“Sulla faccia della terra” ci insegnano a stare i personaggi di Angioni

primo piano di Giulio Angioni

È un romanzo dal forte spirito comunitario, l’ultimo libro di Giulio Angioni. Da questa pluralità di voci e vissuti arrivano a noi – che “sulla faccia della terra” ci stiamo oggi – esortazioni che non possiamo lasciar cadere nel vuoto.

copertina del romanzo Sulla faccia della terra di Giulio Angionidi Marcella Onnis

L’ultimo libro di Giulio Angioni, “Sulla faccia della terra”, ha sì un narratore principale (il sardo Mannai Murenu), ma è un romanzo collettivo o, meglio ancora, comunitario. Esso narra, infatti, le vicende di una comunità che, per necessità, sorge e si sviluppa su un’isola. Fragile ma tenace, tale comunità tiene letteralmente in vita i protagonisti, scampati alla distruzione della loro città, Santa Gia, ad opera dei pisani, in guerra contro i genovesi per il controllo del giudicato di Cagliari, di cui questa città è (ed era storicamente) capitale.

Di romanzo comunitario, però, si può parlare anche perché presenta altre voci narranti, in particolare quelle delle due figure femminili di maggior spicco (Akì e Vera). Tali voci danno un contributo fondamentale sia per ricostruire le vicende dei membri della comunità sia per scandagliare alcune tematiche delicate. Non a caso a loro l’autore concede di fare un “grande racconto”.

DOLORE DI DONNE CON VOCE DI DONNE – La sarda Vera ci ricorda, tra le altre cose, che «Servo è chi aspetta qualcuno che venga a liberarlo» e che figlia, moglie e madre sono tutte sfaccettature dell’esser donna, ma che a volte possono confliggere, lacerando l’anima in un modo cui nessuna donna è mai preparata. Mentre è per voce della persiana Akì che nel romanzo entra un argomento drammatico e letterariamente poco “gettonato”: le mutilazioni genitali femminili. A parere del nostro giornale (che con il suo editore, l’associazione di promozione sociale Il granello di sale, porta avanti la sensibilizzazione sul tema anche attraverso il brano “Salindé”) questo è uno degli elementi di maggior pregio del romanzo. Non solo per il fatto in sé di affrontarlo, ma anche per il modo struggente e verosimile con cui lo fa: facendo parlare un’immaginaria vittima di quest’umiliante, incomprensibile e ingiustificabile violenza.

Rabbrividisce e si sdegna il lettore mentre il dramma prende forma: «Rifugio i miei occhi negli sguardi delle madri, testimoni di un rito di pena, che tutte ci punisce. Di cosa, di quando, perché? […] E il mio è il terrore di tutte, mai detto, gridato nei secoli e secoli». E il cuore si stringe a sentirla ancora raccontare: «[…] ho incontrato compagne, mutilate come me, che sapevano il sapore del mio dolore, l’eco della sconfitta che ci risuonava in petto, compagne prese in crociate grandi e piccole, che come me sono state violate, che come me sono state ammutolite, che come me o diversamente da me hanno perso il piacere del corpo e ne hanno inventato uno nuovo. Siamo state tutte figlie di Iside, la dea della maternità, che promette nuova vita, dopo l’oscurità delle notti dei tempi. Siamo figlie del sapere, figlie del presente che accudiscono il passato senza cancellarlo con lo sguardo sull’alba di domani, per farlo migliore. Siamo le tessitrici che hanno ricucito lo strappo con il filo delle parole e il seme della conoscenza».
Con queste toccanti parole – che denotano un grande rispetto ma anche una profonda conoscenza delle donne – Angioni riesce nel difficile compito di rendere tollerabile la descrizione del rito della mutilazione genitale, una delle peggiori violenze che si possano infliggere a una donna. Tra le peggiori perché perpetrata e acconsentita da altre donne, a partire dalle madri delle giovani – spesso bambine – interessate.

primo piano di Giulio AngioniÈ soprattutto grazie al racconto di Mannai Murenu, invece, che possiamo meditare su un’altra forma di violenza, che tocca tutti e che fa da sottofondo all’intero romanzo: la guerra. Sin dalle prime pagine, questo personaggio mette in guardia il suo uditore (con cui ogni lettore subito si identifica): «[…] se ti trovi dentro, odiala con chiarezza. Lo stesso a raccontarla». Perché la guerra è crudele e insensata, ci ricorda Angioni con una semplice ma eloquente riflessione dell’ebreo Baruch: «L’altra notte ho visto i soldati di Pisa che spogliavano un muro dall’edera rossa. E ancora mi chiedo perché».

Mannai Murenu si presenta come portavoce della comunità dell’Isola, ma non pare corretto  considerarlo protagonista del romanzo. Egli stesso certamente non si definirebbe tale e piuttosto attribuirebbe questo ruolo al vecchio saggio del gruppo, Baruch, o a Paulinu, altro fondatore della comunità. Quest’ultimo è, infatti, un servo che si rende libero grazie alla parola, alla scrittura, e che, conquistata la libertà dell’anima, del pensiero, non la perderà più a dispetto degli eventi e degli uomini avversi. Prezioso anche quanto egli ci insegna a proposito della verità: «è come una farfalla, che se la insegui fugge, ma se ti siedi calmo, capace che ti si posa sulla spalla».

È soprattutto Mannai, inoltre, a tramandare l’eredità intellettuale e morale di Baruch. L’ebreo ci ricorda, tra tante cose, che «Il pane è sempre scarso a questo mondo, per i più. Più scarsa per tutti è la verità, ma sempre in eccesso rispetto alla domanda» e che «col denaro non si compra il cuore delle cose, al massimo la buccia. Non compri il sonno se compri il letto […]. Si compra il pane ma non l’appetito […]». Allora come oggi vale anche la sua amara constatazione che «Abbiamo abbastanza religione per odiarci, ma non abbastanza per amarci», dimentichi che – come afferma Paulinu – «La crudeltà delle spade non ha mai autorizzazione dal cielo». E sarà sempre vero pure che «Il guaio […] è quando chi comanda pretende che sia vera una cosa sola delle due, tra l’uguale e il diverso».

L’eredità che principalmente vogliamo cogliere e portare a frutto è, però, quella che ci lascia Akì, donna che sopravvive al dolore e reimpara il sorriso, la speranza: «c’è gente che vuole ancora un mondo dove si può essere aiutati a vivere, ed essere riconosciuti e persino essere anche amati per quello che si è, tutti quanti. Un mondo che non c’è, ma guai a smettere di cercare di farlo esistere, da qualche parte».

 

La foto di Giulio Angioni è di Giuseppe Argiolas

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