentro”, visto con i suoi stessi spietati occhi, Emilio è anche impuro, meschino, infelice e in bilico tra la strada piatta e comoda che altri gli hanno spianato e la strada scomoda, vitale ma impopolare che la sua vera indole gli chiede di costruirsi con l’amico Pasquale. In lui c’è della cattiveria che non ha alibi ed Emilio – più intellettualmente onesto di noi (forse perché è un personaggio fittizio?) – neppure ne cerca. Però, c’è anche la tendenza a sbagliare cui è indotto chi, come lui, non sta bene con se stesso e ha un bisogno patologico di conferme, come sembra suggerire questo suo pensiero: «[…] ogni volta che mi sentivo amato, avevo subito l’impressione di derubare il mondo e usurpare un diritto che non era mio.» L’autore l’ha presentato così al pubblico cagliaritano: «Emilio si pone dei problemi morali e ci racconta i suoi fallimenti in maniera masochistica. Noi sappiamo vederlo in quel modo lì perché parla lui, altrimenti, visto da fuori, tutto questo non lo vedremo.»

E dobbiamo ringraziare la sua autoaccusa perché, senza di essa, faticheremmo a ricordarci che un gesto generoso, apparentemente altruista, può nascere da motivazioni poco nobili. Il donarsi con autentica gratuità è capacità di pochi: in tanti ci aspettiamo almeno riconoscenza, che è pur sempre una pretesa di ricompensa. E forse, proprio come Emilio, più di uno di noi – almeno una volta nella vita – è stato mosso a compiere “gentilezze” per ragioni anche più subdole e deplorevoli: il piacere di umiliare l’altro, di metterlo in condizioni di esserci debitore, di rimarcare una qualche nostra forma di superiorità…

Poi c’è Pasquale Cosseddu, detto “La Fogna”: povero, trasandato, quasi ripugnante, chiuso, solo, folle, ma dotato di grandi pregi che solo Emilio potrà scoprire, faticando comunque a riconoscerne l’esistenza. «Cosseddu – sintetizza De Roma – è un personaggio drammatico ma anche libero, vivo.» Talmente vivo che, nel rapporto con lui, Corona da dominatore che era si ritroverà in qualche misura dominato.

Due personaggi opposti, «due parallele che, come spesso accade nella vita, sembrano non doversi incontrare mai e invece si intersecano.» ha commentato Muroni. E questa intersezione sarà maledetta come un patto di sangue: ne scaturirà un rapporto asfissiante, morboso e, come tale, anche conflittuale, che porterà i due ragazzi apparentemente ad allontanarsi ma nei fatti – con sempre maggiore consapevolezza da parte di Emilio – a rendere l’uno (Cosseddu) parte integrante dell’altro (Corona).

De Roma, su domanda di Muroni, ha spiegato che in entrambi i personaggi c’è qualcosa di lui, «ma – ha aggiunto – sono anche il coro che c’è intorno a loro. Perché sono gli altri a costruire questi personaggi.» «E uno di questi – ha specificato – è la scuola, l’insieme degli studenti. Noi abbiamo avuto l’incubo di diventare un Cosseddu, ma siamo anche parte di quel coro che ha contribuito a farlo diventare tale.» Perché la scuola «[…] sebbene abbia per scopo principale quello di aiutare gli esseri umani a costruire la propria vita, è fin troppo chiaro che può servire altrettanto bene a distruggerla.» Parole molto forti che, scritte da un insegnante, fanno ancora più effetto.

Colpisce molto in questo romanzo la capacità di analizzare e descrivere le dinamiche interpersonali, soprattutto quelle più sconvenienti, imbarazzanti o poco onorevoli. E se il romanzo – come ha evidenziato uno dei tanti lettori intervenuti – risulta spiazzante non è solo per gli sviluppi della trama – che, comunque, «non poteva che andare in quel modo», a detta dello stesso De Roma – ma anche e soprattutto per l’evoluzione dei personaggi (Emilio su tutti) o dell’idea che, attraverso gli occhi del protagonista-narratore, di essi il lettore si fa (emblematici mamma e papà Corona).

Ma cos’è questa maledizione di cui parla il titolo? Sarebbe consolatorio se riguardasse solo Corona o, al più, solo gli adolescenti, come abbiamo provato a raccontarci durante la presentazione cagliaritana, peraltro senza crederci davvero del tutto. Abbiamo, infatti, ammesso almeno che lo sia o possa esserlo anche per quelli che, pur anagraficamente adulti, ancora non sono usciti dall’adolescenza. Quelli che, come chi scrive e come Emilio, si sentono «un bambino fuori tempo massimo».Il protagonista, infatti, diventa adulto ma, come opportunamente sottolineato da una lettrice, «dall’adolescenza esce solo nell’ultima pagina». E la sua/loro/nostra maledizione non è tanto avere un Cosseddu, ossia un amico – ma potrebbe essere anche un partner – con cui si è sviluppato un rapporto di odio e amore, di attrazione e repulsione. È più che altro il fatto di possedere, almeno in potenza, quel meccanismo mentale orribile che, a differenza di Emilio, fatichiamo a confessare a noi stessi e certo non osiamo confessare agli altri: «[…] il fastidio nei suoi confronti restava, ed era anzi acuito proprio da questa venerazione: più mi infastidiva, più mi era necessario; più mi sentivo indegno di essere amato, più desideravo che mi amasse ancora di più; «[…] quando si tratta male qualcuno, è perché si dà per scontato che non possa smettere di starci accanto

E se di questa maledizione non si è vittime consenzienti, può essere che comunque, nel silenzio della propria segreta e inviolabile intimità, si possa ammettere di esserlo almeno di un’altra: provare vergogna per un amico/amore/episodio del passato e rinnegare, per paura d’esser derisi o non accettati, il grande valore che allora gli si attribuiva e che tuttora una parte di sé seguita a dargli. Una maledizione, questa, che ne chiama un’altra: l’essere parte attiva nella maldicenza. Santo chi non ha di che arrossire mentre Emilio si confessa: «[…] e la maldicenza, che tanto disprezzo negli altri, si impossessa con tutte le forze di me, non lasciandomi, dentro l’animo, neppure un angolo ancora puro e pacificato.» E dritto in Paradiso vada chi non ha da temere il rimprovero di Patrizia, personaggio che nella vita di Emilio ha un ruolo più determinante di quel che – a primo incontro – potrebbe sembrare: «[…] a forza di riempirsi sempre la bocca di brutte parole, si finisce per diventare brutti a nostra volta, perché le parole sono la nostra anima: e in un modo o nell’altro ci escono dagli occhi.»

Come opportunamente rilevato da Muroni, i due personaggi principali «[…] crescono e fanno uno sforzo di autocoscienza. Si sforzano di guardare cosa sono diventati.» E i loro parametri di giudizio li ha indicati l’autore: «C’è la prospettiva della misura del proprio coraggio davanti alla vita, ma c’è anche un altro metro di paragone: il rapporto con la Natura [che una lettrice ha identificato come terzo protagonista del romanzo]. Più i due ragazzi tradiscono la Natura, la Terra, la Sardegna, Nuoro, più tradiscono la vita, la felicità.» Ossia tradiscono se stessi («[…] nessuno di noi due era diventato la persona che avrebbe potuto essere.»)  perché tradiscono la Natura, che «è vita», come ha sottolineato Muroni. E, alla fine, ha fatto notare lui stesso, «la Natura – impersonata per l’occasione dalla località di Capo Caccia – presenta il conto».  Un’interpretazione confermata dall’autore: «Si violenta se stessi perché si violenta la natura, la bellezza, la propria terra». E ha ragione De Roma a dire che questo romanzo, se non fosse stato per la lunghezza, sarebbe stato perfetto per la raccolta Sei per la Sardegna: assolutamente in linea con lo spirito dell’introduzione e in totale armonia con il brano di Fois, L’infinito non finire, e i suoi dolorosi “ho tradito”. Per i due ragazzi – come, purtroppo, per molti di noi – l’esito dell’esame di coscienza ha, dunque, il sapore agro del tradimento e del naufragio, per usare un altro termine dell’autore. Non solo: ha aggiunto De Roma che «c’è un’autocoscienza distruttiva [in Emilio]: “Scelgo di tradirla e ne traggo piacere.”» Ma pure «c’è una speranza che la purezza possa resuscitare. Perché la Natura resta sempre bella, resta sempre un rifugio.» E «più Corona impara ad accettare la sua colpa, più diventa migliore.»

In chiusura dell’incontro Muroni ha definito La mia maledizione un «libro intelligentemente introspettivo». E ha aggiunto che «introspettivo spesso vuol dire anche essere doloroso e quindi pesante; invece questo libro sa essere lieve. Perché è scritto bene.» E che sia un “libro intelligentemente introspettivo” non c’è ombra di dubbio. Certo, per chi ha vissuto la lettura come uno schiaffo in pieno volto concordare sul lieve è arduo; tuttavia, è vero che l’eleganza dello stile ha un po’ alleggerito il “pesantissimo peso” di queste pagine. Forse perché – come scrive l’autore per bocca di Emilio – «[…] anche quando ferisce, la poesia lo fa con una sapienza tale da rendere accettabile, se non perfino desiderabile, il dolore che nella vita normale non sappiamo sopportare.»

E con poesia è scritto anche questo passaggio che sarebbe bello portarsi dietro come eredità morale: «[…] mi avrebbe perdonato [Cosseddu] per non aver saputo seguire, quando ancora si poteva, la brezza leggera che libera le fronde e serve ad abbattere la maldicenza e le chiacchiere e le frasi ridonanti che uccidono un uomo: colui che resta, come colui che se ne va.»

 

 

 

Foto Giuseppe Argiolas

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